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Verso un’autoimmunità universale: evento, ospitalità, messianico

Dal “ritorno del religioso” agli attentati terroristici, passando attraverso la struttura della democrazia: l’autoimmunità che abbiamo analizzato fino a questo momento emerge come una struttura prevalentemente mortifera e distruttrice, che sembra essere stata scelta da Derrida solo per descrivere alcuni risvolti politici attuali.

Ma torniamo momentaneamente indietro a un punto che abbiamo lasciato in sospeso, a un interrogativo che è rimasto senza risposta: là, dove, in Spettri di

Marx, Derrida afferma che Marx e Stirner sono accumunati da una certa cecità

nei confronti dell’io vivente autoimmune ci eravamo domandati: cosa vuol dire che l’io vivente è autoimmune? Più avanti, ma sempre nello stesso paragrafo, avevamo fatto velocemente riferimento anche al carattere autoimmunitario della comunità: cosa significa che ogni comune, come dice Derrida, è autoimmune?

Data la lettura più immediata della logica autoimmunitaria verrebbe da pensare che Derrida voglia negare tanto la possibilità di una comunità quanto la possibilità di un io vivente. E, in linea di principio, si potrebbe frettolosamente concludere che l’autoimmunità comporti sempre una negazione di tutto ciò cui inerisce, democrazia compresa. Ma non è così.

Gli interrogativi sull’io e sulla comunità aprono necessariamente a un’ulteriore chiarificazione – per certi versi forse un’ulteriore definizione – dell’autoimmunità, pronta ora a emergere in tutto il suo carattere paradossale, come logica che trattiene in sé distruzione e costruzione, possibilità e impossibilità, vita e morte. La logica di “la vita la morte”. Quanto ci accingiamo a chiarire è importante soprattutto per allontanare, ancora una volta, una lettura

nichilistica della decostruzione: un’interpretazione fuorviante questa,158 che diviene pericolosamente accessibile quando Derrida, in Fede e sapere, scrive di una logica generale dell’autoimmunità, interpretabile come un nichilismo dilagante.

Per chiarire questo punto bisogna prendere nuovamente in considerazione la duplice lettura che abbiamo analizzato nel precedente capitolo, nel quale avevamo visto che l’uso derridiano dell’autoimmunità può essere letto in due direzioni: come una pura autodistruzione, suicidio dell’organismo, o come una dinamica di distruzione delle proprie difese, delle proprie barriere immunitarie. Dando una sorta di diritto di precedenza alla seconda interpretazione, partiremo nuovamente proprio da qui. Nell’ottica infatti di un abbassamento delle proprie difese si dà la possibilità di rileggere l’autoimmunità come vulnerabilità, cioè come quell’esposizione disarmata all’altro tout court, senza la quale non si darebbe vita. L’autoimmunità segna cioè un’apertura all’altro a trecentosessanta gradi – dunque anche un altro minaccioso, che può essere morte o rischio – senza la quale ci sarebbe solo materia inorganica e non si darebbero in alcun modo organismo e vita. In tal senso l’autoimmunità indica a un tempo la struttura della vita e del vivente, e la sua condizione di possibilità, come formalizzazione della natura paradossale della traccia prima, e della legge di “la vita la morte” poi. Come logica che domina la vita essa è certamente paradossale, perversa, suicida – non a caso ha uno stretto legame con la coazione a ripetere e con la pulsione di morte – eppure è l’unica struttura che consente di parlare a pieno titolo di vita, perché solo dove c’è autoesposizione al rischio e alla minaccia della propria distruzione c’è vita e quindi relazione e storia.

158 L’interpretazione della decostruzione come pratica filosofica nichilistica, scettica o meramente retorica si è sviluppata in particolar modo negli anni Novanta negli Stati Uniti. Per Derrida tale interpretazione era così assurda che le rispondeva affermando che chiunque l’avesse sostenuta non lo aveva evidentemente letto. «Perché – chiede Derrida – si fa finta di non vedere che la decostruzione è tutto salvo che un nichilismo o uno scetticismo, come si dice ancora spesso, malgrado tanti testi che, esplicitamente, tematicamente, e da più di vent’anni, dimostrano il contrario? Perché gridare all’irrazionalismo non appena qualcuno pone una questione sulla ragione, sulle sue forme, la sua storia, le sue mutazioni?» (J. Derrida, Mémoires – pour Paul de

