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1.4. I seminari inediti La vie la mort

1.4.2. La critica a Jacob e Canguilhem

In particolare per Jacob è il ricorso alla nozione di programma a rendere possibile la risoluzione del contrasto tra meccanicismo e finalismo, grazie al riferimento alla memoria. La memoria, fondamentale per comprendere l’eredità genetica, a sua volta si costituisce attraverso l’analogia tra memoria genetica e memoria cerebrale: la prima sarebbe rigida e non intenzionale, mentre la seconda sarebbe intenzionale e dipenderebbe dal pensiero e dalla volontà di un soggetto. Entrambi i tipi di memoria operano attraverso il linguaggio, e tuttavia si può parlare di analogia e non di identificazione perché ciò che le rende diverse è il riferimento all’intenzione di una psiche o di un soggetto. È proprio questo però il punto che convince di meno Derrida: muovendosi in questa direzione infatti Jacob continua a restare intrappolato nel regno del logos e della metafisica tradizionale, tanto più che non chiarisce la questione del logos a partire da cui si stabilisce l’analogia tra le due

71 F. Jacob, La logique du vivant, La logica del vivente, op. cit., p. 13. 72 Ibidem.

forme di memoria. Lo stesso titolo dell’opera di Jacob fa riferimento a un logos che non viene descritto in modo radicale come “altro” rispetto a quello della filosofia tradizionale. Per questa ragione, prosegue Derrida, il discorso di Jacob, nonostante sia portatore di alcuni elementi innovativi importanti, resta marchiato da una teleologia logocentrica e umanistica, da una filosofia della vita, che a ben vedere ricorda molto quella aristotelica.

È in questo senso che Derrida, all’interno della sua analisi inizia a riferirsi a Canguilhem, e in particolare a un testo: La conoscenza della vita.73 Al contrario di quanto affermato da Jacob, circa la liberazione della biologia dalla metafisica grazie alla scoperta del DNA, Canguilhem scrive:

Dire che l’eredità biologica è una comunicazione d’informazioni è, in certo modo, tornare all’aristotelismo, è ammettere che vi è nel vivente un logos, inscritto, conservato e trasmesso. La vita fa da sempre, senza scrittura, ciò che l’umanità ha cercato con il disegno, l’incisione, la scrittura e la stampa, la trasmissione dei messaggi. 74

Secondo Canguilhem dunque la biologia contemporanea è, in modo forse più esplicito di quanto non lo sia mai stata, una filosofia della vita, nella misura in cui riconosce alla vita un logos, che non ha nulla a che vedere con il logos matematico. La vita, prosegue Canguilhem, ha una sua logica, una sua scrittura, il cui senso è dato proprio dal fatto di non avere senso: la vita perde costantemente il proprio senso, si perverte75 in continuazione, sfugge a qualsiasi tentativo definitorio o normativo, perché decide da sé la propria norma e la propria legge. In questo senso dunque rappresenta una sfida enorme nei confronti della scienza e della conoscenza, che la rincorrono in continuazione senza mai riuscire ad afferrarla.

73 G. Canguilhem, La connaissance de la vie, La conoscenza della vita, Il Mulino, Bologna, 1976.

74 Ivi, p. 337.

75 Cfr. G. Canguilhem, Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique, Il

Dal canto suo Derrida si dichiara insoddisfatto tanto delle conclusioni di Jacob quanto di quelle di Canguilhem, poiché entrambi, anche se in modo diverso, non fanno che riaffermare quell’eredità metafisica della biologia che Derrida intende invece decostruire: Jacob la riafferma senza esserne fino in fondo consapevole, quindi in modo implicito, mentre Canguilhem la riafferma esplicitamente. Il permanere del legame con la tradizione fono-logocentrica è, secondo Derrida, una diretta conseguenza del mancato riconoscimento del ruolo e della portata radicale che il testo ha nella formazione della vita e del vivente, un ruolo che Derrida, come abbiamo visto, si era invece impegnato a riconoscere già a partire da Della

grammatologia.

Né Jacob né Canguilhem hanno problematizzato ciò che intendevano con questa semiotica o piuttosto questa grafica della vita, di questa scrittura non fonetica che dicono ‘senza scrittura’ e che sono pronti a reinvestire con tutti i valori legati al logos nella sua più costante tradizione platonico-aristotelico-hegeliana, essa stessa riletta come telos in cammino. Quasi dieci anni fa, in

Della grammatologia, ricordavo che, cito, “oggi il biologo parla di scrittura e

di programma a proposito dei più elementari processi di informazione nella cellula vivente. Ma non lo facevo per reinvestire nella nozione o nella parola di programma tutta la macchina concettuale del logos e della sua semantica, ma per provare a mostrare che l’appello a una scrittura non fonetica nella genetica doveva, dovrebbe implicare e spingere a tutta una decostruzione della macchina logocentrica, piuttosto che provocare un ritorno ad Aristotele. È in questa direzione che insisterei, dunque.76

