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“Quasi” struttura di apertura e esposizione all’altro nel suo tutt’altro, nel suo essere anche rischio e minaccia, questo messianico rilancia, ancora un volta, il tema di “la vita la morte. Potremmo ora domandarci: come vive un vivente messianico? Risposta: non vive, ma sopravvive. Dato quanto abbiamo detto finora vivere significa sopravvivere.

È evidentemente necessario, all’interno di questo nostro percorso, fare riferimento al tema derridiano della sopravvivenza. Si tratta di una questione complessa, implicata in testi e temi apparentemente molto diversi tra loro e dotata di una forte eco blanchottiana. In questa sede ci limiteremo a inquadrarla ai fini del nostro obiettivo.

In Freud e la scena della scrittura Derrida abborda la questione della sopravvivenza a partire dalla lettura della Fenomenologia dello spirito234 di

Hegel, e in particolare della dialettica servo-padrone. Come è noto nello scontro

233 J. Derrida, Marx & Sons, op. cit., p. 281.

234 G. F. W. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano, 2000.

dialettico tra la coscienza del servo e quella del padrone lo snodo fondamentale è proprio il riferimento alla morte. Tra i due colui che teme per la propria vita, che teme di perderla e di morire, è il servo. Ora, Hegel si riferisce a questo passaggio usando il termine “sopravvivenza” e Derrida riprende proprio questo passaggio, rileggendolo e svolgendo alcune importanti considerazioni.

Esporsi alla morte pura e semplice significa dunque rischiare la perdita assoluta del senso, nella misura in cui questo passa necessariamente attraverso la verità del signore e della coscienza di sé. Si rischia di perdere l’effetto, il beneficio del senso che si voleva così guadagnare al gioco. Questa morte pura e semplice, questa morte muta e senza rendimento, Hegel la chiamava negatività astratta, in opposizione alla «negazione della coscienza che sopprime in modo tale che essa conserva e ritiene ciò che è soppresso» e che, «perciò stesso sopravvive al fatto di divenire-soppressa (und hiemit sein Aufgehoben-werden überlebt)». In questa esperienza, la coscienza apprende che la Vita le è altrettanto essenziale che la pura coscienza di sé. […] Per un’astuzia della vita, vale a dire della ragione, la vita è dunque rimasta in vita. Un altro concetto di vita era stato furtivamente introdotto al suo posto, per restarvi, per non esservi mai, non più che la ragione, ecceduto. Questa vita non è la vita naturale, l’esistenza biologica messa in gioco nella signoria, ma una vita essenziale, che si salda alla prima, la ritiene, la fa operare alla costituzione della coscienza di sé, della verità e del senso.235

Il concetto di sopravvivenza messo qui in gioco da Hegel, trova cioè il suo

Aufhebung nel momento negativo della morte, che di nuovo compare come

negatività astratta. Passando attraverso la morte biologica la vita sopravvive a se stessa: non una vita altrettanto biologica, ma la Vita dello Spirito. Vale a dire che nella sopravvivenza hegeliana è implicato ancora quel concetto appunto dialettico, bianario e opposizionale che contrappone vita e morte e annienta la loro matrice biologica. Il naturale si annulla, per portare a un concetto più ampio di vita. L’approccio derridiano alla questione non può quindi che essere critico,

nello stesso modo in cui lo era quello relativo al sillogismo hegeliano della vita che abbiamo illustrato nel primo capitolo.

Alla sopravvivenza hegeliana Derrida contrappone un pensiero biologico della sopravvivenza, che si delinea primariamente nel testo Paraggi,236 laddove viene preso in considerazione un racconto particolare di Blanchot: L'Arrêt de mort. Attraverso il tema della “sopravvivenza” si giunge a un’ulteriore e definitiva congiunzione tra riflessione sul biologico nel segno della scrittura da una parte e la struttura ospitante, messianica a autoimmunitaria dall’altra.

La questione è quella che avevamo già accennato nel primo capitolo del carattere testamentario della scrittura, che comporta sempre una sopravvivenza, oltre se stesso, del soggetto scrivente. Ora, la struttura del vivente come archi-scrittura, come traccia, implica il concetto stesso di sopravvivenza intesa in due sensi: come sopravvivenza alla morte connaturata alla vita (l’assenza costituiva della traccia), e come vivere-sopra, vivere oltre sé, oltre il presente puntuale, proteso sempre verso l’a-venire (il rimando insito in qualsiasi traccia).

Ma vivere oltre sé, significa rompere il sogno di un’identità pura e dunque vivere nel rimando costante a quell’alterità senza la quale non potrebbe esserci vita. In particolare questo secondo senso della sopravvivenza richiama la struttura costitutiva dell’ospitalità e, attraverso la sua eco heideggeriana, richiama anche la struttura stessa dell’apertura messianica, dell’abbassamento delle difese per lasciare entrare l’altro, che nel suo poter essere anche morte implica a sua volta la prima interpretazione della sopravvivenza che abbiamo messo in luce, come sopravvivenza alla morte.

È interessante inoltre notare che il primo significato del termine sopravvivenza nel linguaggio comune è “continuare a vivere, salvarsi”. In Fede

e sapere, laddove Derrida definisce per la prima volta l’autoimmunità si riferisce

al termine immunità e al suo legame con un’altra parola, “indenne”, di cui

specifica il valore etimologico, e scrive che spesso questa parola «è stata scelta per tradurre heilig (sacro, santo e salvo, intatto) in Heidegger».237 La salvezza diventa il comune denominatore tra la sopravvivenza e l’immunità, facendo così segno, come vorremmo dimostrare, verso un’autoimmunità che abbiamo visto non a caso configurarsi come una paradossale immunità alla seconda potenza.

