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Angeli e apocrifi

Nel documento Lexis paidike. L'infanzia in Origene (pagine 175-183)

III. Pueritia mirabilis

III.4. Angeli e apocrifi

Senza addentrarsi nelle complesse esegesi gnostiche, peraltro molto diversificate su questo punto, si può senz’altro notare come la figura del Battista abbia suscitato esegesi controverse principalmente per alcune incongruenze del testo scritturistico a suo riguardo. Innanzitutto, si trattava di stabilire la natura e lo statuto della figura del Battista: reincarnazione di Elia, angelo, ilico o psichico. La definizione si declinava naturalmente in rapporto alla dialettica tra l’economia dell’Antico Testamento e quella del Nuovo. In questo senso, Giovanni è interpretato quasi univocamente come ultimo vessillifero del mondo e della storia giudaici. Egli è l’ultimo profeta d’Israele, prima che il testimone passi alla nuova economia cristiana. Lupieri, semplificando i risultati delle ricerche più approfondite condotte in altro contesto, riassume che «generally speaking, the Gnostics who think that the God of the Old Testament will repent and be saved, think also that John will reach some degree of Gnostic perfection in spite of his limitations; for the others, there will be no way of Salvation for the Baptist»384

.

Altra problematica assai spinosa riguarda la contraddizione relativa all’effettivo riconoscimento del Messia da parte del Battista sulla base del racconto evangelico. In effetti, se il vangelo dell’infanzia lucano, con la descrizione del sussulto in grembo di Giovanni, fa pensare che egli avesse da subito riconosciuto il Cristo – e con questa conclusione si accordano Mt 3,14 e Gv 1,29.36, in cui Giovanni sembra attendere di essere battezzato da Gesù e lo chiama «agnello di Dio» – la domanda di Mt 11,3 e Lc 7,19 con cui il Battista si informa sulla effettiva identità di Gesù con il Messia farebbe pensare al contrario.

383 È questa la conclusione prudente di LUPIERI, La nascita di un santo, cit. 258. 384 L

Da questa incongruenza hanno origine le varie esegesi gnostiche, nonché, ad esempio, la soluzione tertullianea che, però, rabbercia poco felicemente – con un rattoppo, come si suol dire, peggiore dello strappo. Egli ipotizza infatti che in Giovanni Battista fosse presente lo spirito al momento della visita di Maria ad Elisabetta, ma che esso lo avesse abbandonato passando a Gesù al momento del battesimo, in una sorta di “travaso” dall’uno all’altro personaggio o di passaggio di testimone (AdvMarc IV 18 et alibi). La soluzione poneva problemi, sia perché postulava un difetto in Cristo, che avrebbe ricevuto la perfezione grazie allo spirito di Giovanni – un’ipotesi di sapore gnosticheggiante; sia perché metteva “in cattiva luce” la figura del Battista. Lupieri mette in evidenza come la soluzione non sia del tutto isolata, ma corrisponda all’oscillazione della figura giovannea tra umanità e divinità negli Excerpta ex Theodoto di Clemente di Alessandria (ExcTheod V.2).

Origene risponde sdoppiando la questione della conoscenza sulla base dell’oggetto del conoscere. In CIo I.32.237-239 l’Alessandrino ipotizza che il «Non lo conoscevo» di Gv 1,31 faccia riferimento a ciò che precede l’incarnazione del Logos. Giovanni, cioè, che pure avrebbe riconosciuto il Messia nel ventre della madre, avrebbe appreso in seguito rispetto alla sua identità qualcosa di nuovo e sino ad allora a lui ignoto.

Ancora, con l’esegesi dei calzari l’Alessandrino risolve la questione sollevata dalle esegesi gnostiche: Origene si sofferma sul fatto che in Gv 1,27 si faccia menzione di un solo calzare che il Battista non sarebbe degno di sciogliere al Messia, laddove i sinottici, compatti, parlano di due. La spiegazione del differente dettaglio starebbe nel fatto che, dal momento che i calzari sono simboli della discesa di Cristo e che il numero due starebbe ad indicare le due differenti discese – rispettivamente, l’incarnazione e la discesa negli inferi di Cristo dopo la morte (CIo VI.35.174) –, la menzione del solo calzare che Giovanni dichiara nel quarto vangelo di poter sciogliere si riferirebbe al fatto che egli non sia a conoscenza della seconda discesa: il carcere da cui Giovanni manda a chiedere informazioni a Gesù (Mt 11,2.3) sarebbe per Origene simbolo dell’Ade dal quale il Battista manderebbe a chiedere a Cristo se sia lui il Messia e se egli debba dunque aspettarlo, per passare poi la risposta alle altre anime lì confinate e in attesa del Cristo (CIo VI.37.185; HRgG V.7).