Derrida lo dice in modo chiaro: bisogna insistere nella direzione del testo, che tanto Jacob quanto Canguilhem hanno intuito, ma non sono stati in grado di seguire fino in fondo, fino alle sue più radicali conseguenze. Jacob ad esempio, osserva Derrida, si riferisce a più riprese alla cibernetica, utilizzando in modo ingenuo termini come “messaggio”, “informazione” e “comunicazione”, ma non si rende conto fino in

76 J. Derrida, Séminaire inédit La vie la mort, “Fonds Jacques Derrida/IMEC, DRR 173”, Sessione 1°, p.22, in S. Geraci, La questione del vivente. Traccia, biologia, macchinalità, op. cit., p.

fondo della profonda implicazione che sussiste tra questi termini e il testo, dell’assoluta necessità di ricorrere al testo per poter spiegare sia il messaggio sia la comunicazione. È questo un punto molto importante: nel passo dei seminari inediti, che tra poco citeremo, Derrida afferma a chiare lettere che il testo viene prima della comunicazione e del messaggio, ed è anzi ciò che le rende possibili e pensabili. Ecco perché, continua Derrida, la nozione di testo diventa così fondamentale per spiegare il vivente, imponendosi con tale forza alle scienze della vita: non è un caso, ma è una necessità strutturale che il riferimento alla cibernetica rende evidente.

Il testo è – e qui forse emerge in modo più chiaro che mai – la condizione quasi trascendentale del vivente, in ogni sua forma, in ogni suo grado di sviluppo. Forzando un po’ il lessico derridiano potremmo dire ora che il testo è la realtà tout

court e chiarire in questo modo e finalmente, seguendo un percorso tracciato da

Vitale,77 il senso della tanto celebre affermazione derridiana «non c’è fuori testo»78, a cui si sono spesso attribuiti significati anche molto diversi tra loro. Una struttura, quella testuale del vivente, che non ha nulla di autistico o di autoreferenziale, anzi: non c’è chiusura, ma apertura poiché il testo stesso si costituisce attraverso il rimando costante ad altri elementi testuali.

Quando l’evento primo, l’origine reale, ecc., è un testo, ha la struttura di un testo, questa avventura favolosa può sempre riprodursi. È quel che accade con il vivente se esso ha la struttura di un testo. Dico proprio un testo e non una parola, non un linguaggio verbale a-testuale. Va da sé che il testo genetico non è verbale, che esso è afono – non voglio insistere su questo […] Dico testo, in quanto non può essere tradotto se non dai prodotti della sua traduzione; in quanto la struttura, la sintassi, l’ordine vi precede e determina gli effetti di senso o di voler-dire; in quanto questa struttura sintattica, per definizione, non è mai dominata o determinata da nomi, vale a dire, da vocaboli referenziali, aventi una referenza fuori dal testo [hors texte] o fuori dall’enunciato, ma da

77 Cfr. F. Vitale, Il testo, il vivente. Biodecostruzione II. Op. cit.

articolazioni sintattiche che vivono in ultima istanza degli elementi che fanno parte del testo, che rimarcano il testo. […] Ed ecco perché la nozione di testo si impone alla scienza del vivente, non soltanto si impone più che la nozione di linguaggio verbale – questo va da sé poiché non c’è voce e non ci sono parole nei programmi genetici – ma – e questo è meno ovvio per dei biologi come Jacob e altri – s’impone anche più che le nozioni di messaggio, di informazione e di comunicazione, utilizzabili, ma a condizione che esse siano in ultima istanza testuali, vale a dire, a condizione che il messaggio, la comunicazione e l’informazione non trasmettano mai un contenuto che non sia esso stesso dell’ordine del messaggio, dell’informazione, della comunicazione, che non sia, dunque, esso stesso una traccia o un gramma. […] Naturalmente questa auto-referenza testuale, questa chiusura su di sé del testo che non rinvia che a del testo, non ha niente di tautologico o di autistico. Al contrario. È perché l’alterità vi è irriducibile che non c’è testo, è perché nessun termine, nessun elemento non è sufficiente e non ha nemmeno effetto se non in quanto rinvia all’altro e mai a se stesso che c’è testo; ed è perché l’insieme testo non può chiudersi su se stesso che non c’è altro che testo, e che il testo detto ‘generale’ (espressione evidentemente pericolosa e soltanto polemica) non è né un insieme né una totalità: esso non può comprendersi né essere compreso. Ma può scriversi, il che è tutt’altra cosa. 79