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Dalla costituzione della soggettività alla Legge

4.3. Legge, diritto e pena di morte

4.3.1. Dalla costituzione della soggettività alla Legge

Abbiamo visto nel precedente capitolo che in Addio a Emmanuel Lévinas Derrida rilegge la costituzione della soggettività attraverso la figura evenemenziale, complessa e autoimmunitaria dell’ospitalità. L’ospitalità si impone come un destino inevitabile, pre-ontologicamente già segnato e con una portata che si estende ben oltre il limite della soggettività.

Se infatti essa è ciò a partire da cui ha inizio la costituzione del soggetto, ciò che viene prima del soggetto stesso e di tutti i campi che lo riguardano, etica

263 A. Andronico, Come i giuristi (non) hanno letto Derrida, in Spettri di Derrida, Annali della Fondazione Europea del Disegno, Il Melangolo, Genova, 2010, p. 75.

compresa, va da sé che l’unica etica (dovremmo forse dire l’unica “pre-etica”) possibile diviene quella dell’ospitalità: se si vuole promuovere l’etica allora bisogna coltivare l’ospitalità, che è la Legge, la giustizia. L’equazione che si stabilisce tra etica e ospitalità non ha nulla a che vedere con il politico o con il giuridico in senso stretto: si pone al di là di esso. La Legge è trascendente, afferma Derrida in Forza di legge. Eppure la sua riflessione sull’ospitalità, e dunque sull’autoimmunità, nasce dall’esigenza di trovare risposte alle questioni politico-giuridiche che abbiamo già visto e di pensare un nuovo diritto internazionale: «i milioni di uomini “senza documenti” e “senza fissa dimora” esigono infatti un altro diritto internazionale, un’altra politica delle frontiere, un’altra politica umanitaria».265

È questo un punto apparentemente marginale all’interno del testo ma in realtà fondamentale. Si pone infatti qui il problema – ampiamente esposto in Addio a

Emmanuel Lévinas – del rapporto tra un’etica dell’ospitalità e una politica, un

diritto basato su di essa: può un’etica così concepita fondare una politica corrispondente?

Sullo sfondo di queste riflessioni preliminari, sarò guidato a una questione che lascerò alla fine sospesa, accontentandomi di individuarne alcune premesse e qualche punto di riferimento. In prima approssimazione, essa riguarderebbe i rapporti tra un’etica dell’ospitalità (un’etica come ospitalità) e un diritto o una politica dell’ospitalità […] Ci si domanderebbe allora, per esempio, se l’etica dell’ospitalità – che qui tenteremo di analizzare nel pensiero di Lévinas – può o non può fondare, al di là della dimora familiare, in uno spazio sociale, nazionale, statale o stato-nazionale, un diritto ed una politica. 266

Molti studiosi si sono dedicati all’analisi del rapporto tra etica e politica nell’opera di Lévinas e proprio in questo aspetto hanno trovato l’elemento più insoddisfacente di tutto il suo percorso. Il problema qui risiede, secondo la

265 Ivi, p. 169.

critica, nella mancanza di un rapporto chiaro tra questi due ambiti. Non si riesce infatti a individuare tra etica e diritto un rapporto di fondazione tale per cui dal primo è possibile dedurre il secondo e quindi pensare a un’azione politica concreta e fondata che possa avere una portata sul reale. Insomma, l’etica non prescrive un percorso determinato che la politica dovrebbe seguire perché vi è un salto, poco chiaro, che le separa.

La peculiarità dell’analisi derridiana non risiede dunque nel fatto di avere affrontato questo problema, ma nella modalità in cui lo ripropone. A differenza degli altri lettori di Levinas, infatti, Derrida non vede nella mancanza di fondamento, nel salto tra i due ambiti, il punto debole dell’analisi levinassiana, ma vi ritrova il punto di forza. La mancanza di un percorso determinato, che dall’etica conduce alla politica, costituisce per Derrida il riferimento obbligato al terreno della responsabilità: vi è, da questo punto di vista, un vero e proprio elogio di questo iato che obbliga a pensare la politica e il diritto in modo responsabile, attraverso una decisione che non si riduce alla semplice esecuzione di un programma prestabilito. «Si imporrebbe un ritorno alle condizioni della responsabilità e della decisione, tra etica, diritto e politica».267

Eppure, se è vero che tra etica e politica/diritto non è possibile rintracciare un percorso fondante, è altrettanto vero che tra questi due ambiti vi è già da sempre relazione, contaminazione e co-implicazione nella misura in cui l’una nasce sul terreno dell’altra, l’una rende a un tempo possibile e impossibile l’altra, e nascono insieme, nello stesso momento.

L’etica infatti è l’ospitalità, vale a dire il rapporto originario e immediato all’altro e alla sua singolarità. Ma una relazione di pura immediatezza tra due singolarità assolute non si dà mai: non vi è mai un “faccia a faccia” diretto perché l’immediatezza è interrotta fin dall’inizio – e non in un secondo momento – da un terzo mediatore che è prima di tutto il linguaggio, la giustizia.

