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L‟antilingua del brigadiere e l‟italiano delle maestre: italiano burocratico e italiano scolastico

Nota 2: a seconda dell‟ampiezza, dello scopo a cui rispondono e della leggibilità, le citazioni tratte

2.2 Lettura e scrittura in Italia: i lettori reali e la ricezione sacrale del libro

2.2.3 L‟antilingua del brigadiere e l‟italiano delle maestre: italiano burocratico e italiano scolastico

Nella norma linguistica che guida la traduzione del classico moderno, l‟influsso dell‟italiano letterario (nelle sue varianti più conformi alla tradizione) si intreccia all‟azione dell‟italiano burocratico e a quella dell‟italiano scolastico. Parzialmente sovrapponibili, questi modelli sono caratterizzati sul piano lessicale da una comune propensione alla ridondanza e all‟elevazione del registro. “Una delle caratteristiche fondamentali della lingua burocratica”, osserva Mengaldo (1994: 277) è “l‟essere trasformazione per alzo di registro e ridondanza, si vorrebbe dire traduzione [...] della lingua, diciamo, „normale‟”, mentre un altro “dato fondamentale” è rinvenuto nell‟“ipertrofia” che colpisce il linguaggio burocratico rispetto alla maggiore concisione del linguaggio orale o medio. Un‟osservazione non dissimile si ritrova in Andrea De Benedetti (2009) riguardo all‟italiano scolastico, cui viene imputata un‟analoga ipertrofia, una sorta di “doping” espressivo: “il doping di quelli”, scrive De Benedetti (2009: 117), “che per migliorare le proprie prestazioni linguistiche gonfiano le frasi con tutte le espressioni più difficili che conoscono. C‟è quello che non dice mai „fare‟ ma „effettuare‟ o „realizzare‟; mai „scegliere‟ ma sempre „operare una scelta‟, [...] mai „bere‟ ma „sorbire‟”. Questo “gonfiarsi” della lingua nella sua dimensione burocratica e scolastica richiama in modo diretto la descrizione calviniana dell‟“antilingua”.

Nel 1965, con un articolo pubblicato sul Giorno e intitolato “L‟antilingua”, Italo Calvino si inserisce nella discussione aperta da Pier Paolo Pasolini sulla nuova lingua italiana. Nell‟articolo, Calvino mostra cosa potrebbe succedere all‟immaginaria deposizione orale di un interrogato, una volta che questa venga trasposta in forma scritta nel verbale di un ipotetico brigadiere dei

117 carabinieri. La parodia calviniana dell‟“antilingua” del brigadiere rende mirabilmente l‟alzo di registro e l‟accumulo perifrastico di espressioni vuote che segnano questo passaggio: “stamattina presto” diventa “nelle prime ore antimeridiane”, “andavo in cantina” non basta e viene elevato a “Il sottoscritto essendosi recato nei locali dello scantinato”, “ad accendere” si allunga nel più complesso “per eseguire l‟avviamento”, e il semplice “ho trovato” è sostituito dal magniloquente “dichiara d‟essere casualmente incorso nel rinvenimento” (Calvino 1995: 149). È in questo modo che l‟italiano chiaro e conciso dell‟interrogato viene investito dalla lingua burocratica, si perde nelle circonlocuzioni e diventa irriconoscibile, assumendo un tono grigio, elevato e formale. Ecco come Calvino descrive questa “antilingua inesistente”, che lo scrittore vede come lontana dalla realtà e affetta da “terrore semantico”:

Ogni giorno, soprattutto da cent‟anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un‟antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d‟amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell‟antilingua. Caratteristica principale dell‟antilingua è quello che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga da ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, [...] come se “andare” “trovare” “sapere” indicassero azioni turpi. Nell‟antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. [...]

Chi parla l‟antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico [...]”. La lingua [...] vive solo d‟un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d‟una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l‟antilingua – l‟italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa. (Calvino 1995: 150).