Nel Commento a Giovanni Origene affronta anche la questione della natura del Battista, così dibattuta dagli gnostici. È lo stesso quarto vangelo a suggerire l’ipotesi di una reincarnazione di Elia o l’idea della messianicità di Giovanni: interpretazioni entrambe sconfessate dal diretto interessato, e che pure dovevano avere suggerito molti dubbi sulla effettiva origine e natura del personaggio.

Origene afferma senza mezzi termini che la natura del Battista è al di sopra della norma delle caratteristiche proprie degli esseri umani: ragione per cui egli prende in considerazione l’ipotesi che Giovanni stesso sia un angelo inviato in funzione ministeriale. Il passo in questione, piuttosto lungo ma meritevole di una citazione completa, è il seguente:

«E poiché ci occupiamo, in generale, del discorso relativo a Giovanni, indagando il suo invio, non sarà fuori luogo il proporre l’ipotesi che abbiamo formulato a suo riguardo. Giacché abbiamo letto la profezia su di lui: Ecco, io mando davanti al tuo volto il mio messaggero /angelo che preparerà la tua via davanti a te (Mt 11,10; Ml 3,1), ci chiediamo se egli non sia per caso uno degli angeli santi preposti al servizio ed inviato come precursore del nostro Salvatore. E non c’è da stupirsi che alcuni siano divenuti ammiratori ed imitatori di Cristo che, pur essendo primizia di ogni creatura (cf. Col 1,15), si è nondimeno incarnato per amore degli uomini; e che abbiano desiderato di mettersi al servizio della sua bontà verso gli uomini per mezzo di un corpo simile al suo. Chi non rimarrebbe colpito dal fatto che quello, ancor nel ventre della madre, trasalisca di gioia, mostrando di sopravanzare la natura comune a tutti gli uomini? Se poi uno accettasse anche la testimonianza dell’opera tra gli apocrifi ebraici intitolata La preghiera di Giuseppe, là pure si troverà esposto chiaramente in merito a questa dottrina, che coloro che sin dall’inizio hanno ricevuto un carattere di eccezionalità rispetto agli uomini, pur essendo di gran lunga superiori alle altre anime, si abbassarono dalla condizione angelica alla natura umana»385.

Segue la testimonianza tratta dall’apocrifo giudaico che racconta della lotta ingaggiata da Uriele contro Giacobbe-Israele per il primato tra le creature divine:

«Vedi un po’ se in questo modo non trova la sua soluzione la vexata quaestio relativa a Giacobbe e Esaù: Quando essi ancora non eran nati e nulla avevano fatto di bene o di male – perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama – fu dichiarato: “Il maggiore sarà sottomesso al minore”, come sta scritto: “Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù”. Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente (cf. Rm 9,11-14). E dunque, se noi non ricorriamo alle azioni che precedono questa vita, come può risultare vero che non sia una ingiustizia da parte di Dio il fatto che il più vecchio serva al più piccolo e sia odiato, prima di aver fatto qualcosa che lo renda degno di servire, o degno di essere odiato? L’abbiamo presa un po’ alla larga con il discorso su Giacobbe, chiamando a testimone un testo scritturistico tutt’altro che disprezzabile, affinché sembrasse più convincente il nostro ragionamento a proposito di Giovanni che lo rappresenta, secondo la parola di Isaia (cf. Is 40,3), come un angelo venuto nel corpo per rendere testimonianza alla luce. Questo sia detto a proposito dell’uomo Giovanni»386.

