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Roberto Cavosi

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 119-124)

Durante la stagione teatrale 2017/2018 il Teatro Stabile di Bolzano ha propo-sto ai suoi spettatori di scegliere quale sarebbe stato l’ultimo spettacolo in car-tellone. Come? Grazie all’idea di Roberto Cavosi di indire un concorso, “Wor-dbox Arena. Lo spettacolo lo decidi tu”, che prevedeva la proposta di tre testi tra cui decretare il vincitore. Durante il mese di ottobre a Bolzano è sembrato quasi di tornare agli agoni teatrali antichi. Ogni giovedì venivano proposti agli spettatori estratti dai tre titoli in gara (Cavalieri, Don Chisciotte e un testo di drammaturgia contemporanea J.T.B., di Lorenzo Garozzo), affidati all’a-bilità di interpreti quali Andrea Castelli, Fulvio Falzarano, Antonello Fassari, Michele Nani e Mario Sala. Scena spoglia e pubblico sul palco con gli attori: che contando solo sulla voce gli interpreti hanno dovuto affrontare epoche, vicende e forme testuali completamente differenti. Raccolte tutte le votazioni del mese è risultato vincitore i Cavalieri di Aristofane, andato in scena dal 3 al 20 maggio 2018 a Bolzano, per la regia dello stesso Cavosi. Raccolti i frutti di questa esperienza, ci siamo confrontati con il regista sulla fortuna di una commedia sorprendentemente attuale, ma spesso dimenticata.

I Cavalieri sono stati messi in scena dopo aver ottenuto il 45,5% delle prefe-renze dei votanti. Come si spiega la vittoria di una commedia antica e così poco conosciuta?

In gara c’erano tre testi molto diversi tra loro. Don Chisciotte, è un testo che potremmo definire quasi lirico, sicuramente cavalleresco. J.T.B. di Lorenzo Garozzo, invece trasporta in un mondo underground e ribelle come quello del rock. Infine i Cavalieri, comico e graffiante, batte su argomenti incredibilmen-te attuali e quindi coinvolgenti. La vittoria di quest’ultimo è stata schiaccianincredibilmen-te soprattutto grazie ai voti dei ragazzi delle scuole: il 70% circa ha votato Aristo-fane. Non è tanto un retaggio scolastico: i Cavalieri conquistano perché sono una commedia dirompente, profeticamente attuale. E fanno ridere, tanto.

I Cavalieri descrivono uno scenario politico che si presta a facili sovrapposizioni con la nostra realtà. Eppure è ambientata nell’Atene del V secolo, con puntuali riferimenti a fatti e personaggi del tempo. Come ha deciso di rendere i grecismi più strettamente legati alla realtà storica dell’epoca di Aristofane?

Ho tagliato parti del testo per renderlo più scorrevole ma non ho aggiunto molto. Non ho inserito troppe spiegazioni o attualizzazioni. Il testo non deve essere snaturato da un adattamento estremista o partigiano. Non deve nemmeno essere didascalico, altrimenti perderebbe la forza comica. I punti di contatto tra Aristofane e la nostra quotidianità emergono da soli, grazie alla forza dell’azione. Certo, in alcuni casi ho tradotto liberamente, suggerendo un possibile parallelo. Ad esempio ho reso rhètoras con “deputati e senatori”, oppure ho sostituito gli oracoli di cui va pazzo Popolo con delle statistiche. Ho tolto la parabasi, dove Aristofane dava spazio alla lode dei cavalieri come rappresentanti della nobiltà, con un’idea politica elitaria. Avrebbe allontanato il pubblico di oggi. Ma tutto il resto è facilmente riconoscibile, senza dover effettuare sostituzioni di nomi o fatti antichi con quelli di nomi e fatti contemporanei.

Infatti ha scelto di eliminare il coro dei cavalieri e sostituirlo con due personaggi senza nome, identificati come “gli onesti”.

L’ho fatto innanzitutto per un’esigenza pratica: non avevo il budget necessa-rio per portare in scena un coro. Da questa urgenza materiale è nata anche una riflessione di contenuto. Non potevo certo eliminare del tutto l’azione di contro-canto svolta dal coro. Allora ho trasformato il coro dei cavalieri in

due personaggi che ho chiamato “onesti”. Li ho immaginati come dei radical

chic vuoti di contenuto. I cavalieri nell’Atene del V secolo erano la classe

con-servatrice che voleva rovesciare la democrazia per tornare ad una compianta

élite oligarchica. Ma nel gioco comico creato da Aristofane risultano quasi

dei reazionari falliti: appoggiano un demagogo peggiore di quello che vogliono scacciare, e nulla cambia. I miei onesti sono il loro corrispettivo dedicato al pubblico di oggi.

Dal punto di vista della traduzione, quali sono stati i criteri che l’hanno guidata per l’adattamento di un testo così complesso dal punto di vista linguistico?

