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Gli anni Ottanta: gli strumenti ad hoc contro la tortura

Si è visto come, fin dalla metà degli anni Settanta, l’attenzione della comunità internazionale nei confronti del fenomeno della tortura si è accresciuta enormemente. Nel 1975 l’Assemblea generale ha adottato una Dichiarazione completa sul tema113; quattro anni dopo si è preoccupata di disciplinare la condotta del personale che applica la legge114 e nel 1982 ha prestato attenzione anche all’attività del personale medico nelle carceri115; tutto nell’ottica di combattere questa grave violazione dei diritti umani. Dunque, il consenso ormai pieno degli Stati membri delle Nazioni Unite sul divieto di tortura, ha permesso l’approvazione di nuovi testi, che contenessero disposizioni dettagliate per contrastare il fenomeno sul piano internazionale116.

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In particolare, certamente, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (v. supra, paragrafo 1.3), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (v. supra, paragrafo 1.9), la Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti (v. supra, paragrafo 1.11) e le Regole minime standard nel trattamento dei detenuti (v. supra, paragrafo 1.7). 113 V. supra, paragrafo 1.11. 114 V. supra, paragrafo 1.13. 115 V. supra, paragrafo 1.15. 116

Negli anni Ottanta questa tendenza si è acuita, e le prime timide aperture verso il tema (ricordiamo che la Dichiarazione del 1975 non prevedeva la vincolatività delle norme né la presenza di meccanismi di controllo), sono sbocciate finalmente in una consacrazione del divieto, che negli anni Ottanta è diventato dettagliato e obbligatorio. Sia le Nazioni Unite, sia le regioni americana ed europea, si sono dotate nel corso del decennio di formali Convenzioni contro la tortura, tra l’altro istitutive di importanti meccanismi specifici di controllo.

2.1. 1984: la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti.

Si tratta della fonte più importante mai redatta in materia di tortura. La sua vocazione universale, l’obbligatorietà delle sue disposizioni per gli Stati che l’hanno ratificata e la previsione di un incisivo sistema di controllo la rendono il pilastro principale del diritto internazionale nella lotta contro la tortura.

Né le convenzioni sui diritti umani in generale, né gli atti ad hoc non vincolanti (come la Dichiarazione ONU del 1975117) potevano essere strumenti efficaci per contrastare un fenomeno che continuava ad essere diffuso e denunciato a gran voce da diverse Organizzazioni Non Governative. Per questo, nel 1978 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dato incarico di redigere una Convenzione vincolante contro la tortura alla Commissione per i diritti umani, che, a sua volta, ha affidato ad un Gruppo di lavoro ad hoc il compito di elaborare il testo, basandosi su due proposte (quella della delegazione svedese e quella dell’Associazione internazionale di diritto penale)118. Al termine dei lavori preparatori119, e dopo un intenso negoziato, il testo definitivo della Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti è stato approvato con Risoluzione N. 39/46 del 10 dicembre 1984120. La Convenzione

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V. supra, paragrafo 1.11.

118

G.CONSO –A.SACCUCCI, Codice dei diritti umani, cit., p. 310; A.SACCUCCI, Profili di tutela, cit., p. 116.

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F. TRIONE, Divieto e crimine di tortura, cit., p. 29: che hanno operato un vasto rinvio alle discussioni che avevano preceduto la redazione dell’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, matrice comune di tutti i successivi strumenti in materia.

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G.CONSO –A.SACCUCCI, Codice dei diritti umani, cit., p. 310; A.SACCUCCI, Profili di tutela, cit., p. 117. Per un commento articolo per articolo di tutta la Convenzione, v. J.H.BURGERS –H. DANELIUS, The United Nations Convention against Torture. A Handbook on the Convention against

appare come un grande passo per il diritto internazionale dei diritti umani, se si considera la principale difficoltà che ha superato: l’azione inter-governativa sarebbe la più efficace per contrastare fenomeni di questo tipo, ma spesso sono proprio i governi a servirsi della tortura e sono quindi restii a prendere impegni vincolanti così specifici121.

