Era il 2010 quando debuttò al Festival Internazionale Castel dei Mondi i
Ca-valieri - Aristofane Cabaret di Mario Perrotta. Dopo Molière (Il Misantropo,
2009), Perrotta decide di rivolgere lo sguardo ancora più indietro nel tempo, alle origini della commedia, per continuare la ricerca e comporre una Trilogia
dell’individuo sociale (conclusa poi con Bouvard e Pécuchet di Flaubert)
che riceve il Premio Speciale UBU nel 2011. Il progetto nasce dalla volontà di indagare una condizione attuale e universale dell’uomo: allo stesso tempo un animale sociale ma anche un misantropo e individualista. La tensione tra que-ste due nature sfocia in una serie di comportamenti nevrotici che si riflettono dalla sfera personale a quella pubblica. Ecco quindi comparire Aristofane: la corruzione dei costumi e lo scadimento della democrazia in populismo sono le derive dell’individuo sociale. In particolare nei Cavalieri il potere del popolo, quindi il prevalere dell’aspetto sociale dell’uomo, non è stabile né durevole, perché la singola individualità brama per prevalere sulla massa: e che vinca il più furbo. Nel suo cabaret aristofaneo Perrotta riprende, smembra e riassem-bla le commedie superstiti del commediografo del V secolo a.C., in un’ottica attualizzante. Sfacciato, pungente, ironico, brutale, il drammaturgo e regista è in grado di riportare Aristofane ai giorni nostri con rispetto, senza reverenze né irriverenze.
I Cavalieri — Aristofane Cabaret è il secondo capitolo della Trilogia dell’indivi-duo sociale, aperta dal Misantropo di Molière e conclusa con Bouvard e Pécuc-het di Flaubert. Perché proprio questi tre testi?
Avevo bisogno di autori che avessero stigmatizzato nella loro opera la dico-tomia apparente tra individuo e società, ovvero tra un atteggiamento indivi-dualista e un atteggiamento di partecipazione collettiva. In Aristofane questa dicotomia è portata alle estreme conseguenze, soprattutto nel rapporto tra personaggio e coro. Allo stesso tempo avevo la necessità di trovare autori e testi che fossero non solo dei classici, ma degli universali.
Lo spettacolo è composto in realtà da un ricco collage aristofaneo, di cui i
Cava-lieri sono solo una parte. Perché allora usarli come titolo?
Perché non potevo farmi sfuggire l’occasione di alludere all’allora Presidente del Consiglio (lo spettacolo è andato in scena la prima volta nel 2010). Mi piaceva l’idea del contrasto forte che c’era tra quel “Cavaliere” e i cavalie-ri acavalie-ristofaneschi, che, essendo il coro, rappresentavano innanzitutto il corpo sociale in contrasto con l’individuo-attore. In particolare rappresentavano la parte nobile della società, lo zoccolo duro per così dire. Certo, conservatore, ma legato a un modo di fare politica onesto, che infatti nella commedia viene rimpianto come l’età della non-corruzione. Con i Cavalieri volevo mostrare un avvenuto degrado del concetto di “cavaliere” dall’Atene di Aristofane all’Italia di oggi. Perché per quanto riguarda la salute della democrazia, invece, il degra-do era identico a quello di oggi.
«Questo non è Aristofane, questo è Aristofane rovistato e scorretto. [...] È un Aristofane preso a prestito, quando serve, altrimenti... bastiamo noi». Con queste parole prende il via il suo spettacolo. Cosa ha preso a prestito da Aristofane?
Di Aristofane va salvato lo spirito, l’attacco frontale ai responsabili di una cer-ta situazione sociale. E il responsabile non è solo il capo politico di turno. Se si legge bene il testo originale, soprattutto nei cori c’è un attacco al popolo, che viene accusato di superficialità e facile corruttibilità. Di Aristofane ho voluto conservare questo modo di leggere le dinamiche del potere e della società. Ho notato poi che nei testi di Aristofane la partizione della vicenda narrata ritorna sempre uguale: si parte da uno status quo di disordine o scontento, c’è un personaggio che se ne lamenta ma non rimane inerte, regisce attraverso la
messa in atto di un’utopia, che si conclude quasi sempre in minore. La com-media termina con il lieto fine, è vero, ma, dietro il clima apparentemente festoso, ogni finale si presenta come deturpazione e scadimento dell’iniziale utopia. Prendiamo i Cavalieri: nella grande contesa politica tra Paflagone e il Salsicciaio, che sembra dover preludere a una grande ventata di democrazia, alla fine Popolo sceglie tra i due non per ragioni politiche, ma perché preso per la gola e per il bassoventre. E se è vero che la conclusione risponde al piano iniziale, liberarsi del Paflagone, per farlo si è scesi a patti con un uomo più roz-zo di lui. Il meccanismo è sempre lo stesso, in tutte le commedie di Aristofane. Quindi ho scelto di mantenere questa ripartizione nei quattro capitoli in cui è suddiviso lo spettacolo, partendo dalla nostra situazione attuale e descriven-dola attraverso piccoli squarci di tutti gli status quo iniziali delle commedie di Aristofane: ho creato così un “Aristofane cabaret”.
