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di Chiara Grizzaffi

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 173-177)

Non andrebbe nemmeno ricordato come la commedia italiana, produzione popolare per eccellenza, venga spesso considerata come un genere cinema-tografico in grado di restituire con grande precisione — pur declinandoli in chiave grottesca, ironica, qualche volta più sobriamente realistica — i tic, gli umori, le paure, le ipocrisie e le meschinità dei ceti popolari, della buona bor-ghesia, degli outsider o degli uomini di potere. Se la commedia è sostanzial-mente democratica, insomma, nello scegliere i propri bersagli, è innegabile però che i politici siano fra le vittime privilegiate dello sguardo deformante e impietoso della macchina da presa e di un meccanismo, quello comico, che si nutre di iperboli, di paradossi, di rovesciamenti, e perciò è tanto più indicato a portare alla ribalta il retroscena del potere. La maschera del politico ipocrita, “intrallazzone”, pronto a ogni sorta di nefandezza ha una lunga tradizione nel nostro cinema: si pensi all’episodio de I mostri (Dino Risi, 1963) intitolato, significativamente, La giornata dell’onorevole, in cui un politico talmente re-ligioso e morigerato da soggiornare addirittura in un monastero — allusione a una sua appartenenza al partito democristiano — riesce senza compromet-tersi a impedire che si denunci un appalto truccato; o a Vogliamo i colonnelli (Mario Monicelli, 1973), satira sferzante sul terrorismo eversivo e la minaccia del colpo di stato chiaramente legata al clima degli anni di piombo; o ancora a certe rappresentazioni di Tangentopoli che, pure quando vengono traslate in un contesto storico distante come quello dell’antica Roma (S.P.Q.R. - 2000

e ½ anni fa, Carlo Vanzina, 1994) restano facilmente riconoscibili. Di contro,

certe maschere comiche che rappresentano, invece, il cittadino, l’uomo co-mune, sono caratterizzate dal disinteresse quando non da una palese sfiducia nei confronti delle istituzioni. Pensiamo a un personaggio estremamente po-polare come Fantozzi: vessato dai padroni, umiliato da superiori e colleghi, il povero impiegato che non aveva trovato conforto nella fede comunista negli anni ’70 (Fantozzi, Luciano Salce, 1975) finisce per impazzire, poco meno di dieci anni dopo (in Fantozzi subisce ancora, Neri Parenti, 1983), di fronte al moltiplicarsi delle sigle e dei volti che affollano i teleschermi durante la cam-pagna elettorale. In stato semiallucinatorio, si convince che nessuno fra i vari Spadolini, De Mita, Almirante, Craxi o Andreotti ha davvero a cuore le sue sorti, e il giorno delle elezioni opta per l’unica forma di protesta possibile ai suoi occhi: entra in cabina elettorale e tira lo sciacquone.

Ma se il politico in grisaglia della prima repubblica si prestava moltissimo alla caricatura e alla messa alla berlina liberatoria, la crescente mediatizzazione della politica, unita all’affacciarsi sulla scena di personaggi che ne hanno ali-mentato e cavalcato la spettacolarizzazione, rischia di disinnescare le armi a disposizione della commedia. Già una figura come quella di Berlusconi, con il suo istrionismo, il suo continuo ricorso a una forma comica come la barzelletta per sedurre l’elettorato, sembra poter essere raccontata solo, per contrasto, in forma drammatica o grottesca (Il caimano, Nanni Moretti, 2006; Loro e

Loro 2, Paolo Sorrentino, 2018). Ma è con la comparsa di Grillo sulla scena

politica che avviene il cortocircuito definitivo, come scrive Luisella Farinotti nel 2013 quando il Movimento 5 Stelle raggiunge il suo primo, importante risultato alle politiche:

Grillo uomo politico è un narratore dell’assurdo quotidiano, un analista della dimensione esilaran-te che ha assunto la nostra realtà. La sua forza comunicativa è soprattutto nella derisione, nell’ab-bassamento dell’avversario, e si organizza su abili strategie spiazzanti, con continui ribaltamenti di attese […], giochi di parole, freddure, e tutto il repertorio di un istrionismo evidentemente efficace, di questi tempi, in questo clima culturale e nel nostro paese. Abile intrattenitore, ca-pace, come i comici della commedia dell’arte, di adattare i canovacci imbastiti dai suoi autori al pubblico della serata, come al linguaggio della rete, ai suoi tempi veloci, alle sue logiche per slogan, alla sua semplicità evidente, Grillo è l’animatore, nel senso pieno del termine, del movimento, il suo volto e la sua identità, al punto che si parla quasi esclusivamente di lui per comprendere l’intero fenomeno1.

