• Non ci sono risultati.

Antonio Calbi

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 194-197)

È fresco della sua prima edizione del Festival del teatro greco di Siracusa, in qualità di sovrintendente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Tra i vari ruoli ricoperti nell’ambito del teatro e della cultura, quello di caporedattore del “Patalogo”, l’annuario teatrale edito da Ubulibri, quello di direttore di festival come Mittelfest e Teatro 90 o di conduttore del magazine radiofonico “Fare-spettacolo”, in onda su Rai Radio Tre. È stato inoltre direttore del Teatro Eliseo di Roma (2002-2006) e del Teatro di Roma (2015-2018).

«Bisogna far pagare la gente per il teatro che vuole, ma devi pagare di tasca tua per fare il teatro che vuoi». Cosa pensa di questa frase di Vsevolod Mejerchol’d?

Penso che in parte sia tuttora vera. Nella maggioranza dei casi e anche nella storia dell’ultimo mezzo secolo, il teatro indipendente germoglia per altre vie, fuori dai circuiti e dai teatri ufficiali. Ma è anche in parte vero anche il con-trario. Ci sono stati e ci sono casi in cui il teatro che si vuol fare trova case appropriate, ascolto, attenzione, supporto. La mia storia personale è nel segno del ricambio generazionale, della scoperta e del sostegno del nuovo, proprio perché penso che il teatro debba essere presente al proprio tempo, nei modi che ritiene più opportuni e diversificati. Seppure in perenne difficoltà il teatro è una delle arti con la maggiore resilienza e resistenza.

Nel corso della sua recente esperienza come Direttore del Teatro di Roma, quanti sono gli spettacoli che ha proposto assumendosi un rischio totale, ovvero senza alcuna garanzia di ritorno economico e di apprezzamento da parte del pubblico?

La gran parte, diciamo l’80% della programmazione, molto ricca e articolata, è stata, per così dire, a rischio. La quasi totalità delle nostre produzioni, sia per il teatro Argentina sia per il Teatro India, sono stati progetti di grande fascino ma di incerto esito: il rischio è nel mio dna, e lo dovrebbe essere nella mag-gior parte di coloro che operano nella cultura e nelle arti, altrimenti avremmo soltanto luoghi museali, spettacoli frigidi, che sanno di vecchio, che non par-lano agli spettatori di oggi. Penso a “cantieri” come Ritratto di una Capitale e

Ritratto di una Nazione, con i loro numerosi autori, interpreti, registi. Penso a Ragazzi di vita di Pasolini, uno dei migliori spettacoli degli ultimi anni, entrato

nel cuore del pubblico e premiato con numerosi riconoscimenti. Quando con Massimo Popolizio abbiamo fantasticato questo spettacolo, un vero paesaggio antropologico, omaggio a Pasolini, non avevamo alcuna idea di come sarebbe

andata. Poi il progetto ha preso forma man mano e si è compiuto pienamen-te nella sua esplosione di liricità, verità, leggerezza, emozione, struggimento, semplicità. Un mix raro sui palcoscenici di oggi. Teatro purissimo. E il rischio lo abbiamo corso insieme, anche nel secondo progetto produttivo, Un

nemi-co del popolo, di Ibsen, perché dopo il successo di Ragazzi di vita, pubblinemi-co,

critica, operatori ci aspettavano al varco, per così dire. È invece è stato un grande successo anche questo. Penso a Natale in casa Cupiello diretto d An-tonio Latella, un Eduardo per nulla scontato, anzi il primo Eduardo coerente profondamente con la profondità tragica delle commedie eduardiane ma che ha sdoganato il grande capocomico napoletano dai cliché in cui è stato chiuso. Il più grande Eduardo dopo Eduardo, a mio parere, una grande lezione di regia, di drammaturgia, di direzione degli attori. Penso al monologo L’abisso di e con Davide Enia, da noi sollecitato come tassello di Ritratto di una Nazione -

l’I-talia al lavoro, e diventato uno spettacolo potente e richiestissimo, un pugno

nello stomaco che colpisce lo spettatore, lo frusta di sentimenti ed emozioni, facendolo uscire schiantato. Anche questo è un caso di teatro puro al cento per cento, fatto con niente, senza frizzi e lazzi, senza ipocrisie, che centra pie-namente l’obiettivo. Penso alla ripresa di Viva l’Italia - Le morti di Fausto e Iaio, rimesso in produzione con il Teatro dell’Elfo di Milano. Penso alla program-mazione, al Teatro Argentina, fra i pochi teatri istituzionali, di uno spettacolo come Macbettu di Alessadro Serra, che poi in tanti sono venuti a vedere e lo hanno programmato la stagione successiva, e noi lo abbiamo ripreso con nuovi esauriti. E quell’attore di pregio e scaltro qual è Umberto Orsini l’ha subito coptato per il suo nuovo spettacolo.

Viceversa, può descrivere uno spettacolo che ha proposto proprio perché sicuro di riscuotere il consenso del pubblico?

