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4.2. Il quadro nero e autoimmunitario della mondializzazione

4.2.2. Aporetologia della mondializzazione

La struttura ellittica e autoimmunitaria della mondializzazione, lungi dall’essere meramente logico-formale, si determina a partire da una serie di contraddizioni concrete e ben visibili a occhio nudo. Interrogato su quale sia la sua posizione riguardo la globalizzazione, Derrida risponde infatti così:

In relazione alla globalizzazione, che in francese preferisco chiamare

mondialisation, per ragioni che ho spiegato altrove (…) si attestano una

serie di contraddizioni. Queste contraddizioni sono d’altronde destinate a permanere; sono delle aporie che riguardano, mi sembra, la fatalità autoimmunitaria della quale non cessiamo di registrare gli effetti. In primo

luogo, la mondializzazione non accade nei luoghi e nel momento in cui si

dice che accada. In secondo luogo, ovunque essa accade senza accadere, ha conseguenze positive e negative.246

«In primo luogo» soffermandosi sul fatto che «la mondializzazione non accade nei luoghi e nel momento in cui si dice che accada»247 Derrida vuole porre l’attenzione sul carattere meramente apparente della mondializzazione che “sembra essere”, ma che di fatto non “è”. Dire che la mondializzazione non accade là dove si dice che accada significa sottolineare che mentre i paesi dominanti, con i loro uomini di potere, tengono a ribadire ogni giorno che la globalizzazione ha solo effetti positivi poiché comporta un livellamento delle

245 V. Li, Elliptical interruptions. Or, why Derrida prefers “Mondialisation” to

Globalisation (https://muse.jhu.edu/journals/new_centennial_review/v007/7.2li.html). Traduzione italiana mia da: It is precisely against globalisation’s “logic of completeness” and

“eco-politics of the whole or the all” that Derrida poses two elliptical interruptions: first that globalisation does not translate as mondialisation, and second, that mondialisation in its European and Christian filiation undergoes an autoimmune and autodeconstructive process that opens it out to the event that cannot be calculated, programmed, or predicted in advanced.

246 J. Derrida – G. Borradori, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici, op. cit., p. 130. 247 Ibidem.

condizioni socio-economiche, in realtà in nessuna epoca prima d’ora si è manifestata una disuguaglianza così grande. Mancanza e precarizzazione dei posti di lavoro causano differenze economiche marcate all’interno della popolazione, le quali ne producono altre di tipo sociale: se è vero che da un punto di vista giuridico vige il principio democratico dell’isonomia, ovvero dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, è altrettanto vero che la qualità della vita varia fortemente da cittadino a cittadino, soprattutto in base alle sue disponibilità economiche. Differenze di questo genere, semplicemente abbozzate nei paesi più ricchi, sono abissali per quanto riguarda il rapporto tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. L’uguaglianza tanto millantata nei discorsi sulla globalizzazione è in realtà solo un simulacro ostentato e mai raggiunto.

Da questo punto di vista la globalizzazione non accade. È un simulacro, un artificio, un’arma retorica che dissimula un crescente disequilibrio, una nuova opacità, una non-comunicazione querula e ipermediatizzata, un’accumulazione massiccia di ricchezze, di mezzi di produzione, di tele-tecnologie, di armamenti sofisticati, l’appropriazione di tutti questi poteri da parte di un numero limitato di Stati o corporazioni internazionali.248

«In secondo luogo» continua Derrida, «ovunque essa accade senza accadere ha conseguenze positive e negative»249. Anche dove sembra accadere, cioè nei paesi più ricchi, la mondializzazione è caratterizzata da aspetti contraddittori, a un tempo positivi e negativi.

Positivo è il processo di democratizzazione cui essa avrebbe dato avvio250, simbolicamente rappresentato dalla caduta del muro di Berlino. Derrida si riferisce a questo proposito allo sviluppo delle tele-tecnologie che ha permesso

248 Ivi, p. 132.

249 Ivi, p. 130.

250 È importante fare attenzione al fatto che il rapporto tra democratizzazione e mondializzazione non è unilaterale, ma reciproco e può essere visto da più punti di vista: da una parte si potrebbe dire che è la democratizzazione, suscitata anche dallo sviluppo della tecnologia che ha permesso la formazione di un’opinione pubblica, ad aver prodotto la mondializzazione; dall’altra, invece, si può dire che è la mondializzazione, se con essa si intende anche il grande sviluppo della tele-tecnologia, ad aver prodotto la democratizzazione.

una diffusione capillarizzata dell’informazione, garantendo così la possibilità della formazione di un’opinione pubblica, di un forum democratico che è alla base di qualsiasi processo di democratizzazione. «I discorsi, i saperi, i modelli si trasmettono meglio e più velocemente. Ci sono maggiori possibilità per la democrazia»:251 i grandi mezzi di informazione come i giornali o le radio, ma soprattutto quelli di comunicazione, come il telefono, il fax e la mail,252 hanno posto le basi per la distruzione dei regimi totalitari, rendendo quasi del tutto impossibile un loro ritorno.

D’altra parte se è vero che lo sviluppo delle tele-tecnologie ha permesso l’abbattimento quasi definitivo del rischio totalitario, è altrettanto vero che esso ha provocato di pari passo un aumento della possibilità di spostarsi da un luogo all’altro in breve tempo, un abbattimento delle frontiere che si accompagna tanto a una certa apertura nei confronti dello straniero, quanto alla nascita di nuove forme di ostilità e di attaccamento al “proprio”. Si sviluppano nuove-vecchie forme di nazionalismo, di xenofobia, di razzismo o di fanatismo religioso.