La sopravvivenza è dunque la modalità attraverso cui si articola una vita messianica e autoimmunitaria: vivere è sopravvivere e i viventi sono sempre sopravviventi. Bisogna però prestare attenzione perché nonostante la sopravvivenza comunemente intesa porti sempre con sé un qualche messaggio di morte, nella misura in cui ci si “salva” sempre dal rischio della morte, nel caso della posizione derridiana essa indica “la vita la morte”: in una parola, la vita, come Derrida stesso ci invita a pensare nell’intervista che ha rilasciato a Jean Birnbaum poco prima di morire.

Come ho già ricordato, dall’inizio e molto prima delle esperienze della sopravvivenza che al momento sono mie, ho marcato che la sopravvivenza [survie] è un concetto originale, che costituisce la struttura stessa di ciò che chiamiamo l’esistenza, il Dasein se vuole. Noi siamo strutturalmente dei sopravviventi, marcati da questa struttura della traccia, del testamento. Ma, avendo detto questo, non vorrei lasciare libero corso all’interpretazione secondo la quale la sopravvivenza è piuttosto dalla parte della morte, del passato, che della vita e dell’avvenire. No, tutto il tempo, la decostruzione è dalla parte del sì, dell’affermazione della vita. Tutto quello che dico – dopo Pas, almeno, in Paraggi – della sopravvivenza quale complicazione dell’opposizione vita/morte, procede nel mio lavoro da un’affermazione incondizionata della vita. La sopravvivenza è la vita al di là della vita, la vita più che la vita, e il discorso che io tengo non è mortifero, al contrario, è l’affermazione di un vivente che preferisce il vivere e dunque il

sopravvivere alla morte, giacché la sopravvivenza, non è semplicemente ciò che resta, è la vita, la più intensa possibile.238

Di nuovo torna quell’intricato rapporto “vita morte” che è al centro del nostro lavoro e che trova il suo compimento teoretico nell’autoimmunità. Ora, pensare la vita attraverso la lente messianica della debolezza, della vulnerabilità, dell’attesa arida e spoglia dell’altro tout court, non significa forse pensare proprio a una struttura autoimmunitaria della vita? La risposta è chiaramente affermativa, come abbiamo voluto dimostrare nell’arco di questo terzo capitolo: «tutto quanto abbiamo detto del messianico lo si può dire anche nel lessico biologico e medico dell’immunità».239 Restano dunque ora da chiarire quali siano le ragioni che spingono Derrida a scegliere un lessico biologico, le questioni e i contesti che generano un pensiero dell’autoimmunità, poiché esso non nasce a caso e poiché solo così se ne potrà realmente cogliere la posta in gioco.

238 Avances, in S. Margel, Le tombeau di dieu artisan, Minuit, Paris, 1995; trad. it. G. Bordoni, Mimesis, Milano, 2010, p. 54.

CAPITOLO 4

POLITICHE AUTOIMMUNITARIE

4.1. Un termine chimera

Nei precedenti capitoli abbiamo dimostrato che il tema della vita abita la decostruzione fin dagli albori, per giungere poi a un suo compimento nel lessico biologico dell’autoimmunità, fatale e paradossale logica che risulta indispensabile a Derrida per descrivere ciò che di singolare accade oggi. Ci siamo spinti oltre e, senza voler suggerire la direzione – che Derrida non avrebbe certamente gradito – di una sistematizzazione estrema della decostruzione, abbiamo mostrato come l’autoimmunità, al di là del suo primo utilizzo, indichi una struttura universale dell’esperienza, sintetizzando i concetti complessi di evento, ospitalità e messianico.

Una domanda sorge ora spontanea: perché, a un certo punto del suo percorso, Derrida avverte l’esigenza di nominare e formalizzare in modo nuovo una struttura cui aveva già pensato? Perché sceglie proprio il termine “autoimmunità”? E quali sono le conseguenze di un pensiero autoimmunitario?

La ragione è semplice: l’autoimmunità, più di ogni altro nome, si presta a diventare, tra le mani di Derrida, ciò di cui lui aveva bisogno: un formidabile termine chimera, in grado di contenere le istanze diverse, ma ugualmente importanti, della decostruzione. Essa nomina infatti il desiderio teoretico di decostruire il grande inganno della tradizione metafisica fono-logo-centrica, cioè quello della purezza e in particolare della vita pura che semplicemente si oppone alla morte. Nomina un’istanza biologico-epistemologica della decostruzione, l’interesse nei confronti di una relazione filosofica con le scienze della vita. E infine nomina la vocazione politica più concreta della decostruzione, la volontà di strapparsi di dosso le catene di una filosofia puramente speculativa e

accademica, per cercare di «cambiare alcune cose» e più in generale «il mondo».240

Il pensiero dell’autoimmunità si configura dunque come la risposta che Derrida aveva cercato dall’inizio – ragione per cui si annuncia già nei numerosi altri temi che abbiamo analizzato – ai problemi concreti del mondo che lo circonda, così pieno di contrasti, essi stessi autoimmunitari. Nel pensiero dell’autoimmunità si annuncia cioè non una biopolitica, ma una biologia che assume una direzione politica, anzi, una direzione etica, nella misura indica una serie di soluzioni, seppur non programmatiche, ai problemi appena citati.

Per concludere il nostro percorso studieremo ora il contesto che porta alla nascita dell’autoimmunità, che emergerà qui in tutto il suo carattere aporetico. Infine mostreremo le possibili soluzioni giuridiche, etiche e politiche verso cui un pensiero dell’autoimmunità ospitante fa segno.