385 CIo II.31.186-188 (SC 120, 332-334): Καὶ ἐπεὶ ἁπαξαπλῶς ἐν τῷ περὶ τοῦ Ἰωάννου ἐσµὲν λόγῳ, ζητοῦντες αὐτοῦ τὴν ἀποστολήν, οὐκ ἀκαίρως ὑπόνοιαν ἡµετέραν, ἣν περὶ αὐτοῦ ἔχοµεν, προσθήσοµεν. Ἐπεὶ γὰρ ἀνέγνωµεν περὶ αὐτοῦ προφητείαν· "Ἰδοὺ ἐγὼ ἀποστέλλω τὸν ἄγγελόν µου πρὸ προσώπου σου, ὃς κατασκευάσει τὴν ὁδόν σου ἔµπροσθέν σου", ἐφίσταµεν µήποτε εἷς τῶν ἁγίων ἀγγέλων τυγχάνων ἐπὶ λειτουργίᾳ καταπέµπεται τοῦ σωτῆρος ἡµῶν πρόδροµος. Καὶ οὐδὲν θαυµαστὸν τοῦ πρωτοτόκου πάσης κτίσεως ἐνσωµατουµένου κατὰ φιλανθρωπίαν ζηλωτάς τινας καὶ µιµητὰς γεγονέναι Χριστοῦ, ἀγαπήσαντας τὸ διὰ τοῦ ὁµοίου <αὐ>τοῦ σώµατος ὑπηρετῆσαι τῇ εἰς ἀνθρώπους αὐτοῦ χρηστότητι. Τίνα δ᾽ οὐκ ἂν κινήσαι σκιρτῶν ἐν ἀγαλλιάσει ἔτι ἐν τῇ κοιλίᾳ τυγχάνων, ὡς τὴν κοινὴν τῶν ἀνθρώπων ὑπερπαίων φύσιν; Εἰ δέ τις προσίεται καὶ τῶν παρ᾽ Ἑβραίοις φεροµένων ἀποκρύφων τὴν ἐπιγραφοµένην "Ἰωσὴφ προσευχήν", ἄντικρυς τοῦτο τὸ δόγµα καὶ σαφῶς εἰρηµένον ἐκεῖθεν λήψεται, ὡς ἄρα οἱ ἀρχῆθεν ἐξαίρετόν τι ἐσχηκότες παρὰ ἀνθρώπους, πολλῷ κρείττους τυγχάνοντες τῶν λοιπῶν ψυχῶν, ἀπὸ τοῦ εἶναι ἄγγελοι ἐπὶ τὴν ἀνθρωπίνην καταβεβήκασι φύσιν. 386 CIo II.31.191.192 (SC 120, 336): Ἐπίστησον δὲ εἰ τὸ διαβόητον περὶ Ἰακὼβ καὶ Ἠσαῦ ζήτηµα λύσιν ἔχει, ἐπεὶ "µήπω γεννηθέντων µηδὲ πραξάντων τι ἀγαθὸν ἢ φαῦλον, ἵνα ἡ κατ᾽ ἐκλογὴν πρόθεσις τοῦ θεοῦ µένῃ, οὐκ ἐξ ἔργων ἀλλ᾽ ἐκ τοῦ καλοῦντος, ἐρρέθη ὅτι Ὁ µείζων δουλεύσει τῷ ἐλάσσονι, καθάπερ γέγραπται· Τὸν Ἰακὼβ ἠγάπησα, τὸν δὲ Ἠσαῦ ἐµίσησα". Τί οὖν ἐροῦµεν; Μὴ ἀδικία παρὰ τῷ θεῷ; Μὴ γένοιτο.Οὐ κατατρεχόντων οὖν ἡµῶν ἐπὶ τὰ πρὸ τοῦ βίου τούτου ἔργα, πῶς ἀληθὲς τὸ µὴ εἶναι ἄδικον παρὰ θεῷ τοῦ µείζονος δουλεύοντος τῷ ἐλάττονι καὶ µισουµένου, πρὶν ποιῆσαι τὰ ἄξια τοῦ δουλεύειν καὶ τὰ ἄξια τοῦ µισεῖσθαι; Ἐπὶ πλεῖον δὲ

Pur trattandosi di una soluzione proposta in maniera non assertiva, Origene sembra attribuire un certo credito all’ipotesi angelica, la quale, tra l’altro, chiamerebbe in causa, assicurandogli una spiegazione, anche il caso esegetico di Giacobbe ed Esaù, sin da Rm 9,11- 14 vero e proprio rompicapo esegetico387

. Anche Giacobbe rientrerebbe dunque a pieno diritto tra «coloro che hanno ricevuto sin dall’inizio un carattere di eccellenza rispetto agli uomini».

παρεξέβηµεν παραλαβόντες τὸν περὶ Ἰακὼβ λόγον, καὶ µαρτυράµενοι ἡµῖν οὐκ εὐκαταφρόνητον γραφήν, ἵνα πιστικώτερος ὁ περὶ Ἰωάννου γένηται λόγος, κατασκευάζων αὐτόν, κατὰ τὴν τοῦ Ἡσαΐου φωνήν, ἄγγελον ὄντα ἐν σώµατι γεγονέναι ὑπὲρ τοῦ µαρτυρῆσαι τῷ φωτί. Καὶ ταῦτα µὲν περὶ Ἰωάννου τοῦ ἀνθρώπου.