2.1.1. La definizione di «tortura».

L’art. 1 della Convenzione contro la tortura contiene una chiara definizione della fattispecie, evidentemente rielaborata a partire dalla definizione contenuta nella Dichiarazione del 1975: “Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate”122.

La definizione non contiene l’analogo dell’art. 1.2 della Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone contro la tortura (“La tortura costituisce una forma aggravata e deliberata di pene o di trattamenti crudeli, inumani o degradanti”), che

Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, Dordrecht-Boston-Londra, 1988, pp. 114 ss.

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A.CASSESE, I diritti umani oggi, cit., p. 178.

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Traduzione ufficiale dell’originale inglese: “For the purposes of this Convention, the term «torture» means any act by which severe pain or suffering, whether physical or mental, is intentionally inflicted on a person for such purposes as obtaining from him or a third person information or a confession, punishing him for an act he or a third person has committed or is suspected of having committed, or intimidating or coercing him or a third person, or for any reason based on discrimination of any kind, when such pain or suffering is inflicted by or at the instigation of or with the consent or acquiescence of a public official or other person acting in an official capacity. It does not include pain or suffering arising only from, inherent in or incidental to lawful sanctions”.

aveva suscitato ampi dibatti durante i lavori preparatori della Convenzione, come già esposto supra123.

L’esistenza di una chiara definizione degli atti vietati impedisce agli Stati di avanzare giustificazioni basate su elastiche interpretazioni del termine, ed è quindi un elemento positivo124. Tuttavia, quella accolta nell’art. 1 della CAT (sigla che sta per Convention Against Torture) è una definizione piuttosto rigida, che richiede la contemporanea presenza di una serie nutrita di elementi, perché si possa ritenere violata la Convenzione125. Ciò, com’è ovvio, ne limita purtroppo la portata applicativa.

Gli elementi costituitivi della tortura, secondo la Convenzione del 1984, si possono schematizzare come segue.

1. L’atto. Nonostante l’art. 1 parli di “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti”, interpretando il trattato alla luce del suo scopo, si ritiene che le disposizioni in materia di tortura siano applicabili anche alle sofferenze procurate tramite omissioni (ad esempio, la privazione del cibo o dell’acqua), poiché, altrimenti, si offrirebbe il fianco a facili elusioni della Convenzione126.

2. Il dolore o le sofferenze. Il dolore e le sofferenze inflitte alla persona vittima di tortura possono essere, secondo la CAT, sia fisiche sia mentali, ma i due tipi configurati non sono definiti. La sofferenza costituisce l’elemento imprescindibile, essenziale della fattispecie, così tagliando fuori dalle garanzie i maltrattamenti operati con le moderne tecniche psicologiche e chimiche che evitano la percezione del dolore, tuttavia riducendo la volontà e l’autonoma scelta della vittima127. Dunque, agli occhi delle Nazioni Unite, il diritto a non essere

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V. supra, paragrafo 1.11.

124

A.CASSESE, I diritti umani oggi, cit., p. 178.

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C.DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 7.

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M. E.TARDU, The United Nations Convention against Torture and other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, in Nordic Journal of International Law, 1987, p. 304; C. DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 7.

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M. E.TARDU, The United Nations Convention against Torture, cit., pp. 304-305; C. DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 8.

sottoposti a tortura tutela solo la libertà dalla sofferenza, e non l’intera idea di dignità umana e integrità della coscienza128.

3. L’intensità del dolore o delle sofferenze. La definizione parla di dolori o sofferenze “forti” inflitti alla vittima. La soglia che distingue le sofferenze sufficientemente acute da rientrare nella previsione da quelle più blande non è, e non potrebbe essere, rigidamente fissata a parole, dipendendo dalle circostanze del caso concreto129. Ma l’esistenza stessa di una tutela differenziata per la tortura e per i maltrattamenti più leggeri è un criterio discutibile per giudicare i comportamenti degli Stati: anche l’inflizione di dolori e sofferenze meno gravi è una condotta grave e lesiva dei diritti umani; inoltre, rendere i maltrattamenti lievi meno condannabili, rischia di contribuire alla loro diffusione130.

