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di Maddalena Giovannelli

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 141-145)

È il 1988 quando Noam Chomsky dà alle stampe il suo Manufacturing Consent:

The Political Economy of the Mass Media, tradotto in italiano con il fortunato

titolo La fabbrica del consenso (ora disponibile nell’edizione de il Saggiatore). Il volume, che a trent’anni di distanza non ha perso attualità e acume, indaga il ruolo dei mass media nell’orientare l’opinione pubblica. Chomsky, passando in rassegna le tecniche utilizzate per produrre consenso intorno al potere, si sofferma anche sul ruolo dell’intrattenimento. Il nesso tra gradimento e con-senso, tra un’esperienza appagante e la predisposizione a non manifestare la propria opposizione, è una questione tutt’oggi cruciale anche per le arti

per-formative. Per questo motivo abbiamo deciso di titolare questo numero “La

platea del consenso”, con un omaggio al profetico Chomsky del 1988: nelle pagine che seguono abbiamo provato a interrogarci sul ruolo dello spettacolo dal vivo oggi, individuandone gli aspetti che paiono riprodurre i meccanismi della propaganda e quelli che invece riescono ad acquisire un potenziale di eversione.

Le platee d’Italia sono davvero luoghi di non-adesione alle ideologie dominan-ti? Il teatro riesce, come vorrebbe la vulgata, a produrre un disvelamento delle contraddizioni? Oppure tra le gradinate dei teatri si ricade in meccanismi del tutto simili a quelli adottati dai mezzi di comunicazioni mainstream?

La risposta, naturalmente, non è immediata. Perché per gridare dal palco che “il re è nudo” bisogna aver chiara l’identità del re. Ma nel capitalismo il re è il mercato — lo aveva capito già Adam Smith nel Settecento — e neanche il teatro può sottrarsi alle sue regole. Anzi. Deve impararle sempre meglio, introiettarle, e provare a metterle in pratica se vuole restare vivo. Piacere al pubblico, quindi, piacere il più possibile, piacere ad ogni costo. Ma a che prezzo?

I Cavalieri di Aristofane (a cui è dedicata un’intera sezione, supra) ci spiegano bene che il rapporto con il pubblico è questione politica. Popolo, il personag-gio-personificazione che occupa il trono della commedia, è allo stesso tempo il cittadino e lo spettatore: un interlocutore dispotico e volubile da blandi-re, soddisfablandi-re, ingannare. Chi vuole ottenere il suo favore — sul palco, come sull’arena politica — deve saper sfoderare trucchi e cialtronerie

(kobalikeuma-ta); e nei Cavalieri la figura del buffone (bomolokos) e dell’imbroglione

politi-co (alazòn) arrivano non a caso a politi-coincidere. I recentissimi traspoliti-corsi politici ci rendono ben familiare la sovrapposizione tra la figura dell’attore comico a quella del politico; ma quanto è importante, sulle scene, conquistarsi la bene-volenza di Demo-spettatore? Si può istigare al dissenso chiedendo consenso? Il popolo-spettatore di oggi, più ancora di quello di allora, chiede di non resta-re fermo sulla sedia a guardaresta-re, ma di parteciparesta-re e diresta-re la propria. La politica lo accontenta, e così fa anche la performance: sulla scena contemporanea (lo racconta, infra, Oliviero Ponte di Pino) si moltiplicano dispositivi interat-tivi, dove è il pubblico a decidere le regole del gioco. Nei casi più fortunati, il fenomeno della partecipazione viene posto in prospettiva critica, e ne ven-gono illuminati gli aspetti più politicamente ambigui. Altrove, a prevalere è la dimensione ludica, e l’obiettivo pare quello di intrattenere con gusto uno spettatore refrattario a sedersi in platea. Divertirsi, ridere e scherzare senten-do il retrogusto dell’attualità e dell’impegno politico: questo sembra chiedere oggi lo spettatore. È un segreto — quello del saper rappresentare le storture del presente giocandoci sopra con leggerezza — che la satira italiana conosce molto bene. La rivista “Tirature” ha dedicato nel 2015 un dossier a Gli

intel-lettuali che fanno opinione: tra i casi analizzati (Maurizio Crozza, Luciana

Lit-tizzetto, Francesco Piccolo) colpisce una netta prevalenza di figure che fanno uso del comico, con una sicura capacità di aderire al sentire nazional-popola-re, e di additare meschinità e ipocrisie generando consenso. L’arte di guardare il potere e se stessi con ironia ma anche con un pizzico di autoindulgenza è del resto l’ingrediente base della commedia cinematografica italiana (lo ri-cordano, in queste pagine, Chiara Grizzaffi e Elena Gipponi); qui i difetti dei potenti trovano sponda nelle debolezze e nell’amore per le comodità degli

elettori-spettatori, che si riconoscono e bonariamente sorridono. La parodia, quando è efficace, implica del resto l’introiezione del modello di cui si fa ca-ricatura: non si riesce a mettere alla berlina gli altri ponendosi su un piano di intelligente distacco. Per questo — ne ragiona Massimiliano Civica, infra — gli esiti più interessanti e radicali si trovano quando «sparisce la distanza tra chi fa parodia e chi è oggetto di parodia». È il caso di Petrolini, e della sua intelligen-te idiozia, con la quale aggira tutintelligen-te le trappole del senso comune; ed è anche la postura di una delle ultime icone del panorama musicale indie pop, Miss Keta (ne scrive Alessandro Iachino, infra), che abbraccia splendori e miserie delle cortigiane di Mediaset. Il rischio, beninteso, è che tra la riproposizione paro-distica del modello e la completa adesione la differenza non si colga; o che il distanziamento critico resti un’intenzione artistica invisibile al fruitore. Ma, in definitiva, l’impatto di un atto comunicativo (anche controcorrente) continua a misurarsi in numeri: biglietti e dischi venduti, visualizzazioni e like. I bandi per i finanziamenti ai teatri chiedono dati quantitativi, le amministrazioni co-munali contano i biglietti strappati e il rischio di una scelta non compiacente ai gusti del pubblico rischia di costare molto cara: leggerete, nelle prossime pagine, cosa ne pensano i direttori dei maggiori teatri italiani.

Il peccato che la nostra “platea del consenso” sembra sempre meno disposta a tollerare non è l’espressione di critica o malcontento; ma piuttosto l’invisibilità e l’incapacità di comunicare.

Fate pure la rivoluzione, l’importante che sia glamour e (possibilmente) in

Crisi della democrazia, nuova

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 141-145)