«Ci avvarremo di questo allargamento e parleremo di una sorta di logica generale dell’autoimmunizzazione, che ci sembra indispensabile oggi, per pensare i rapporti tra fede e sapere, religione e scienza, così come la duplicità delle fonti in genere»127 scrive Derrida in Fede e sapere. Ed è proprio da qui che inizieremo ad analizzare questa logica generale dell’autoimmunità, e in particolare lo faremo a partire da una parola specifica, prelevata dal passo citato: “oggi”, vale a dire il giorno della globalizzazione, che Derrida preferisce invece chiamare “mondializzazione”. Con il termine mondializzazione si vuole indicare fondamentalmente un duplice processo: da un lato la decostruzione, causata dallo sviluppo inaudito delle tele-tecnoscienze del rapporto che lega il politico e il territorio, e dall’altra una democratizzazione in atto, ma non priva di contraddizioni.
«Utilizzo la parola francese mondialisation, preferendola a quella inglese
globalisation o a quella tedesca Globaliesierung, per mantenere il riferimento al
mondo – monde, Welt, mundus – che non è né il globo né il cosmos né
126 J. Derrida, Foit et Savoir, Fede e sapere, op. cit., p. 57. 127 Ivi, p. 48.
l’universo».128 Se Derrida preferisce utilizzare questa parola a quella più generica di globalizzazione è perché desidera mantenere fermo il riferimento a un certo concetto di mondo – che è cosa ben diversa dal globo – di matrice soprattutto latino-cristiana e indicare con essa un fenomeno di diffusione, su scala planetaria, del mundus latino-cristiano, cui si collega anche un certo “ritorno del religioso” nell’epoca contemporanea. Proprio a partire dalla modalità di questo “ritorno del religioso” a cui il termine “mondialatinizzazione”, coniato appositamente in Fede e sapere, vuole fare riferimento, si svela il cuore autoimmunitario di tutta la mondializzazione.
Oggi si manifesta una strana alleanza tra il cristianesimo e il capitalismo tele-tecnoscientifico, tra fede e ragione, due elementi che la filosofia storicamente ha sempre considerato come separati, contrapposti e inconciliabili. Una tale alleanza però non è nata oggi, ma esiste già da sempre in virtù di un elemento comune: quell’intrinseco riferimento alla morte, quella struttura autoimmunitaria che unisce alla fonte la religione cristiana e il capitalismo tecnologico.
Da un lato abbiamo infatti a che fare con una religione strutturalmente autoimmunitaria, nella misura in cui fa dell’esperienza della morte di Dio e della sua ri-immanentizzazione antropologica il proprio fondamento.129 Attraverso la
128 J. Derrida, P. A. Rovatti, L’università senza condizione, Cortina, Milano, 2002, p. 10. 129 A sostegno della centralità dell’esperienza della morte di Dio nella religione cristiana Derrida porta una rilettura della tesi che Kant aveva esposto ne La religione entro i limiti della
sola ragione (I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari 2004). In questo testo
Kant aveva distinto tra due tipologie di religione: da una parte la religione del culto, che non pone in alcun modo sulla strada della buona condotta, che non insegna a essere migliori, ma a riferirsi a Dio attraverso la preghiera per ottenerne i favori e il perdono; dall’altra la religione morale, cui corrisponde una fede riflettente, cioè quella religione non dogmatica che si basa su un principio ben preciso: non è importante «né necessario a chiunque, sapere ciò che Dio fa o ha fatto per la sua salvezza, quanto sapere ciò che egli stesso deve fare per rendersi degno di questo aiuto» (Ivi, p.22). La religione morale è quindi basata non sulla conoscenza della rivelazione, sul dogma, ma su una buona volontà che va al di là della conoscenza riguardante l’esistenza di Dio. Ora, secondo Kant, nella religione cristiana tutte queste caratteristiche vengono pienamente soddisfatte ed essa rappresenta quindi la religione morale per eccellenza. Ma anche in questa visione kantiana di una religione assolutamente morale si ritrova confermata la centralità della morte di Dio. La possibilità di agire moralmente si stabilisce infatti solo nel momento in cui ci si comporta “come se” Dio non esistesse; portando all’estremo questa conclusione, dovremmo dire che tale possibilità è legata alla morte di Dio: «per comportarsi in modo morale, bisogna fare, in fin dei conti, come se Dio non esistesse o non si occupasse più della nostra salvezza. Ecco cosa è
passione di Cristo la religione cristiana si sferra, a partire da se stessa, un primo colpo mortale. Come ha ben osservato Caterina Resta siamo di fronte a una religione il cui carattere autoimmunitario e autodecostruttivo si manifesta in un «processo di secolarizzazione che prima ancora di colpirlo dall’esterno lo attraversa e si alimenta al suo stesso interno, gli è consustanziale».130 Ma il processo autoimmunitario non si conclude qui, in quanto la morte di Dio è seguita dalla sua ri-immanentizzazione antropologica, che si pone a sua volta nel senso di una certa secolarizzazione, poiché focalizza l’attenzione su temi che non riguardano Dio in quanto Dio, ma Dio in quanto uomo, o meglio, sui diritti dell’uomo.