4. L’intenzionalità. La definizione, richiedendo che le sofferenze vengano “intenzionalmente” inflitte, ripara dalla condanna gli Stati che causano dolore solo per negligenza131. Per evitare però che con l’etichetta della negligenza vengano intenzionalmente negati i servizi essenziali, è necessario verificare di volta in volta se gli agenti intendessero infliggere sofferenze o davvero non avessero i mezzi per garantire un trattamento dignitoso132. Se l’intenzione non è dimostrata, ci si trova di fronte non a tortura, ma a trattamenti inumani o degradanti, non compresi nella definizione all’art. 1 (e meno tutelati all’interno del sistema convenzionale, come si vedrà infra133).

5. L’elemento teleologico. L’inflizione intenzionale di dolore o sofferenze deve essere compiuta con uno scopo specifico (“al fine segnatamente di [...]”). L’art. 1 elenca tre possibili fini: ottenere informazioni o confessioni, punire, intimorire. Il Gruppo di lavoro ad hoc ha discusso sull’opportunità o meno di inserire un’elencazione di scopi all’interno del testo: il pericolo era che l’elenco venisse inteso come tassativo, tagliando fuori dalla tutela tutte le torture inflitte per

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Tale impostazione è criticata da M.E.TARDU, The United Nations Convention against Torture, cit., pp. 304-305.

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C.DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 7.

130 Ivi, p. 8. 131 Ibidem. 132 Ibidem. 133 V. infra, paragrafo 2.1.3.

ragioni diverse134. Durante i lavori che avevano preceduto la Dichiarazione del 1975, era stata proposta la clausola finale “...e per ogni altra ragione”, in modo da esplicitare il carattere solo esemplificativo dell’elenco135, ma l’idea – scartata completamente nel 1975 – è stata sostituita nel 1984 con la frase: “per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione”. In conclusione, la lista degli scopi di cui all’art. 1 non è esaustiva. Però solo fini ricollegabili a quelli previsti sembrano poter caratterizzare una violazione della CAT136.

È da sottolineare il fatto che lo scopo dell’agente non è quasi mai di agevole accertamento, essendo un elemento soggettivo. Per questo, lasciare che la lista degli scopi sia (almeno parzialmente) aperta, consente di raggiungere un campo di applicabilità più ampio137.

In ogni caso, rimane fortemente criticabile la limitazione alla protezione dalla tortura che l’elemento teleologico comporta. Innanzitutto, la Convenzione si occupa solo di scopi coscienti, trascurando completamente di considerare le motivazioni inconsce alla base dell’agire dei torturatori (come possono essere ad esempio il senso di inferiorità e l’alienazione)138.

Inoltre, tra gli scopi coscienti, è stata omessa l’intenzione di eseguire esperimenti scientifici senza il consenso della vittima (che il Patto sui diritti civili e politici del 1966, invece, si ricorda di vietare139). E la lista esclude anche l’infinita serie di torture commesse per gelosia, vendetta o altre motivazioni personali, non basate sulla discriminazione140.

6. L’identità dell’autore. Uno degli aspetti più controversi della definizione contenuta nella Convenzione ONU contro la tortura è costituito dall’esclusione dei privati tra i possibili autori di tortura141. L’art. 1 infatti considera un atto come tortura solo qualora, oltre a tutti gli altri elementi visti, “tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che 134 Ivi, pp. 8-9. 135 Ibidem. 136 Ivi, p. 9. 137 Ibidem. 138

M.E.TARDU, The United Nations Convention against Torture, cit., p. 305.

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V. supra, paragrafo 1.9.

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M.E.TARDU, The United Nations Convention against Torture, cit., p. 305.

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agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”. È vero che la gran parte delle torture vede come autori gli agenti di polizia o il personale penitenziario; è vero anche che la violazione sul piano internazionale è tanto più grave quando i maltrattamenti sono operati da soggetti riconducibili allo Stato; ma non si vede perché l’inflizione di tortura da privato a privato, magari tollerata o comunque non efficacemente prevenuta o punita da parte del legislatore, non debba essere coperta da garanzia142.