Chance e minaccia, possibilità e impossibilità, veleno e antidoto si

con-fondono in una logica autoimmunitaria e farmacologica159 che sola può assicurare la vita. Riconsiderando il riferimento al Danger model di Matzinger dovremmo leggere l’autoimmunità come un movimento di rottura del sistema immunitario per accogliere in sé anche (ma non solo) il rischio del pericolo, poiché il pericolo non si dà mai in quanto tale, ma anche sempre come chance: «La minaccia è la chance, la chance è la minaccia: tale legge è assolutamente innegabile e irriducibile. Se non la si accetta, non c’è rischio e, senza rischio, c’è solo morte. Se ci rifiutiamo di correre un rischio, non ci resta nulla, se non la morte».160

Ecco dunque in che senso ogni comunità è possibile in quanto auotimmune, perché solo a partire da questa apertura, dal rapporto all’altro, può darsi una comunità. E d’altra parte si chiarisce anche preliminarmente in che senso Derrida può affermare che l’io vivente è autoimmune, poiché si costituisce solo nel momento in cui si contamina con l’altro, gli si rivolge. Ma quando diciamo che l’autoimmunità indica la struttura della vita, non stiamo facendo riferimento solo alla costituzione dell’io, della soggettività e a ciò che essa – aprendosi e autoinfettandosi – è in grado di produrre. Ci stiamo riferendo anche al fattore “esteriore” che determina l’infezione, a ciò che viene da fuori e contamina già da sempre il sogno di una purezza egologica interiore: l’altro, l’evento. L’autoimmunità come struttura “quasi trascendentale”161 riguarda la vita intesa

159 A partire da La farmacia di Platone (J. Derrida, La pharmacie de Platon, La farmacia di

Platone, introduzione di S. Petrosino, Jaca Book, 1985, Milano) fa la sua comparsa nel lessico

derridiano il pharmakon, un termine dotato di una particolare polisemia «ha permesso, per distorsione, indeterminazione e sovradeterminazione, ma senza controsenso, di tradurre la stessa parola con “rimedio”, “droga”, “veleno”, “filtro”» (Ivi, p. 59). Il pharmakon è antidoto e veleno, ciò che salva la vita e al tempo stesso la condanna alla morte: è evidentemente un altro nome della logica di “la vita la morte” e quindi dell’autoimmunità: «il pharmakon è un altro nome, un vecchio nome per la logica dell’autoimmunitario» (J. Derrida – G. Borradori, Autoimmunità,

suicidi reali e simbolici, op. cit., p. 133).

160 J. Derrida, Nietzsche and the machine. Interview with R. Beardsworth, Nietzsche e la

macchina. Intervista con R. Beardsworth, a cura di I. Pelgreffi, Mimesis, Milano, p. 67.

161 Per indicare una posizione di scarto e capovolgimento rispetto a quella classica e tradizionale del trascendentale Derrida appone al termine “trascendentale” il prefisso “quasi”. Tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparenza di negatività che questo capovolgimento

come esperienza, il suo carattere evenemenziale e impone quindi, prima di tornare a studiarne gli effetti concreti e attuali in ambito politico, di fare i conti con altri concetti cari alla decostruzione: l’evento, l’ospitalità e il messianico, che emergeranno qui come altri nomi dell’autoimmunità.162 È del resto lo stesso Derrida a mettere in luce il legame tra questi concetti apparentemente separati, laddove, in un passaggio di Stati Canaglia, afferma:

Se un evento degno di questo nome deve arrivare, è necessario, al di là di qualsiasi controllo, che agisca su una passività. Esso deve colpire una vulnerabilità esposta, senza immunità assoluta, senza indennità, nella sua finitudine e in modo non orizzontale, laddove non è ancora o non è già più possibile affrontare e fronteggiare, l’imprevedibilità dell’altro. Da questo punto di vista, l’autoimmunità non è un male assoluto. Essa permette l’esposizione all’altro, a ciò che viene e a chi viene – e deve dunque restare incalcolabile. Senza autoimmunità, con l’immunità assoluta, più nulla capiterebbe. Non si aspetterebbe più, non ci si aspetterebbe più l’un l’altro, né ci si aspetterebbe più alcun evento.163