L‟“antilingua” descritta da Calvino nel 1965, l‟italiano che rifugge dal significato e dunque in un certo senso dal rapporto con la vita, contribuisce non meno dell‟italiano letterario – in cui spesso confluisce – a configurare la norma linguistica delle traduzioni del classico. L‟antilingua è in sostanza l‟italiano opaco e innalzante di chi non dice “ho fatto” ma “ho effettuato”, evitando i moduli semplici, spesso appartenenti all‟oralità, a vantaggio di forme inutilmente complicate. Commentando l‟“antilingua” del brigadiere, Mengaldo (1994: 277) parla non a caso di una vera e propria “traduzione perifrastica”, “ridondante e opaca” del discorso orale. In questa rielaborazione opacizzante del significato originario, assume un ruolo di primo piano lo slittamento dal modo orale al modo scritto. Questo passaggio produce un conseguente spostamento verso l‟alto del registro, che sfocia a sua volta nell‟innalzamento lessicale e più in generale nell‟appiattimento della dimensione orale. Si potrebbe dire, in altri termini, che come l‟italiano letterario, anche l‟italiano burocratico e

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scolastico si distanziano dallo stile semplice e dalla medietà del codice orale a vantaggio di un‟espressione scritta, ridondante e “difficile”. Come già osservato altrove (cfr. cap. 1), questo tipo di stile alto e nobilitante è parametro ricorrente nelle scelte dei traduttori del Grande Libro, e in questo caso (come è facile immaginare) l‟influsso nativo dell‟antilingua peserà in modo particolare sulla resa dei dialoghi e del parlato.

Nel suo studio sociolinguistico dell‟italiano contemporaneo, Gaetano Berruto (1987) ascrive il codice burocratico al registro alto56, e ne mette in luce l‟ampollosità, l‟aspetto “gonfio, verboso, ridondante” (Berruto 1987: 165). Ai tratti lessicali dell‟italiano burocratico – tra i quali Berruto (1987: 164) enumera “tecnicismi di varia natura”, “connettivi e deittici aulico-letterarizzanti”, una “spiccata tendenza alla nominalità” e l‟uso di sintagmi preconfezionati – si uniscono specifici tratti testuali e sintattici. “Per la morfosintassi e la testualità”, scrive Berruto (1987: 164-65), “balzano agli occhi” una “sintassi impersonale, con insistito effetto di depersonalizzazione”, “periodi molto lunghi e complicati, e strutture frasali molto complesse”. Nell‟insieme, una sintassi appesantita e piuttosto contorta, una “testualità pomposa”, che si unisce, come già evidenziato da Calvino, alla “verbosità formale”, alla “vuotezza dei significati”, e all‟uso di “perifrasi magniloquenti” (Berruto 1987: 188). È interessante peraltro osservare, con Berruto (1987: 165), anche l‟ambivalenza della cultura italiana verso questo codice: se l‟accumulo di moduli vuoti e ampollosi “dà spesso un certo disturbo, specie a chi ci tiene alla „bella lingua‟”57

, è altrettanto vero che, malgrado i tentativi di semplificazione, il linguaggio burocratico viene spesso sentito anche come “salvaguardia del registro elevato”. È in questa veste che la lingua burocratica spesso incide sulle versioni italiane dei classici moderni, mantenendo comunque anche una diffusione piuttosto ampia nel polisistema italiano.

L‟uso di moduli burocratici o scolastici sembra infatti essere endemico nell‟italiano scritto, e la sua influenza si estende ben oltre gli ambiti istituzionali e amministrativi in cui questi moduli nascono e vengono usati in via preferenziale. Lo mostra il modo in cui il codice burocratico lambisce non solo la scrittura traduttiva, ma prove letterarie e accademiche di vario genere, specie se elaborate da principianti. In queste prove è riconoscibile una cifra comune dominante che Cardona definisce “complesso da rispetto del testo scritto”. È a questa riverenza verso il testo scritto

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Nello schema elaborato da Berruto (1987: 21) sulla base di tre assi principali – quello “diamesico”, che distingue il parlato dallo scritto; quello “diastratico”, che poggia sullo strato sociale dei parlanti; e quello “diafasico”, segnato dai registri più o meno formali e dai sottocodici – l‟italiano burocratico si colloca nella parte alta dell‟asse diafasico, insieme all‟italiano aulico e all‟italiano tecnico-scientifico.