D’altra parte anche la stessa teletecnoscienza, soprattutto nei suoi sviluppi più recenti, come Derrida ha bene messo in luce in Ecografie della televisione,131 è interessata da un costitutivo riferimento alla morte. È quanto abbiamo già messo in luce nel precedente capitolo in riferimento a una scrittura che è in grado di sopravvivere al soggetto scrivente e quanto emerge anche se si prende in considerazione un altro esempio: quello dell’immagine telemediatica in tutte le sue possibili accezioni, dalla fotografia, alla diretta live televisiva o online. Attraverso l’immagine il soggetto vivente diviene infinitamente iterabile, vale a dire che potrà essere ripresentificato all’infinito, anche dopo la sua stessa morte. Non a caso siamo soliti utilizzare a questo proposito il termine “immortalare”: la teletecnoscienza cattura attimi di vita contingente – di vita nel suo senso più ampio, ovvero di vita che è anche morte, e infatti spesso e volentieri ci troviamo davanti a una morte in diretta – conservandoli al di là della vita stessa, e in
morale e dunque cristiano, se un cristiano ha il dovere di essere morale: non rivolgersi più a Dio nel momento di agire secondo la buona volontà; fare, insomma, come se Dio ci avesse abbandonati. […] Non è forse un altro modo per dire che il cristianesimo non può corrispondere alla sua vocazione morale, e la morale alla sua vocazione cristiana, se non a condizione di sopportare quaggiù, nella storia fenomenica, la morte di Dio, e ben al di là delle figure della Passione?» (Ivi, p. 13).
130 C. Resta, Mondializzazione e Nuova Internazionale. Per un’altra cosmopolitica a-venire, in Spettri di Derrida, op. cit., p.177.
131 J. Derrida, Échographies de la télévision, Ecografie della televisione, Cortina, Milano, 1997.
questo processo ci mette direttamente in relazione con il fantasma, ovvero con la morte dell’altro così come con la nostra stessa morte.
Quei due elementi che sembravano originariamente inconciliabili mostrano di avere, alla loro fonte, un carattere comune: entrambi, anche se in modo differente, ci impongono di fare esperienza della morte, cioè di quell’unico destino certo che tutti gli uomini possono e al tempo stesso devono condividere. Al contrario di quanto sostenuto da padri riconosciuti come Voltaire, Feuerbach, Marx, Nietzsche e Freud – tra i quali vige a questo proposito una certa filiazione – Derrida afferma che religione e ragione non sono opposte, ma sono invece interessate da un legame ancestrale, tale per cui l’una presuppone necessariamente l’altra: esse non sono cioè due unità separate, ma provengono da una fonte comune, sono la risultante di un movimento automatico di sdoppiamento di un’unica fonte, di un’unica natura.
Mi dicevo anche, fra me e me, che ci si illude sul cosiddetto fenomeno «della religione» o del «ritorno del religioso» al giorno d’oggi se si continua a opporre tanto ingenuamente Ragione e Religione, la Critica o la Scienza e la Religione, la Modernità tecnoscientifica e la Religione. […] Di là da questa opposizione e dalla sua eredità determinata (peraltro ugualmente ben rappresentata dall’altro versante, quello dell’autorità religiosa), forse potremmo cercare di «comprendere» in che modo lo sviluppo imperturbabile e interminabile della Ragione critica e tecnoscientifica, lungi dall’opporsi alla Religione, la sostenga, la supporti e la presupponga. Bisognerebbe dimostrare, e non sarà semplice, che Religione e Ragione hanno la stessa fonte.132
Eppure questo movimento di sdoppiamento non è affatto puro e lineare, anzi. Nel momento stesso in cui la fonte unica si sdoppia, producendo ragione da una parte e religione dall’altra, inizia anche a contrapporsi a se stessa, ad attentare alla propria sicurezza e alla propria indennità, a produrre tanto il suo antidoto quanto il suo veleno. «Lo stesso movimento che rende indissociabili religione e
ragione teletecnoscientifica, nel suo aspetto più critico, reagisce inevitabilmente a se stesso. Secerne il suo antidoto, ma anche il suo potere di autoimmunità».133 Questo potere di autoimmunità si manifesta nella sua pienezza e nella sua concretezza storica nell’odierno fenomeno del ritorno del religioso che caratterizza la mondialatinizzazione e che si dà nella forma di una strana e inaudita alleanza tra religione cristiana e capitalismo teletecnoscientifico: la tecnica rappresenta tanto la condizione di possibilità (la vita) del religioso, quanto la condizione di impossibilità (la morte) della sua purezza.