267 Ivi, p. 82.

La giustizia, il diritto, la politica hanno un carattere terziale che interrompe il rapporto con l’altro senza interromperlo, cioè stabilisce quel terreno dell’inter-umano che, se da una parte blocca la purezza dell’incontro, d’altra parte lo rende possibile perché garantisce il rispetto di entrambe le singolarità che altrimenti sarebbero a rischio. Quello di un’etica pura è un sogno che non può realizzarsi perché altrimenti produrrebbe la minaccia della violenza dell’unico, cioè la tendenza di una delle due singolarità a “schiacciare” l’altra. Per questa ragione il terzo che sopraggiunge a limitare questo rischio deve essere originario tanto quanto l’etica: l’interruzione del rapporto è co-originaria alla nascita del rapporto stesso. Ci si trova qui davanti a una situazione paradossale: il terzo infatti giunge per scongiurare la minaccia della violenza etica, ma lo fa esercitando a sua volta violenza sull’etica stessa, perché lacera il sogno della sua purezza.

Questa violenza del terzo, questa perversione che esso impone all’etica si manifesta come uno “spergiuro originario” perché è l’infrazione di quel giuramento ante litteram che avviene nell’incontro tra due singolarità assolute. Tale spergiuro è originario, pre-ontologico: quasi trascendentale.

Se il faccia-a-faccia con l’unico impegna l’etica infinita della mia responsabilità verso l’altro in una specie di giuramento ante litteram, di rispetto o di fedeltà incondizionata, allora il sorgere ineluttabile del terzo, e con lui della giustizia, costituisce un primo spergiuro. Silenzioso, passivo, doloroso, ma immancabile un tale spergiuro non è accidentale e secondo; esso è altrettanto originario quanto l’esperienza del volto. 268

Detto in altri termini: originariamente si ha l’etica, cioè il rapporto tra due singolarità uniche nel “faccia a faccia” del volto, rapporto asimmetrico, di assoggettamento di uno dei due nei confronti dell’altro. Co-originario a questo rapporto, cioè non secondo e che non si lascia attendere, si ha il terzo che interrompe, che media il rapporto tra due singolarità introducendo il terreno

268 Ivi, pp. 94-95.

dell’inter-umano e quindi delle leggi e della politica. In questo spazio, alla relazione con l’altro nella sua unicità si sostituisce quella con gli altri, cioè una relazione di paragone che tende all’equità. Si giunge così alla struttura politico-giuridica della società in cui si ha un soggetto civico, che deve essere distinto dal soggetto etico: il soggetto etico è singolarità assoluta, mentre quello civico è soggetto tra gli altri e deve essere trattato al pari degli altri, soprattutto davanti alla legge.

Che dunque vi sia un rapporto tra l’etica, cioè la Legge trascendente, e il diritto, cioè le singole leggi che sono a fondamento della politica e regolano l’andamento della società, è un dato di fatto originario. Il problema che si pone però è quello di capire la natura di questo rapporto: che relazione c’è tra la Legge dell’ospitalità e le leggi, e, soprattutto, che rapporto intercorre tra giustizia e decostruzione?

In Forza di legge Derrida osserva che all’apparenza la giustizia sembra essere un tema estraneo alla decostruzione. Niente di più sbagliato: infatti la giustizia attraversa la decostruzione fin dall’inizio. La stessa decostruzione del fonologocentrismo, l’abbattimento dei confini netti e determinati su cui si basa la logica binaria della metafisica, è in realtà un’operazione di giustizia, un modo per rendere giustizia ai concetti e ai loro nomi, per lasciar loro lo spazio necessario.

Più precisamente la giustizia è ciò che non può essere decostruito, l’indecostruibile, come la decostruzione stessa: «la decostruzione è la giustizia».269 O meglio, dovremmo dire che la giustizia è il rapporto decostruttivo che si stabilisce nello spazio, nella differenza che intercorre tra la Legge e le leggi. Tra questi due ordini infatti vi è al tempo stesso uno iato e una contaminazione o co-implicazione tale per cui l’uno prescrive l’altro e ha bisogno dell’altro per esistere. La Legge dell’ospitalità incondizionata ha

necessariamente bisogno della politica, del diritto, delle leggi determinate: le richiede. Se infatti non si concretizzasse in esse rischierebbe di rimanere una mera utopia. Allo stesso tempo le leggi hanno sempre bisogno di essere guidate dalla Legge, cioè devono sempre tendere verso questo impossibile che è l’ospitalità incondizionata, perché, come osservano Derrida e Lévinas, una politica che non si riferisce all’impossibile si accompagna sempre al rischio di una chiusura tirannica perché non è responsabile, non rimane aperta al proprio a-venire, al proprio futuro: a quella perfettibilità costante che viene segnata proprio da questo riferimento all’impossibile.

La relazione che intercorre tra etica e politica è allora un rapporto di trascendenza nell’immanenza che emerge bene nell’espressione derridiano-levinassiana “al di là nel”. La Legge è impossibile e quindi trascendente, ma nel suo essere trascendente si inscrive nell’immanenza delle leggi che per poter essere giuste devono a loro volta riferirsi sempre al trascendente: devono fare l’impossibile.

In questo titolo il politico sembra sfidare una semplicità topologica: «Al di là dello Stato nello Stato». Al di là nel: trascendenza nell’immanenza, al di

là del politico, ma nel politico. Inclusione aperta sulla trascendenza ch’essa

porta, incorporazione di una porta che porta e apre sull’al di là dei muri o delle muraglie che la circondano. Col rischio di fare implodere l’identità del luogo e la stabilità del concetto.270