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Incomprensione o mancata assonanza? Osservazioni su alcuni casi esemplari

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 166-173)

Alcuni progetti scenici per il Teatro Greco possono costituire le pietre miliari del cambiamento: “ascoltando” il respiro delle pietre soluzioni non mimeti-che sostituiscono l’assenza al completamento, producendo straniamento e astrazione. L’orchestra con la sua forma circolare è la porzione di spazio che informa la maggioranza dei recenti allestimenti. Giorgio Panni vi costruì un disco specchiante tra i ruderi, portando le azioni, tra doppiezza e ambiguità, su un praticabile site specific: la palude acherontea per le memorabili Rane di Roberto Guicciardini (1976). Probabilmente la magistrale interpretazione di Tino Buazzelli affascinò il pubblico al punto che questo non lamentò l’appa-rente vuoto scenico lasciato da questa soluzione innovativa, integrata e non invasiva, priva di finalità narrative.

La scenografia difficilmente costituisce elemento di critica; né la stampa né il pubblico ne parlano; quest’ultimo forse non ne è colpito o a volte non pos-siede strumenti per valutarne l’efficienza e la coerenza. I costumi lasciano un segno più profondo perché la maggioranza degli spettatori segue con lo sguardo gli attori nei loro movimenti e ciò che indossano diviene

fondamen-Le rane di Aristofane, regia di Roberto Guicciardini, scena di Giorgio Panni, Teatro Greco di

tale memoria; forse perché sui costumi si costruiscono aspettative legate ad una sorta di iconografia sedimentata. La scena assume il ruolo di spazio che accoglie, che rende possibile l’agire, e tranne in casi eclatanti dove la presenza è schiacciante e monumentale, generalmente non desta un apprezzamento condiviso, anzi passa inosservata.

Il titolo della tragedia sicuramente crea un appeal: le tragedie più famose ed amate sono attraenti e producono consenso già nella sola scelta. Opere meno rappresentate, che nei secoli hanno subito meno riscritture anche nel teatro, sono sicuramente più a rischio per la loro minore popolarità. Sono scommes-se che l’INDA porta avanti attraverso una politica che associa titoli, attori e registi, cercando di sviluppare la ricerca e la sperimentazione; relativamente ai titoli meno conosciuti gioca la carta del nome famoso: garanzia di un buon prodotto ma anche richiamo di pubblico.

Caso emblematico Trachinie di Sofocle: messa in scena nel 1980, era stata rappresentata solo una volta nel 1933 con le scene di Duilio Cambellotti; si puntò su nomi eccezionali: lo sguardo innovativo del regista Giancarlo Cobelli, una traduzione «tutta sostanza» in un «prevalente tono mediano» di Umberto Albini e Vico Faggi, una eccezionale Valeria Moriconi nel ruolo di Deianira che, beniamina del pubblico, raccoglierà da sola lodi concordi. Queste scelte operate da Giusto Monaco, in un momento in cui l’INDA procedeva verso «una fase di rinnovamento delle messe in scena, con i rischi che ciò comporta, ma anche con l’immissione di forze ed idee stimolanti», costituivano l’inizio di un work in progress dal quale l’istituto attendeva remunerazione attraverso «l’emergere di una linea che qualificasse per pienezza culturale e trasparenza artistica il lavoro scenico»15. Questo programma non bastò ad appagare il pub-blico, sorpreso impreparato da una impostazione scenica d’avanguardia che, nell’intento di una “finzione in evidenza” rese visibili a scena aperta il mon-taggio e lo spostamento di alcuni elementi. La scenografia affidata a Paolo Tommasi produsse non poche critiche: un «gigantesco drappo di stoffa grigia, come un mare di fango»16; «un grande piatto lavico»; «una Tessaglia tutta ru-ghe e crepe e anfratti, quasi una landa lunare»17; una superficie dalla «consi-stenza grumosa e argillosa, seminata di utensili primitivi e di corpi immobili confusi con la terra»18. Il coro, «[...] le fanciulle di Trachis, è invece formato

15 O. Bertani, Le Trachinie di Sofocle al Teatro greco di Siracusa. Un mondo senza speranza, in “Avvenire”, 4 giugno 1980. Materiale gentilmente concesso dal Fondo di documentazione del Centro Studi e Attività Teatrali Valeria Moriconi di Jesi.