Al giorno d’oggi cioè, ci troviamo davanti a una religione cristiana che si oppone e lotta con tutte le sue forze contro quella stessa tecnica di cui si serve per accadere. Basta pensare al fatto che lo spazio del religioso oggi è uno spazio intimamente tecnologico, quello della cultura virtuale di internet o dei media in cui si concentra il potere capitalistico. Allo stesso modo anche gli stessi mezzi di cui si serve il rappresentante del culto religioso in terra – in questo caso il Papa – sono mezzi propri della teletecnologia capitalista: i jet privati, le comunicazioni televisive, che sono poi quelle che riescono a “mondializzare il messaggio” nel modo più rapido e immediato possibile. Senza tutti questi elementi oggi non ci sarebbe alcuna manifestazione religiosa, il religioso stesso non si darebbe.
Sistema digitale e visualizzazione panottica virtualmente immediata, «spazio aereo», satelliti di telecomunicazione, autostrade dell’informazione, concentrazione di poteri capitalistico-mediatici, in due parola cultura digitale, jet e TV, senza i quali non c’è oggi alcuna manifestazione religiosa, per esempio alcun viaggio o alcuna allocuzione del Papa, alcun irradiarsi organizzato del culto ebraico, cristiano o musulmano, siano o no «fondamentalisti».134
D’altro canto la potenza autoimmunitaria di questa alleanza si misura anche in un fattore linguistico. Se infatti parliamo di una mondialatinizzazione è perché ci
133 Ivi, p. 47.
stiamo riferendo a una religione, quella cristiana, che parla da sempre latino; eppure oggi questa latinizzazione avviene attraverso l’angloamericano, che è per eccellenza la lingua del modello economico capitalistico e della teletecnoscienza. Con la mondialatinizzazione ci si trova davanti a un fenomeno linguistico paradossale e ambivalente: da una parte la lingua ufficiale del religioso, ovvero il latino, si fa angloamericano e dall’altra l’angloamericano quando utilizzato all’interno di discorsi che riguardano la religione si fa latino.
Qui non parliamo di universalità, ma di un’idea di universalità, di un processo di universalizzazione, finito ma enigmatico. Lo si interroga raramente nella sua portata geopolitica ed eticogiuridica, proprio là dove una tale potenza si trova surrogata, dispiegata, rilanciata nella sua eredità
paradossale dall’egemonia mondiale e ancora irresistibile di una «lingua»,
cioè anche di una cultura in certa misura non latina, l’angloamericano. Per tutto ciò che tocca in particolare la religione, per ciò che parla di «religione» per ciò che riguarda un discorso religioso o sulla religione, l’angloamericano resta latino. «Religione» circola nel mondo, si può dire, come una parola inglese che avrebbe fatto una stazione a Roma e una deviazione per gli Stati uniti.135
Il latino-angloamericano come lingua della mondialatinizzazione è l’emblema assoluto di questa alleanza autoimmunitaria tra tecnica e religione, che è così forte oggi da rendere impossibile l’identificazione determinata di un religioso e di un politico che siano puri e indipendenti. Oggi non si può più parlare dei conflitti internazionali come guerre di religione, perché la religione è il fattore di superficie che nasconde infinite altre ragioni politiche ed economiche; d’altro canto non si può nemmeno parlare solo di ragioni politiche, perché il politico, anche nella sua forma più evoluta, cioè quella democratica, resta ancora legato al religioso, al punto tale che si può parlare di “teopolitico” – di cui Roma un tempo e gli Stati Uniti oggi sono rappresentati.