Probabilmente la riscrittura e l’adattamento sono state rese più agevoli dal fatto che le commedie di Aristofane continuano ad essere estremamente attuali nei loro contenuti.
Senza dubbio. Prendiamo sempre i Cavalieri: non è servito molto per riadat-tarlo. Mi è bastato spostare l’agone tra i protagonisti in una tribuna politi-ca familiare al pubblico d’oggi, in una trasmissione televisiva. E riscrivere le argomentazioni dell’agone politico utilizzando slogan, immagini e tic verbali di oggi. Ma la sostanza è rimasta la stessa: argomenti bassi e beceri. E oggi come allora, nonostante la satira o gli intellettuali cercassero di mostrare a quale storture andava incontro il mondo democratico, il popolo continua a dare consenso a quel Cleone di cui ride a teatro (o davanti alla televisione).
Come è entrato in contatto con il testo di Aristofane? E quali criteri l’hanno gui-dato nell’adattamento per la scena contemporanea?
Ho letto più traduzioni. Purtroppo non avevo gli strumenti per affrontare di-rettamente il greco antico, altrimenti avrei provato a tradurre il testo da solo come ho fatto con Molière. Poi ho rielaborato il tutto con la mia lingua. In questa trilogia ho usato un criterio unico per tutti e tre gli autori: nessuna reverenza filologica, che secondo me è fuori luogo a teatro. Ho messo le mani sopra, cercando di rispettare lo spirito. Spero di esserci riuscito.
Come ha affrontato invece gli aspetti formali della commedia di Aristofane? Ad esempio la varietà di metri e registri linguistici?
Ho cercato di variare le fasi dello spettacolo tra prosa e versi, usando anche il supporto della musica e della metrica italiana. In alcuni punti ho inserito la versificazione in rima. La metrica era fondamentale nel canone stilistico della commedia e della tragedia greca, dove il metro cambiava a seconda del-le esigenze drammaturgiche. Non potevo ignorare questo aspetto, quindi ho cercato di riprodurlo con i mezzi a mia disposizione, cercando l’altezza lirica del verso laddove Aristofane la esigeva e raggiungendo anche la bassezza del quotidiano e popolaresco. Ho reso la lingua viva tramite l’uso dei dialetti, spa-ziando da nord a sud.
Aristofane parlava alla città della città, la platea a cui si rivolgeva era lo stesso corpo civico che componeva le assemblee. Il suo era un teatro politico stricto
sen-su: investito di un ruolo in un certo senso educativo, sicuramente finalizzato alla
riflessione al di là della risata. Oggi il teatro può ancora ricoprire un ruolo simile?
Certo che sì, basta averne il coraggio. Col mio adattamento ho potuto saggiare un po’ di quello che doveva significare per Aristofane portare in scena le sue commedie, smuovere l’animo dell’opinione pubblica.
Anch’io fui denunciato: una deputata di Forza Italia, tra l’altro nemmeno dopo una visione autoptica, disse che con il mio spettacolo traviavo le menti dei ragazzi, perché era pieno di volgarità. Evidentemente non aveva mai letto l’originale di Aristofane. Poi, per par condicio, anche l’altra parte politica mi attaccò, perché sbeffeggiavo noti personaggi del PD. Nello spettacolo ho fatto satira di ambo le parti, trasportando nelle maschere di Paflagone e del Salsicciaio i leader sia della destra che della sinistra, camuffandoli alla maniera di Aristofane, magari rendendoli riconoscibili grazie alla cadenza del parlato o ai riferimenti a fatti precisi nei loro discorsi.
Aristofane portava sulla scena la polis, certo in un contesto festoso e carneva-lesco, ma pur sempre con grande spirito critico. E per questo è stato criticato e denunciato, come lui stesso ci fa sapere nelle parabasi. Eppure non ha mai smesso di fare satira. Può essere un esempio per noi moderni: se si vieta all’arte la libertà di scegliere i suoi temi e soggetti, allora non ha più senso che esista?
Esattamente. Aristofane nelle sue commedie chiamava in causa i personaggi più in vista della città, davanti a tutto il popolo ateniese, presente nel teatro
di Dioniso. Per questo il teatro era la scuola democratica di Atene, grazie a questa libertà. Probabilmente, ciò che sciocca di più gli spettatori di oggi è vedere sul palcoscenico di un teatro lo spettacolo macabro della realtà, che ha così assopito le loro menti da risultare normale nella quotidianità. Perché chi porta questa realtà a teatro, per di più sotto l’egida di un nome classico, desta scalpore? Perché a teatro, ormai da molti ritenuto luogo di piacevole evasione, “non sta bene”. Mi domando: perché invece nei palazzi del potere o in altri luoghi tutto questo è concesso?