387 Ragione per cui fa difficoltà il riferimento di Edwards, che rimanda a CIo I.31(34), I.31(25), parlando per

Origene di «repudiation of the view that the Baptist was an angel» (EDWARDS, Origen’s Platonism, cit. 33 n. 36). Non si vede dove Origene negherebbe la plausibilità di questa dottrina.

Conclusioni

La comprensione dell’infanzia come età immune dalle passioni che scuotono la maturità si inserisce in un quadro antropologico più complesso, debitore del pensiero stoico. Il modello antropologico origeniano prevede una prima fase dell’esistenza, in cui l’individuo non possiede una facoltà razionale pienamente sviluppata ed è perciò estraneo ai turbamenti che sopraggiungono con l’età. Ad essa fa seguito una seconda fase, durante la quale, con l’acquisizione della piena razionalità, il giovane conosce la malizia ed è chiamato ad opporre ad essa una condotta virtuosa. Qualora egli fallisca nell’impresa, il vizio si stabilisce, diviene una condizione permanente.

La psicologia stoica, fortemente intellettualistica, stabilisce un legame tra il raziocinio e le passioni, intese come malattie dell’anima: queste ultime sono la conseguenza di un giudizio errato. Laddove non vi sia assenso alle rappresentazioni false che provengono dall’esterno, non vi è lo spazio per uno stabilirsi della passione. Origene “cristianizza” la teoria: se in CMt XIII.13 mantiene una terminologia specifica, altrove la nozione di passione si confonde con quella di peccato. Il piano del logos-razionalità dell’universo, seminato nell’individuo, e quello del Logos-Cristo, si intersecano; meglio, tendono a coincidere. La piena acquisizione della facoltà razionale è dunque anche il riconoscimento del principio divino e della sua azione.

Nondimeno, l’Alessandrino si mantiene prossimo alla formulazione stoica della dottrina delle passioni, a differenza dei predecessori: Filone, ad esempio, sembra condividere l’idea che l’infanzia sia contraddistinta dall’assenza del principio razionale, ma associa a questa condizione una forma di peccaminosità ancora più pervicace; benché poi aderisca, in altri contesti, alla concezione dell’infanzia come età inesperta del bene e del male. Quanto a Clemente, questi, fornendo un’esegesi di Mt 18,3-5 nel primo libro del Pedagogo, pare giungere a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle di Origene: la teoria secondo cui i bambini sarebbero esseri irrazionali, attribuita a non meglio precisati «alcuni», è rifiutata. Clemente tiene a preservare il carattere positivo dell’immagine infantile, che egli elegge metafora del popolo dei cristiani battezzati. Origene, dal canto suo, rende conto dell’esemplarità dei bambini nel racconto evangelico senza avvertire la necessità di stravolgere il paradigma stoico dell’irrazionalità infantile. Non è da escludersi che sia Clemente che Origene abbiano attinto alle stesse fonti, ma i presupposti dell’esegesi conducono i due autori a risultati antitetici.

A testimonianza della diffusione delle idee relative alla condizione infantile come estranea alla conoscenza del bene e del male, si è menzionata l’esegesi di Adamo ed Eva “infanti” in paradiso. Come Filone, anche Ireneo e Teofilo rappresentano i protoplasti come

individui in cui una debole facoltà razionale inibisce la percezione della propria nudità e degli stimoli corporei. L’esegesi mette in evidenza lo stesso legame tra statuto razionale, responsabilità individuale e conoscenza del peccato che tanta importanza riveste in Origene.

È proprio la nozione di imputabilità che guida lo sviluppo dell’esegesi relativa alla legge naturale. Quest’ultima impone prescrizioni e divieti a partire da un dato momento dell’esistenza dell’individuo – ovvero, dall’acquisizione della facies razionale – ed agisce universalemente, ad eccezione di alcuni casi: i profeti, Giacobbe, Giovanni.