16 L. Romeo (Il Tempo, Roma) in “Rassegna stampa”, “Dioniso. Rivista di Studi sul Teatro antico”, vol. LI, Siracusa, Archivio AFI, 1980.

17 G. Davico Bonino (La Stampa, Torino), ivi.

18 S. Colomba, Le Trachinie al Teatro Greco di Siracusa. Le fatiche di Deianira. Il regista Giancarlo Cobelli ha puntato eccessivamente sugli effetti scenografici. Una traduzione che ha reso più difficile il lavoro degli attori, in “Il resto del

da un gruppo di donne un po’ gaglioffe, disarmoniche, itteriche e striscianti come se la statio erecta non fosse il segno primario dell’abitatore della terra del Logos»; su esse si è esercitata un’ipotesi di lavoro musicale condotta da Salvatore Sciarrino che, «tra colta sgradevolezza di suoni» e «cancellazione dell’udibilità», le rende preda ad «un’agitazione isterica e una confusione so-nora, che alla lunga annoiano»19.

La recitazione “troppo urlata” sulla scena portava la lingua poetica a frasta-gliarsi, con toni variabili tra afasia e canto, che tendevano al silenzio per poi aggredire all’improvviso con violenza. Questa immersione totale nell’innova-zione, pur se perfettamente misurata, destò notevoli perplessità e sollevò non poche polemiche.

Diviso il pubblico anche per le più recenti scenografie degli architetti Mas-similiano Fuksas e Rem Koolhaas, il cui coinvolgimento sembrerebbe

con-Carlino”, 1 giugno 1980. Materiale gentilmente concesso dal Fondo di documentazione del Centro Studi e Attività Teatrali Valeria Moriconi di Jesi.

19 Bertani, Le Trachinie cit.

Trachinie di Sofocle, regia di Giancarlo Cobelli, scene e costumi di Paolo Tommasi, Teatro Greco

di Siracusa 1980. Foto concessa dal Fondo di documentazione del Centro Studi e Attività Teatrali Valeria Moriconi di Jesi.

fermare la strategia vincente dell’archi-star. Il primo propone un “totem con valenza acustica specchiante”, che fornisce la fruizione globale del teatro nel ribaltamento dell’apparato coreutico. Un’installazione che ambirebbe ad an-nullarsi riflettendo suono, attori e pubblico, la cui ombra dovrebbe essere più incidente dello stesso oggetto: si cerca, senza successo di perseguire un’idea di astrazione. Nel progetto originale questo «abbraccio cavo, verginale, spec-chiante», dove si concretizza il doppio luogo/pubblico, era pensato ruotante, per un’idea di scena dinamica. Invece, costruita fissa per motivi di sicurezza accolse le tragedie del 2009 imposta ai registi in una difficile ricerca di affini-tà: Krzysztof Zanussi vi trovò coerenza per la sua Medea “interiore e introspet-tiva”, Daniele Salvo cercò un “ossimoro” tra il fantasma della guerra esterna, e l’immobilità di Colono (Edipo a Colono)20.

Koolhaas concepì un “dispositivo di percorrenza” generato dalla geometria del teatro, una macchina scenica neutra in grado di adattarsi alle necessità delle tre rappresentazioni del 2012: Prometeo, Baccanti e Uccelli. «Il palcoscenico è una tribuna rotante a base circolare adattabile a diverse configurazioni […], accompagna l’entrata in scena degli attori, è divisa in due parti uguali che

20 Cfr. G. Norcia, Conversazione con Krzysztof Zanussi e A. Sterrantino, Conversazione con Daniele Salvo, in “Numero unico, XLV Ciclo di Rappresentazioni Classiche”, Siracusa, INDA Fondazione, 2009.