In Spettri di Marx Derrida tratteggia i contorni di un “quadro nero” della mondializzazione, studiandone cioè solo i lati negativi, le piaghe. Anche in questo caso la piaga principale viene riconosciuta nell’eterogeneità e nella disuguaglianza: «non vi è mai stata nella storia dell’umanità, in cifre assolute, tanta ineguaglianza»253. Quando tale disuguaglianza si presenta a livello macroscopico, tra paesi a un diverso livello di sviluppo, essa si accompagna quasi sempre ad altre due piaghe: prima di tutto quella dello sfruttamento delle risorse dei paesi poveri da parte di quelli più ricchi254 e in secondo luogo il fatto

251 Ivi, p. 132.

252 Cfr. J. Derrida – B. Stiegler, Échographies de la télévision, Ecografie della televisione, op. cit., p. 79.

253 J. Derrida – G. Borradori, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici, op. cit., p. 131.

254 «Le popolazioni interessate non sono solo private dell’accesso a ciò che chiamiamo democrazia la democrazia […], ma sono anche spossessate delle ricchezze naturali che si trovano sul loro territorio- il petrolio in Arabia Saudita, in Iraq o nella stessa Algeria, l’oro in Sudafrica e tanti altri minerali altrove» (Ivi, p.131).

che l’immensa povertà di questi paesi diviene terreno fertile per «malnutrizioni, disastri ecologici ed epidemie senza rimedio».255

Quando invece la disuguaglianza si manifesta a livello microscopico, tra individui di una stessa società essa implica la piaga del lavoro: Derrida si riferisce all’allarmante dilagare della disoccupazione, alla diffusione su larga scala di lavori precari e di nuove forme di sfruttamento. «Non ci sono mai state tante persone schiacciate da condizioni impossibili di lavoro o, inversamente, private di un lavoro al quale aspirano»256. Le possibilità lavorative a loro volta sono strettamente legate alla situazione economica globale, e anche a tale proposito i lati negativi non mancano: la competizione tra mercati è troppo libera, e vanno sempre più diffondendosi forme esasperate di capitalismo. In sintesi sono proprio questi problemi economici e lavorativi a produrre le grandi piaghe sociali diffuse al giorno d’oggi come la mafia o lo spaccio di droga.

Bisogna proprio gridare che mai, nella storia della terra e dell’umanità, la violenza, l’ineguaglianza, l’esclusione, la miseria, e dunque l’oppressione economica, hanno coinvolto tanti esseri umani. Invece di cantare l’avvento dell’ideale della democrazia liberale e del mercato capitalista nell’euforia della fine della storia, invece di celebrare la “fine delle ideologie” e la fine dei grandi discorsi di emancipazione, non trascuriamo mai questa evidenza macroscopica fatta di innumerevoli sofferenze individuali: nessun progresso consente di ignorare che mai, in cifra assoluta, mai così tanti uomini, donne e bambini sono stati asserviti, affamati o sterminati sulla terra.257

Ma i lati negativi della mondializzazione fino a ora elencati sembrano non tenere affatto conto dei rapporti internazionali tra i diversi stati. Su questo versante Derrida colloca la piaga a cui è stata in assoluto attribuita maggiore importanza dall’opinione pubblica e dai media: il terrorismo. Al giorno d’oggi, osserva

255 Ibidem.

256 Ibidem.

Derrida, siamo portati a ritenere che il terrorismo sia un’evoluzione dell’antico concetto di guerra, una nuova forma assunta dai conflitti internazionali al tempo della mondializzazione. Da un certo punto di vista questa analisi non è scorretta, in quanto il terrorismo, per molti versi, sembra essere l’adattamento dei contrasti mondiali a un politico che risulta completamente trasformato dalla tecnoscienza: la decostruzione del topolitico, del concetto territorializzato di Stato, produce inevitabilmente una nuova forma di guerra. La guerra non è più territorializzata, nell’ampio senso che questo termine può avere: i conflitti internazionali al giorno d’oggi non sono più guerre che si combattono sul territorio e per il territorio, ma sono conflitti che nascono da ragioni di altra natura (interessi politici, economici o religiosi) e che vengono combattuti attraverso l’abbattimento di luoghi simbolici, rappresentativi di una certa tendenza politica, economica o religiosa. Una guerra non legata al territorio è anche una guerra che non si accompagna più alla coppia di concetti “amico-nemico”, o meglio, che non è più combattuta apertamente tra nazioni determinate: «nessuna geografia, nessuna assegnazione “territoriale” si attaglia più, e già da molto tempo, a localizzare la base di queste nuove tecnologie di trasmissione o di aggressione»258 e per questa ragione ci si trova davanti a una «minaccia assoluta e d’origine anonima e non-statale»259. Il terrorismo soddisfa tutti questi cambiamenti.

Il terrorismo sembrerebbe dunque essere una “nuova” guerra, diversa da quella classica di cui anche Schmitt aveva parlato, cioè dal tradizionale scontro diretto tra due Stati,260 eppure secondo Derrida non si può sostenere una totale differenza tra guerra e terrorismo: non vi sarebbe tra questi due termini un salto abissale, ma una continuità, quasi una sorta di identità.

258 Ivi, p. 109.

259 Ibidem. 260 Cfr. Ivi, p. 108.

Il terrorismo rimane, infatti, ancora assimilabile al concetto arcaico di una guerra grande, visibile, disastrosa e dirompente. Ciò emerge soprattutto nel momento in cui si pensa a come la guerra sarà ancora destinata a modificarsi nei prossimi decenni, grazie allo sviluppo delle nanotecnologie e della biologia. Derrida tratteggia a questo proposito le linee di una sorta di “guerra a-venire”: una guerra silenziosa, priva di morti, che attraverso tecnologie nuove e microscopiche riuscirà a colpire il cuore economico di una nazione distruggendola in modo irreparabile: una guerra senza guerra.