Si vede bene, dunque, quale sia il ruolo di questi personaggi biblici nell’economia del discorso origeniano. Lungi dal fotografare la media, essi costituiscono l’eccezione: ad essi l’esegeta fa appello per costituire uno schema dottrinale alternativo, un’ipotesi di lavoro che contempla la preesistenza. Se, come ha voluto parte della critica, i tre personaggi costituissero la norma – e la loro “burrascosa”, atipica infanzia venisse citata a testimonianza dell’animazione degli embrioni, dei feti e dei neonati – la forza stessa del discorso verrebbe a mancare. D’altra parte, come si è tentato di mostrare, Origene appare meno interessato alla scansione evolutiva dell’individuo nella sua dimensione temporale di quanto lo sia, invece, all’origine ed al destino globale dell’anima: per cui anche la famosa soglia dell’adolescenza – sette o quattordici anni che siano – pur facendo appello ad una precisa concezione antropologica, serve più che altro all’esegeta come espressione dei confini della responsabilità individuale.

Il bambino è dunque un individuo oggettivamente non responsabile delle proprie azioni, e diviene, per ciò stesso, metafora della condizione di quanti non partecipano o non riconoscono l’azione divina operante nella vita del singolo.

La paternità in Origene.

Aspetti biografici, dottrinari ed esegetici

Uno studio suggestivo di Peter Nemeshegyi388

, ormai datato un cinquantennio, rifletteva sulla nozione di paternità di Dio in Origene assegnandole un ruolo preponderante, addirittura protagonistico, nel pensiero dell’Alessandrino. L’ermeneutica della rilevanza di un concetto non rinuncia di sovente alla ricerca nella psicologia dell’autore, radicata nella sua biografia.

Ora, Origene è perlopiù avaro di dettagli privati. I “cacciatori” di confessiones origeniane hanno vita meno facile di quella riservata ad altri lettori; poniamo, il pubblico di un Agostino. Tanto maggiori sono le soddisfazioni riservate ai rabdomanti, allorché il bastone vibra su un fiotto di intimità origeniana. Così, un passo apparentemente allusivo al martirio del padre Leonida durante la persecuzione severiana suscita la curiosità di Nemeshegyi:

«A nulla mi porta l’aver avuto un padre martire, se non avrò vissuto bene, se non avrò reso onore alla nobiltà della mia stirpe, ovvero alla sua testimonianza, alla confessione della fede con la quale si è reso illustre in Cristo»389.

Lo studioso non resiste ad una considerazione “impressionistica”, ad onor del vero presentata come ipotesi – inquisitive, alla maniera del Maestro alessandrino: che, cioè, l’esempio fulgido della testimonianza cristiana di Leonida390

, unito al ricordo della rigorosa educazione impartita ad un Origene enfant prodige391

, avrebbe segnato il giovane maestro di grammatica, ne avrebbe foggiato il carattere, orientandolo ad una profonda riflessione sulla nozione di paternità. Questa sarebbe a tal punto centrale da influenzare e sostanziare di sé l’intero pensiero del teologo392

.

388 P.NEMESHEGYI, La paternité de Dieu chez Origène, Tournai 1960. A questo contributo fondamentale affianco un

secondo titolo dedicato alla medesima problematica, più recente ed altrettanto significativo: P.WIDDICOMBE, The Fatherhood of God, cit. Rimando a questi due contributi principali: ne segnalerò altri di volta in volta, in riferimento ai singoli aspetti di una tematica che, si vedrà, è sterminata e meriterebbe una dissertazione a parte.

389 HEz IV.8 (SC 352, 182): nihil mihi conducit martyr pater, si non bene vixero et ornavero nobilitatem generis mei, hoc est

testimonium eius et confessionem qua illustratus est in Christo.

390 Sul nome del padre di Origene ed i dubbi sollevati, in primis, da Nautin, si veda infra.

391 Il riferimento classico è alla biografia tratteggiata di Eusebio nel VI libro della Historia ecclesiastica (HE), cui si

riserverà qualche pagina.

392 In quest’ottica si costruisce il paragrafo dedicato dallo studio di Nemeshegyi a Leonida: paragrafo che prende

le mosse dalla teoria junghiana del ruolo del padre nella formazione dei futuri rapporti di fiducia del figlio con «les maîtres, les supérieurs, Dieu lui-même» (NEMESHEGYI, La paternité, cit. 27). Ecco come lo studioso ricostruisce, a partire dal passo riportato ed i pochi altri a nostra disposizione, oltre, si intende, alla biografia eusebiana, la figura di Leonida ed il suo rapporto con il figlio: «Léonide était pour Origène l’homme fort, la personnification des valeurs morales, de ce qui est juste, de ce qui est bon. Ce fut lui qui l’initia à la connaissance de Dieu et qui lui apprit par son exemple à l’aimer et à lui rester fidèle, même au prix de la vie. C’était un homme sévère, qui prenait l’éducation de ses enfants au sérieux : outre les réprimandes mentionnées par Eusèbe, les déclarations d’Origène relatives à la soumission absolue due aux parents laissent assez deviner ce trait de son caractère. Cette sévérité pourtant n’avait rien d’acerbe ni de renfrogné : elle venait d’un amour profond et viril,