Medea di Euripide, regia di Krzysztof Zanussi/Edipo a Colono di Sofocle, regia di Daniele Salvo,

scena di Massimiliano e Doriana Fuksas, Teatro Greco di Siracusa, 2009, rielaborazione grafica del progetto di Giovanni Caleca, 2018.

si aprono o schiudono svelando spazi inaspettati, ruota diventando il fondale in movimento dello spettacolo»21 in uno schema che riporta al Total Theater di Gropius. Una estensione del diazoma rende ambigua la destinazione degli spazi tra pubblico e attori; una gradinata lascia disporre il coro delle danzatrici del Martha Graham Dance Company, elemento che attraendo il pubblico lo distrae da quel carattere provvisorio delle impalcature in ferro.

Il regista Claudio Longhi (Prometeo), pur apprezzando la scena imposta, sente comunque l’esigenza di sopperire a questa neutralità e, inseguendo il «tema dello sguardo», concepisce un Prometeo legato ad una lastra specchiante, mobile su un carrello, che restituisce una «lente per penetrare nella realtà, per penetrare in un corpo tramite un alternanza di primi piani o di campi lunghi, [...] di visioni di dettaglio e di insieme, assecondando al massimo il meccani-smo dello sguardo dello spettatore a teatro»22.

Per chiudere emblematica in senso opposto è l’edizione dell’Orestiade nella traduzione di Pasolini affidata a Pietro Carriglio. Il regista, anche scenografo e costumista dell’intera triade di Eschilo, concepisce una monumentale sceno-grafia molto apprezzata dal pubblico, che tradisce le giuste indicazioni fissate

21 OMA*AMO Rem Koolhaas, La scenografia, in “Numero unico, XLVIII Ciclo di Rappresentazioni Classiche”, Siracusa, INDA Fondazione, 2012, p. 31.

22 D. Sacco, Conversazione con Claudio Longhi, ivi, p. 50.

Prometeo di Eschilo, regia di Claudio Longhi, impianto scenico di Oma*Amo/Rem Koolhaas,

da Giusto Monaco: sulle pagine de La Sicilia (27 giugno 1980) riportava, quasi a difesa per Trachinie di Cobelli: «il nostro non è più il tempo di costruzioni faraoniche con palazzi, scalinate e muraglioni in polistirolo e cartapesta, che nascondono e mortificano il monumento archeologico», per il quale va usata «misura e discrezione» per una piena fruizione.

Carriglio riempie la scena di architetture «tra Piacentini e De Chirico»23,

«tra Babilonia e i templi Incas»24. «Immaginate — scrive Rita Sala su Il

Messaggero — [...] il palazzo della Civiltà e del Lavoro, nel cuore dell’EUR

romano. Immaginate che una saetta separi un largo brandello, in forma di triangolo rettangolo, dal resto dell’edificio. La base maggiore poggia al suolo; sull’ipotenusa corre, da terra fino al sole, una scalinata immane candidissima. A fianco un’alta torre cilindrica (citazione del Piacentini della Stazione Termini) si lascia percorrere da una scala in ampie spire anch’essa bianca. Le misure? Intimidenti: 15 metri l’altezza della costruzione, 6 metri l’ampiezza della scalinata. Tre teorie di gradoni ad emiciclo, separati da corridoi, “spingono”, infine, lo spazio scenico verso la cavea. [...] Un universo

23 M. D’Amico, Com’è eclettico l’Eschilo stile EUR, “La Stampa”, 14 maggio 2008, Archivio AFI. 24 E. Groppoli, Carriglio inventa una magica Orestea, “Il Giornale”, 27 maggio 2008, Archivio AFI.

Orestiade di Eschilo, traduzione di Pier Paolo Pasolini, regia, scena e costumi di Pietro Carriglio,

trovato pieno consenso nel pubblico .

25 R. Sala, Eschilo fa giustizia, “Il Messaggero”, 28 aprile 2008, Archivio AFI.

26 Ringrazio Emanuele Giliberti per gli utili confronti e Elena Servito per la indicazioni durante la ricerca condotta nel vasto archivio INDA.

Nel documento Il Popolo e i suoi servi (pagine 166-173)