Nella mia prima stagione (2014-2015), hanno trovato spazio diverse opere “a rischio”, ma ho pensato anche che dovevo stupire in modo più semplice e diretto gli spettatori, e allora abbiamo programmato quella magia per grandi e piccini, senza tempo, che è Slava’s Snowshow. È successo il finimondo, con l’Argentina in festa a tutte le repliche, a giocare con la neve di carta e i pallo-ni giganti e colorati, in una sala del Settecento! Indimenticabile. O Elvira da Jouvet, diretto e interprerato da Toni Servillo, un divo, un attore molto amato dal pubblico, e dunque con sold out garantiti.

Ne La fabbrica del consenso Chomsky ed Herman affermano: «I mass media come sistema assolvono alla funzione di comunicare messaggi e simboli alla

popo-lazione. Il loro compito è di divertire, intrattenere e informare, ma nel contempo di inculcare negli individui valori, credenze e codici di comportamento atti a integrarli nelle strutture istituzionali della società di cui fanno parte». Come pensi che il teatro partecipi a questo meccanismo?

Il teatro irregimentato, il “teatro mortale”, il “teatro della noia”, contribuisce eccome alla “fabbrica del consenso”. E lo fa in diversi modi: dal produrre o programmare titoli conosciuti con attori di grido, o di gusto televisivo, al tea-tro di intrattenimento più futile. Il teatea-tro vero (quello che rispetta se stesso, la sua missione, gli spettatori) è quello che si pone fuori da questi meccanismi, che si mette in gioco ogni sera chiedendo allo spettatore di ridefinirsi come spettatore. Un teatro vivo, vivente, che non dà nulla per scontato, che cerca continuamente la sua necessità nel proprio tempo, che si interroga sul ruolo che deve svolgere in un mondo di valori che si sgretola, in una realtà che è fatta di social freddi e frigidi. Mi piace pensare al teatro come il primo social

network di cui l’uomo si sia dotato, come parlamento sociale, come esperienza

da condividere.

Da settembre 2018 lei è Sovrintendente dell’Istituto Nazionale Dramma Antico di Siracusa. Quale ruolo può interpretare il teatro antico nella nostra società e con quali mezzi lo si può portare a comunicare con la nostra contemporaneità?

Essere approdato alle radici del teatro è una sfida enorme, in un contesto difficile, qual è il nostro Sud, e la Sicilia in special modo. Ma credo che la visione che hanno avuto i fondatori è stata molto innovativa, cioè che dietro al recupero, si fa per dire, del teatro antico, ci fosse la volontà di recuperare le ragioni sociali e politiche originarie di questo rito laico, necessario agli uomini come la vita stessa. Forse si è trattato della prima istanza di un teatro pubblico, di un teatro d’arte per tutti, dal contadino all’aristocratico della Siracusa del secondo decennio del Novecento, quasi in contemporanea con il Teatro del Popolo dell’Umanitaria a Milano, e prima del Piccolo Teatro di Strehler e Grassi. Peter Brook ha annotato che «il teatro è lo specchio delle comunità; e gli specchi non hanno bisogno di cornici». Paolo Grassi, che «il teatro ha bisogno dei cittadini; i cittadini del teatro». Ecco, la semplicità, la bellezza, la funzionalità perfetta e magica della cavea di un Teatro Greco ci ricorda questo assunto semplice e vero. La sfida è far diventare Siracusa un punto di riferimento internazionale del teatro antico al tempo del presente. Ma siamo in Italia! Ci riusciremo? Non lo so ancora, ma vale la pena di provarci. La stagione che si va a chiudere ha superato numero di presenze (150.000 spettatori in

soli due mesi) e incassi al botteghino degli ultimi 20 anni. Qualcosa vorrà dire, no? Vedere il teatro gremito di spettatori, di cittadini, migliaia ogni sera, in piena luce del giorno, con gli attori che ne vedono i visi, appunto alla luce del sole, è qualcosa che lascia stupiti, quasi increduli. Prima questi 4 o 5 mila spettatori, fra i quali un bel numero di ragazzi, fanno la òla da stadio, un baccano che li consolida come comunità, poi all’inizio dello spettacolo sprofondano in un ascolto attento nel silenzio assoluto. Gli autori greci ci arrivano da 2500 anni indietro e sono tuttora potentissimi, attualissimi. È questa una bellezza e un patrimonio da preservare e da sviluppare. Lo si può fare affiancando registi al loro debutto in questo luogo “sacro e laico” insieme, in arrivo da diverse discipline, dal teatro, dal cinema, dalla televisione, dall’opera lirica, dal teatrodanza, a maestri della scena più maturi. Insomma sarebbe bello portare il pubblico del Teatro Greco a farsi rapire tanto da Bob Wilson e da Jan Fabre, da Ferzan Ozpetk e da Antonio Latella, da Massimo Popolizio e Alessandro Serra, da Mimmo Cuticchio e Francesca Comencini, da Luca Guadagnino e Elio De Capitani, da Milo Rau e Amos Gitai, da Dimitri Papaioannou e Krzysztof Warlikowsky. E magari unire in trio in omaggio a Medea, che so, Laurie Anderson, Diamanda Galas, Patti Smith, dirette da Marina Abramovic. Sarebbe bellissimo e farebbe bene a tutti, agli artisti che si misurano con una scala grande come questa, che ti richiede di non tradire te stesso ma al contempo di rapire migliaia di spettatori in una sola sera, e al pubblico che condivide visioni diverse. Il nuovo nel segno dell’antico e l’antico nel segno del nuovo.

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 194-197)