Una lettura poco più che superficiale dell’opera origeniana conferma la sensazione di pervasività del tema. Poche pagine del nostro autore rinunciano ad un accenno alla metafora della paternità. Due considerazioni sono però d’obbligo e ridimensionano in parte l’originalità ed il significato dell’immagine per l’Alessandrino. Quest’ultimo non lavora evidentemente nel vuoto: la paternità di Dio, nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento, si impongono allo sguardo dell’esegeta, che propone riflessioni sulla ricca messe di testi scritturistici imperniati sulla metafora ed avanza in maniera originale, si vedrà, un confronto tra la nozione di paternità divina nell’Antico Testamento rispetto a quella svolta nell’orizzonte neotestamentario. Il referente biblico è talmente radicato in Origene da mediarne il linguaggio stesso, il pensiero: sicché, come spesso accade nell’opera dell’autore, è la componente biblica a sostanziare la riflessione dell’esegeta, e la distinzione tra i riferimenti, le allusioni al testo e la riflessione sul testo stesso risulta alle volte ostica.

L’intervallo che separa poi la letteratura neotestamentaria più recente ed Origene si compone di voci numerose e significative sul tema della paternità, che non è possibile tralasciare: la problematica è altrettanto preponderante, ad esempio, inClemente.

Ancora: il concetto di paternità è evidentemente assai difficile da isolare. Esso richiama, a catena, la nozione di provvidenza e la pedagogia divina attraverso cui essa si esercita. Vi si affianca il concetto di adattamento della sostanza divina alle modalità espressive umane: tema molto caro ad Origene – ma non solo – su cui si tornerà dunque a più riprese393

. La sensazione alla lettura è dunque quella di un sistema ininterrotto, che muove da un punto per ripercorrerne infiniti altri e tornare infine all’identità di Dio, Padre unico, bene sostanziale e dispensatore, in virtù della bontà stessa, della pedagogia salvifica attraverso l’accomodamento ed una punizione pedagogica. Senza voler sminuire il ruolo circoscritto della metafora paterna, è forse più proficuo e fedele inserirla nel discorso complessivo su Dio, con i limiti imposti dagli obiettivi stessi della ricerca. Si tratta dunque di stabilire l’originalità dell’apporto origeniano al tema e la concatenazione delle metafore e dei concetti che si dipanano nella prosa esegetica e dottrinale.

qui enveloppait toute la famille et se reposait avec une tendresse toute spéciale sur l’aîné, que Dieu avait marqué de son sceau» (NEMESHEGYI, La paternité, cit.; Léonide, père d’Origène, 27-34, p. 27).

393 Rius-Camps, ad esempio, distingue tra una nozione antropologica, naturale, di paternità – che definisce carnale

o somatica – ed una traslata, che riguarda l’intelligibile. A queste due nozioni distinte Origene aggiungerebbe una terza categoria, «peculiar del sistema origeniano», che lo studioso definisce «misteriosa» [il corsivo è dell’autore]: J. RIUS-CAMPS, El dinamismo trinitario en la divinizacion de los seres racionales segun Origenes, Roma 1970, 192. Lo studioso connette strettamente il discorso sulla paternità intelligibile, che definisce innovazione dell’epoca di Origene, alla pedagogia; e quest’ultima, alla nozione di responsabilità del padre-educatore e del figlio-discepolo. Si tenterà in questo contesto di lasciare la questione della pedagogia in sospeso, procedendo per gradi, pur consapevoli di quanto, in realtà, essa si leghi al tema della paternità.

Rendere questo discorso nella sua complessità sarebbe naturalmente poco fruibile, sicché si è scelto, per ragioni di chiarezza espositiva, di concentrarsi in questo capitolo sulla nozione di paternità e di trattare solo brevemente le questioni relative – la pedagogia divina, ad esempio – dove si renda necessario, rimandando poi ad altre sezioni per trattazioni più complete.

È evidente, poi, come la ricerca privilegi, nelle dinamiche e nel rapporto padre-figlio, più la componente filiale di quella paterna; e come, di rimando, le varie declinazioni della metafora paterna – che include il discepolato, l’educazione, la generazione spirituale –

Nel documento Lexis paidike. L'infanzia in Origene (pagine 175-183)