Un istrionismo, quello di Grillo, che Farinotti definisce “populista” perché si manifesta nel carisma di un leader che si cimenta perfino in certe grandi

1 L. Farinotti, L’isteria populista: maschere e forme dell’istrionismo politico al cinema, “Compol” 1 (gennaio-aprile) 2013, pp. 163-164.

imprese à la Mussolini (la traversata dello Stretto di Messina), nel disprezzo assoluto dei politici di professione e in un costante ricorso all’invettiva come forma espressiva e, di nuovo, comica2.

La commedia degli anni dieci del Duemila sente il “vento del cambiamento”, annusa la deriva populista e prova a trasporla sullo schermo, proponendo ma-schere politiche sempre più sinistramente caricaturali o, viceversa, raccon-tando di improbabili successi di politici improvvisati, di uomini comuni che riescono a far il bene della società. Di qui l’approdo al grande schermo del personaggio di Cetto Laqualunque (Antonio Albanese), un politico calabrese corrotto che non tenta neppure di celare i suoi bassi istinti, ma li traduce in slogan da campagna elettorale. A Cetto fanno da contraltare figure come quella interpretata da Claudio Bisio in Benvenuto Presidente: ritrovatosi per caso a rivestire la massima carica dello Stato, lo sprovveduto Peppino (questo il nome del personaggio) finisce per fare scelte che riportano la speranza e la fiducia nel Paese.

A ben vedere, queste due caratterizzazioni antitetiche prefiguravano, in fon-do, due aspetti chiave di come l’attuale compagine politica al potere tende a rappresentarsi: l’aggressività, l’arroganza e il machismo da un lato, l’ingenui-tà e la mancanza di esperienza politica come sinonimi di onesl’ingenui-tà dall’altro. Di fronte a questo nuovo soggetto monstre creato dalla politica nostrana, però, perfino il cinema sembra arretrare. Le cronache, del resto, sono zeppe di vi-cende paradossali che perfino il più ardito degli sceneggiatori faticherebbe a concepire: da quella degli operai assunti in nero dal padre di Di Battista alla saga della mancata restituzione, da parte di diversi deputati, dei rimborsi elet-torali che il Movimento si è autoimposto, dall’ex-marito di Cécile Kyenge che si candida tra le file della Lega — un partito nel quale ci sono alcuni politici ac-cusati di aver gravemente insultato la sua ex moglie — ai selfie intimi di Salvini. Così anche quella che si potrebbe definire un’instant comedy che per la prima volta fa nomi e cognomi di politici in carica, Natale a 5 Stelle (Marco Risi, 2018), finisce per tradire le attese. Ambientata a Budapest, l’ultima fatica dei fratelli Vanzina (girata da Risi per via della malattia e poi della scomparsa di Carlo) ha come protagonista un premier-fantoccio, interpretato da Mas-simo Ghini, costantemente impegnato in faticose telefonate di mediazione fra Salvini e Di Maio, e per di più deciso a iniziare una relazione con una de-putata del PD. Il riferimento al governo gialloverde e a Conte è esplicito, non una semplice allusione, ma ben presto il film abbandona la satira politica per

2 Ivi, p. 164. Sulla comicità della barzelletta e dell’invettiva, e suoi loro rapporti col cinema, si veda anche G. Canova, Quo chi? Di cosa ridiamo quando ridiamo di Checco Zalone, Monza - Brianza, Sagoma, 2016. Sempre a Ca-nova si deve, inoltre, una disamina dei rapporti fra cinema e potere in Divi duci guitti papi caimani. L’immaginario del potere nel cinema italiano, da Rossellini a The Young Pope, Milano, Bietti, 2018.

trasformarsi in un’innocua pochade d’altri tempi: la distanza geografica (una Budapest che sembra l’equivalente di certe corti europee dei film di Lubit-sch), il ripiegamento nelle disavventure sentimentali dei suoi personaggi e il ricorso a una comicità fisica (svenimenti, botte in testa) disinnescano molto rapidamente la portata “esplosiva” dei riferimenti politici presenti nel film. Se, insomma, un immaginario comico che tenti di replicare, di imitare la realtà politica del Paese rischia inevitabilmente di non tenere il passo con quanto di grottesco, di surreale, di tragicomico i media ci raccontano quotidianamente, allora tanto vale guardare al passato, al grande rimosso della storia italiana, e resuscitare il leader populista per eccellenza, Benito Mussolini. È quanto fa Miniero in Sono Tornato (2018), commedia che immagina le conseguenze del ritorno del dittatore nell’Italia di oggi. Col suo misto di machismo, crudeltà, smarrimento e apparente ignoranza delle logiche di funzionamento della po-litica di oggi, il Mussolini di Massimo Popolizio è la sintomatica, terrificante effigie del nuovo populismo che avanza.

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 173-177)