La difficoltà maggiore è stata rendere attuale la lingua senza svilirla. Non ho voluto caricare il testo con aggettivi e modi di dire di oggi. Ho voluto rendere la mia traduzione forte e attuale, ma mantenendola alta e in un certo senso antica. Penso che nel mettere in scena un testo del genere sia necessario cre-are un senso archetipale nel pubblico. Quindi tenere le distanze pur avvicinan-dolo, non svilirlo né renderlo aulico. Quel che bisogna ricordare è che la com-media non è meno universale della tragedia: è l’archetipo della democrazia.

Il suo adattamento ha il coraggio di non stemperare la volgarità tipica di Aristofa-ne: quali sono state le reazioni del pubblico?

Il turpiloquio è il succo di Aristofane. La sua commedia riporta in scena la stra-da, come contraltare alle vette olimpiche della tragedia. Di volgarità ne ho tol-ta, rispetto all’originale. Il pubblico non si è scandalizzato. Anche perché quan-do si parla di strada una certa volgarità è inevitabile, rappresenta l’incapacità di chi parla di guardare la vita con altri strumenti se non quelli dei bassi istinti.

I Cavalieri mettono in scena la degenerazione della democrazia in populismo at-traverso lo scontro tra i due protagonisti, il Salsicciaio e il Paflagone. Soprattutto con Paflagone, Aristofane crea la maschera del demagogo, stilizzando i comporta-menti di Cleone, il capo democratico del tempo. Questo personaggio è comprensi-bile ancora oggi? Oppure andrebbe attualizzato?

Non è tanto il singolo personaggio, quanto l’intera commedia, ad essere ancora immediata. Non sono necessarie attualizzazioni, forzature o didascalie. Il Paflagone è un “tipo” che può tranquillamente viaggiare nei secoli senza che sia necessario svelare ogni volta a quale politico faccia riferimento. Questo è il genio della commedia di Aristofane: crea tipi, non mette in scena persone.

Non c’è verticalità nei personaggi, perché non c’è uno scavo psicologico. L’universalità è nelle tematiche rappresentate. I “tipi” che agiscono in scena sono stilizzazioni di comportamenti universali. Certo, Paflagone non sarà mai un archetipo come Edipo. Ma ogni volta che vedremo i Cavalieri ritroveremo situazioni che appartengono ad ogni tempo ed ogni società e potremmo riempire la maschera con il volto a noi più affine.

Perché inserire Aristofane come personaggio nella sua messa in scena?

Mi serviva un musicista in scena. Da quest’urgenza è nata l’idea di creare il personaggio di Aristofane. L’ho messo dentro un bidone della spazzatura a suonare e pronunciare poche frasi in greco antico, senza essere compreso e riconosciuto dagli altri personaggi. È un personaggio che pur creato ex-novo è diventato funzionale alla vicenda, dando spazio a una riflessione meta-tea-trale. Quell’Aristofane buttato tra i rifiuti, inascoltato, è la metafora dell’i-gnoranza e dell’assenza di profondità storica, il male del nostro tempo. Anni fa ho incontrato uno studente dell’accademia che diceva di annoiarsi a teatro, perché gli sembrava di vedere sempre la stessa cosa. Allora gli ho suggerito di leggere Antigone. Ma anche Antigone gli sembrava sempre la stessa cosa. E qui l’ho corretto: è tutto la stessa cosa di Antigone, perché l’origine del teatro è nell’antico. Nessuno si domanda più da dove arrivi il teatro, quali siano le radici della nostra cultura.

E quali sono le radici che si ritrovano nel teatro di Aristofane?

Senza dubbio in Aristofane c’è già tutto il teatro comico. Dalla satira al ca-baret. Nei Cavalieri il monologo del Salsicciaio che riporta quanto successo all’assemblea, mimando i modi dell’avversario e le reazioni dei presenti, è una brillante performance di cabaret.

Quali sono, secondo lei, gli esempi di teatro contemporaneo che più hanno attinto e imparato dalla lezione del teatro comico di Aristofane?

Nel contemporaneo la lezione comica di Aristofane si trova più in programmi televisivi — penso ad esempio ad una certa satira politica — che in manife-stazioni teatrali. Il teatro sembra essersi adagiato su meccanismi sclerotizzati.

È ancora possibile un teatro politico?

È difficile rispondere. Spesso sembra che il teatro abbia rinunciato all’analisi della realtà, forse a vantaggio del cinema o della televisione. Anche se que-sto causa inevitabilmente la perdita di quel senso di partecipazione collettiva caratteristica del teatro antico. Gli spettatori del teatro di Dioniso erano gli stessi uomini che sedevano alle assemblee democratiche. Il teatro nella Gre-cia del V secolo era un evento politico tanto quanto lo era un comizio. Con la differenza che durante una commedia l’autore svela tutte le storture della macchina democratica, mettendo in guardia i cittadini da retorica, demago-gia, corruzione. Se la commedia potesse rinascere in questa direzione, per-sonalmente ne sarei felice. La satira attuale è molto ovattata, spesso invece che graffiare rende quasi simpatici i personaggi. Aristofane, invece è di una cattiveria unica. Ma soprattutto sa unire la risata sguaiata alla riflessione più amara. Riuscire a creare un divertimento intelligente è una delle cose più dif-ficili: Aristofane è uno dei pochi ad esserci riuscito.

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 119-124)