Nonostante la lettera della norma si riferisca solo ad agenti e incaricati dello Stato, va dato atto che, secondo una parte della dottrina, “in forza dell’«efficacia orizzontale» dei trattati internazionali sui diritti umani (c.d. Drittwirkung), lo Stato deve ritenersi obbligato ad assumere tutte le misure affinché tali atti non siano posti in essere da altre persone, prevedendo in particolare adeguate forme di sanzione nei confronti dei responsabili di torture e altri maltrattamenti”143.

Va riconosciuto che la previsione è comunque più ampia di quella che era contenuta nella Dichiarazione del 1975, la quale comprendeva tra i possibili autori solo gli agenti dell’amministrazione pubblica o soggetti da loro istigati; mentre non erano vietati gli atti commessi da “ogni altra persona che [agisse] a titolo ufficiale” né di soggetti che agissero con il consenso espresso o tacito dell’agente pubblico. L’estensione non è di poco conto, perché impedisce agli agenti statali di realizzare maltrattamenti servendosi di terzi privati come esecutori materiali, o omettendo di interrompere e punire torture spontaneamente inflitte da privati144.

7. Le sanzioni legittime. La definizione di «tortura» accolta dalle Nazioni Unite esclude che possa considerarsi tale l’inflizione di dolore o sofferenze attraverso l’esecuzione di una sanzione legittima. Il principio è meritevole di

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Come, tra l’altro, auspicavano alcuni degli Stati rappresentati nel Gruppo di lavoro ad hoc. Secondo altri, viceversa, la Convenzione avrebbe dovuto colpire solo atti commessi da agenti statali: cfr. in merito C.DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 9. M.E.TARDU, The United Nations Convention against Torture, cit., p. 306: in questo modo, la Convenzione esclude dal proprio ambito di tutela gravi condotte, pure molto diffuse, quali violenza sulle donne e sui bambini, crudeli sanzioni corporali inflitte a domestici e sottoposti, pratiche sadiche sulle prostitute e tutte le torture fisiche e mentali a volte commesse dai rapitori sulle loro vittime e sulle relative famiglie.

143

G.CONSO –A.SACCUCCI, Codice dei diritti umani, cit., p. 310; A.SACCUCCI, Profili di tutela, cit., p. 117.

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A.BYRNES, The Commettee against Torture, in P.ALSTON (a cura di), The United Nations and Human Rights. A critical appraisal, pp. 516-518; C.DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 9.

consenso, in quanto le sanzioni previste dai sistemi penali nazionali comportano inevitabilmente un certo grado di sofferenza e umiliazione che, finché non viene intenzionalmente aggravato, non deve poter fondare una responsabilità internazionale dello Stato.

Questo però crea evidenti contraddizioni, considerando che purtroppo alcuni Paesi (soprattutto, alcuni Stati islamici) prevedono nei loro ordinamenti pene corporali e capitali crudeli e inumane145. Ciò comporta, tra l’altro, che uno stesso comportamento brutale venga considerato come violazione della Convenzione se attuato in alcuni Stati e non se attuato in altri (che lo adottano in modo sistematico come pena)146.

Un modo per arginare il problema, in realtà, era stato trovato nel 1975, quando la Dichiarazione prevedeva che non costituissero tortura solo quelle sanzioni legittime che cagionavano sofferenze “in una misura compatibile con le Regole minime standard per il trattamento dei detenuti147148. La proposta della delegazione svedese per l’elaborazione della CAT consigliava di reiterare il rinvio alle Regole149, ma, nel testo definitivo, è stata accolta l’idea opposta. Ciò è avvenuto sia per la forte volontà in tal senso dei Paesi arabo-islamici (che non avrebbero altrimenti prestato il loro consenso150), sia perché secondo alcuni Stati era inopportuno dare alle Regole minime standard per il trattamento dei detenuti una vincolatività che non avevano, in quanto emanate come semplici raccomandazioni151.

Una soluzione può forse lo stesso essere trovata per altra via: l’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 stabilisce che un Governo non può invocare l’ordinamento giuridico nazionale come giustificazione per la

145

A.CASSESE, I diritti umani oggi, cit., pp. 179-180; C.DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 11.

146

C.DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 11.

147

Cfr. supra, paragrafo 1.7.