135 Ivi, p. 32.
Teologico e politico sono oggi più co-implicati che mai, in un rapporto autoimmunitario che riguarda tanto la relazione inscindibile tra i due ordini quanto gli effetti drammatici e pericolosi che sono in grado di produrre: basta pensare agli attentati terroristici, che, come previsto da Derrida anni fa, sono diventati la forma dominante di conflitto odierno. E non dobbiamo lasciarci ingannare e pensare ci sia una qualche incompatibilità tra i fondamentalismi religiosi e le tecnologie più avanzate: quanto detto finora dimostra che non sussiste alcuna discrepanza.136
In questo senso merita particolare attenzione il caso dell’Islam antidemocratico. Per inquadrare il fenomeno della mondializzazione, all’inizio di questo paragrafo dicevamo che essa coincide con una apparente democratizzazione, rispetto alla quale però solo i regimi teocratici musulmani mostrano di opporre resistenza, andando così a rappresentare quell’elemento autoimmunitario che ci condurrà direttamente a considerare il tema della democrazia. Ma procediamo per gradi.
Quando Derrida parla di Islam non si riferisce a un concetto determinato ma a una lingua, che è quella coranica.137 Questo perché un concetto – o un “mondo” – islamico a se stante, per noi, non esiste: il mondo arabo-islamico si dà solo a partire dallo sfondo concettuale della «tradizione cosiddetta europea (insieme greco-cristiana e mondialatinizzante) che domina il concetto mondiale del politico, laddove il democratico è ormai sinonimo di politico, laddove lo spazio del democratico costituisce quello del politico proprio a causa dell’indeterminazione e della “libertà”, del “libero gioco” del suo concetto, laddove il democratico, divenendo consustanzialmente politico in questa
136 «Prenderne atto significa anche fare in modo di comprendere che, in linea di principio, oggi, nel cosiddetto “ritorno del religioso” non ci sarebbe incompatibilità tra i “fondamentalismi”, gli “integralismi” o la loro “politica” e, d’altra parte la razionalità, cioè la fiduciarietà tele-tecno-capitalistico-scientifica, in tutte le sue dimensioni mediatiche e mondializzanti» (Ivi, p. 49).
137 Intende precisamente: «l’ipotesi o l’ipoteca di volta in volta araba e islamica» (J. Derrida,
tradizione greco-cristiana e mondialatinizzante, sembra indissociabile, nella modernità successiva ai Lumi, da una secolarizzazione ambigua».138 In questo contesto l’Islam rappresenta l’unica reale opposizione alla democrazia, la sua alternativa nociva, il fattore contaminante.
Urgerebbe a tale proposito un lavoro teorico e storico per cercare di comprendere se esiste, nell’eredità coranica, qualche elemento originario in comune con le democrazie occidentali. Derrida fa notare che quanto l’islamismo ha tratto dalla tradizione greca democratica occidentale è riducibile alla questione del filosofo-re della Repubblica di Platone. Per quanto invece Aristotele fosse conosciuto, la sua Politica non venne importata. È proprio questo riferimento filosofico greco-occidentale al monarca assoluto però l’elemento che ha spinto, e continua a spingere, l’Islam «al fanatismo, all’oscurantismo armato fino ai denti di tecno-scienze moderne, alla violazione di ogni principio giuridico-politico, al disprezzo crudele dei diritti dell’uomo e della democrazia, al non-rispetto della vita».139
A partire da questo riferimento all’Uno, l’Islam antidemocratico si è evoluto fino ad assumere lo spaventoso volto attuale di una minaccia che mette «tutte le forze capitalistiche e tecno-scientifiche moderne al servizio di una interpretazione essa stessa dogmatica della rivelazione islamica dell’Uno».140
Insomma tra Islam e democrazie occidentali sembra sussistere in tutto e per tutto un rapporto dialettico, ma è proprio questo rapporto dialettico che Derrida intende scardinare, per dimostrare cioè che quel fattore – che qui si configura come Islam – che noi pensiamo essere opposto alla democrazia in realtà non è altro che una sua stessa possibilità: la democrazia, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, contempla la sua stessa perversione. Esempio concreto in tal senso è la struttura degli attentati terroristici di matrice islamica: l’11
138 Ibidem.
139 Ivi, p. 54.
settembre certamente, ma anche i più recenti: quelli londinesi del luglio 2005, poi quelli francesi del gennaio 2015 al settimanale satirico Charlie Hebdo141 e infine quelli parigini dello scorso novembre. Non intendiamo prendere in esame questi singoli avvenimenti, ma semplicemente metterne in luce un comune denominatore: la presenza, in tutti i casi, del fattore di resistenza, nel cuore della democrazia.