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3.4. Dall’ospitalità al messianico: la struttura autoimmunitaria della vita

3.4.3. L’animale in attesa

Davanti alla posizione heideggeriana, Derrida non può far altro che adottare una strategia decostruttiva, e ciò non solo perché ne va del trattamento filosofico e quindi anche empirico dell’animale, bensì perché – come dicevamo dall’inizio – ne va della vita stessa, della sua struttura e della sua possibilità. La strategia derridiana è la seguente: prendere in considerazione tutti quei caratteri che sono sempre stati considerati propri dell’uomo e assenti nell’animale e dimostrare come essi, se considerati in senso puro e assoluto, non possono essere ritenuti propri nemmeno dell’uomo, mentre se presi in senso non puro, allora dovranno essere riconosciuti propri anche dell’animale.

Non voglio dire che si debba rinunciare a identificare uno specifico umano, ma si potrebbe dimostrare che nessuno di quei caratteri che la filosofia e la cultura ufficiale hanno voluto riconoscere come lo specifico umano sono strettamente riservati a quello che noi uomini chiamiamo l’Uomo. Sia perché vi sono animali che ne sono dotati, sia perché l’uomo non ne può disporre con quella certezza che si suppone, come ho già cercato di dimostrare in opposizione ad Heidegger a proposito dell’esperienza della morte, del linguaggio e del rapporto all’ente in quanto tale.222

Derrida cerca di scardinare i punti cardine della contrapposizione uomo-animale riferendosi soprattutto (ma non solo) ai tre esistenziali heideggeriani: morte, linguaggio, mondo. Ora, per quanto in Heidegger questi tre caratteri si mostrino strettamente legati tra loro, a noi interessa qui osservare come Derrida lavora sul tema della morte, poiché è proprio la possibilità di essere esposti al rischio della

propria morte l’elemento che costituisce la struttura del “messianico senza Messia” che Derrida vuole difendere.

Decostruire la morte come confine netto tra uomo e animale significa prima di tutto fare i conti con il suo “in quanto tale” poiché è esattamente questo l’elemento che consente ad Heidegger di dire che l’uomo muore propriamente mentre l’animale no. Come nota Derrida in Aporie «Heidegger non smetterà mai di modulare l’affermazione secondo la quale il mortale è colui che fa prova della morte in quanto tale, […] l’animale, il vivente come tale, non è propriamente un mortale: esso non si rapporta alla morte come tale: Può finire, certo, cioè perire (verenden), finisce sempre per crepare. Ma non muore mai propriamente».223 Derrida considera la definizione heideggeriana della morte come possibilità dell’impossibilità per l’esserci. Ma se la morte è questa negazione della vita, questa impossibilità del soggetto stesso che dovrebbe comprenderla, come può essa darsi nel suo “in quanto tale”? «Se la morte è la possibilità dell’impossibile e quindi la possibilità dell’apparire come tale dell’impossibilità di apparire

come tale, l’uomo o l’uomo come Dasein non ha mai, nemmeno lui, rapporto

con la morte come tale, ma soltanto con il perire, con il decedere, con la morte dell’altro che non è altro».224 Insomma la questione è la seguente: data la definizione heideggeriana della morte esistono solo due possibilità: o si dice che neanche l’uomo propriamente muore, oppure si dice che anche l’animale muore. E del resto è evidente, osserva Derrida, che anche gli animali – seppur in modo diverso a seconda delle diverse specie – muoiono e soffrono. Non a caso, lo ricordiamo, all’inizio di L’animale che dunque sono Derrida rilancerà l’interrogativo benthamiano: «can they suffer?»225

Si potrebbe certamente riscontrare una certa ingenuità nelle argomentazioni derridiane o avvertire la sensazione che l’obiettivo primario di Derrida in questo

223 J. Derrida, Apories. Mourir – s'attendre aux "limites de la vérité", Aporie. Morire –

attendersi ai “limiti della verità”, Bompiani, Milano, 1999, p. 31. 224 Ivi, p. 66.

225 «La questione preliminare e decisiva è quella di sapere se gli animali possono soffrire» (J. Derrida, L'Animal que donc je suis, L’animale che dunque sono, op. cit., p. 66).

caso non sia tanto la forza delle argomentazioni, quanto il semplice fatto di attaccare Heidegger. Non ci soffermeremo ora su questa possibile interpretazione,226 poiché ciò che ci interessa è proprio il senso del gesto derridiano, la sua urgenza. Per Derrida è fondamentale difendere la possibilità che si dia una morte per l’animale, così come lo è legare questa morte alla possibilità della sofferenza. Solo laddove c’è morte, sofferenza, c’è davvero rischio e dunque non c’è una semplice “apertura-per” stordente, ma un’apertura accogliente, una struttura messianica. Non è un caso se Heidegger per descrivere la relazione tra l’animale e il suo ambiente utilizzerà l’immagine del cerchio e dell’anello. L’abbiamo già visto: la sfera è in un certo senso il simbolo dell’immunità. La veemenza dell’attacco derridiano ad Heidegger dunque vuole essere il gesto di rottura del cerchio in difesa della vita, della sua autoimmunità, della sua messianicità. Una messianicità che – afferma Derrida – neanche Levinas, che per primo aveva pensato all’originarietà dell’accoglienza (più originaria dell’apertura stessa) è riuscito ad attribuire all’animale. Per Lévinas infatti l’accoglienza, e dunque l’etica, è affare unicamente umano «Lévinas insiste sul carattere originario, paradigmatico, ‘prototipico’ dell’etica in quanto umana, del rapporto tra uomini, solamente uomini e che in questo sono uomini».227

Del resto è proprio in questa struttura autoimmunitaria che secondo Derrida si radica anche la possibilità, per l’animale, non tanto di avere logos quanto di avere risposta. Il secondo discrimine tra animale e uomo, che Heidegger aveva riconosciuto nel linguaggio, viene infatti riletto da Derrida a partire dal tema della risposta, considerata in contrapposizione alla reazione. «Tutta la questione dell’animale non consisterà tanto nel sapere se l’animale parli, ma se sia possibile sapere cosa significhi rispondere e distinguere una risposta da una

226 Cfr sul tema C. Di Martino, Figure dell’evento, op.cit.

reazione».228 Ci troviamo davanti a una tradizione filosofica che ha sempre negato all’animale la risposta, sinonimo di coscienza e libertà, riconoscendogli solo la possibilità di reagire a determinati stimoli, quelli cioè prescritti dal proprio codice genetico. Anche in questo caso il lavoro derridiano consiste nello sfumare i confini netti tra reazione e risposta: è davvero possibile stabilire una linea che le separi? Ovviamente no, non è possibile. Del resto, se si pensa alla logica meccanica e ripetitiva che sta alla base dell’inconscio umano, così come l’aveva descritta Lacan, risulta chiaro che anche alla base della risposta umana c’è ripetizione. E dunque o si conclude che l’uomo si limita a reagire, oppure si dovrà riconoscere anche all’animale la possibilità della risposta. Di nuovo troviamo confermata la struttura messianica dell’animale poiché solo dove c’è apertura accogliente ci può una essere risposta.

Nelle ultime righe di L’animale che dunque sono Derrida lo dice chiaramente: la posta in gioco qui è quella di una «reinterpretazione radicale del vivente», che, lungi dall’esser chiuso e stordito, è sempre in una condizione di attesa.229