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Art. 1 Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla protezione di tutte le persone sottoposte a tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani e degradanti del 1975. Questo rinvio permette di considerare vietate pene quali: punizioni corporali, detenzione in una cella buia, uso di strumenti di restrizione.

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M.E.TARDU, The United Nations Convention against Torture, cit., p. 307; C.DANISI, Divieto e definizione di tortura, cit., p. 10.

150

Ivi, p. 11; G.CONSO –A.SACCUCCI, Codice dei diritti umani, cit., p. 310; A.SACCUCCI, Profili di tutela, cit., p. 117.

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violazione delle disposizioni di un trattato di cui è Parte. Ne consegue che, indipendentemente dall’assenza di una esplicita previsione in tal senso, le leggi nazionali degli Stati firmatari dovrebbero essere conformi allo scopo prefisso della CAT152 e non potrebbero quindi prevedere pene manifestamente inumane.

2.1.2. Gli obblighi per gli Stati.

Con la Convenzione contro la tortura, gli Stati hanno assunto su di essi una serie di obblighi molto precisi, che sono tutti dettati in riferimento alla fattispecie di tortura come definita all’art. 1.

Innanzitutto, essi devono generalmente prevenire la commissione di tortura, adottando le necessarie misure legislative, amministrative e giudiziarie (art. 2.1). Il divieto di tortura è esplicitamente inderogabile: “Nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per giustificare la tortura” (art. 2.2); neanche l’ordine di un superiore può costituire valida giustificazione di fronte a questa grave violazione (art. 2.3)153.

In secondo luogo, sono espressamente vietate anche le “violazioni indirette” del divieto di tortura, vale a dire quelle violazioni che si concretizzano non in un maltrattamento compiuto direttamente dallo Stato, ma nell’esecuzione dell’espulsione, del respingimento o dell’estradizione di una persona “verso un altro Stato nel quale vi siano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta alla tortura” (art. 3.1).

In terzo luogo, la Convenzione sancisce a chiare lettere un obbligo di

incriminazione in capo agli Stati. L’art. 4.1 recita: “Ogni Stato parte vigila affinché

tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni nei confronti del suo diritto penale”; lo stesso deve valere per i tentativi di commissione del reato e per il concorso nel reato (art. 4.2). Quindi, la CAT impegna gli organi nazionali ad adottare appositi strumenti giuridici per punire gli autori dei comportamenti vietati154. Inoltre, non basta che l’ordinamento punisca la tortura: è necessario che

152

Ivi, p. 12.

153

Cfr. M.E.TARDU, The United Nations Convention against Torture, cit., pp. 311-312.

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le sanzioni risultino adeguate agli atti e “tengano conto della loro gravità” (art. 4.3); ed è previsto all’art. 7.2 che gli atti di tortura siano trattati come “trasgressioni [...] di natura grave”.

Ancora, secondo gli artt. 5, 7.1 e 8 la tortura è un crimine tanto grave da fondare l’universalità della giurisdizione su di esso155. Ogni Stato deve conoscere dei reati di tortura commessi nel proprio territorio, o per mano di un suo cittadino, o – se lo ritiene opportuno – a offesa di un suo cittadino (art. 5). Inoltre, lo Stato “sul cui territorio viene scoperto il presunto autore di una trasgressione”, anche se non è competente per territorio o nazionalità156, deve, alternativamente, estradare il sospettato verso lo Stato che ne faccia richiesta157, ovvero esercitare direttamente la propria giurisdizione penale (secondo il brocardo aut dedere aut judicare)158. In quinto luogo, in un’ottica di prevenzione, è previsto che la formazione del personale che applica la legge e del personale medico sia integrata da insegnamenti sull’interdizione della tortura (art. 10) e che gli Stati sorveglino sulle pratiche di interrogatorio, custodia e trattamento delle persone in vinculis per prevenire la diffusione delle attività vietate (art. 11).

Alla previsione degli obblighi di incriminazione e prevenzione si aggiunge l’obbligo, per gli Stati, di procedere “immediatamente ad un’inchiesta imparziale, ogni volta che vi siano motivi ragionevoli di ritenere che un atto di tortura sia stato commesso su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione” (art. 12). A