57 Cfr. anche Serianni (2004: 92): “Nei normari è molto vivace la lotta al linguaggio burocratico: un tema già presente

nel purismo ottocentesco, come componente della più vasta avversione all‟inquinamento prodotto dai linguaggi settoriali, ma fortemente rinnovato dagli anni Novanta in poi”.

119 che si richiama Antonelli riportando i commenti di Tondelli sugli esiti di un concorso per giovani narratori indetto a metà degli anni Ottanta:

Nel leggere gli oltre quattrocento racconti giunti in risposta all‟appello del 1985, raccontava Tondelli in

Giovani blues, “siamo passati indenni da un racconto all‟altro, a un altro ancora, senza avvertire stacchi. Come

se leggessimo, appunto, le prove d‟esame d‟un concorso ministeriale, tutte scritte con lo stesso italiano burocratico e insipido”. [...] È quella forma di soggezione linguistica che Cardona 1986: 25 ha chiamato “complesso da rispetto del testo scritto”, destinata ovviamente ad acuirsi quando ci si trova alle prese con un testo che aspira alla letterarietà. (Antonelli 2006: 58)

Nei racconti dei giovani scrittori italiani esaminati da Tondelli, che assomigliano più o meno tutti alle “prove d‟esame di un concorso ministeriale”, la sovrapposizione fra italiano letterario e italiano “burocratico e insipido” è pressoché completa, e dettata in primo luogo da una “soggezione linguistica” verso il testo scritto, specie se letterario.

La stessa soggezione, che va di pari passo con la parziale inesperienza degli scriventi, viene rilevata da Maria Teresa Romanello (1991) nello stile degli studenti universitari alle prese con la stesura della tesi di laurea. La Romanello (1991: 41-2) osserva nel lavoro degli studenti un “persistente stato di „soggezione‟”, testimoniato “da uno stile particolare del discorso, eccessivamente sbilanciato verso l‟aulico”, e conclude che se “uno studente continua a rivelare uno stato di eccessivo timore verso una richiesta di scrittura che gli procura [...] atteggiamenti contraddittori [...], tra eccessivo culto ed imperfezioni, tra aulicismi e cadute improvvise di tono”, significa allora che non ha ancora risolto il “complesso da rispetto del testo scritto”, né acquisito il “repertorio di varietà scrittorie che la società gli richiede”. Nella sua analisi degli aspetti pragmatici e testuali delle introduzioni a tesi di laurea di argomento scientifico, Claudia Maffi (1991: 74-5) segnala in questi testi la presenza di “ridondanze” e “sintagmi burocraticamente sfuggenti che celano il vuoto”, e conclude con un‟esortazione da cui traspare un certo fastidio per l‟effetto opacizzante prodotto da questo particolare tipo di antilingua: “Se codice deve essere, meglio sia quello disciplinare. Le interferenze del linguaggio burocratico, molto frequenti per la comune appartenenza al registro formale, sono irritanti”. È significativo osservare come ritorni anche nella lingua burocratizzante degli studenti universitari quella oscillazione tra alto e basso (qui fra aulicismi, burocratismi e cadute di tono) che segna l‟italiano letterario, e come permanga immutata nel panorama autoctono la necessità di ricorrere nella comunicazione scritta a moduli nobilitanti, evidentemente sentiti come irrinunciabili. Si ripropone in queste manifestazioni del “complesso da rispetto del testo scritto” la visione del libro e della scrittura come “oggetti” sacrali cui accostarsi con il dovuto rispetto e timore reverenziale, già osservata per la ricezione del classico.

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Alla persistenza di questo atteggiamento reverenziale, che sembra marcare l‟italiano scritto per via burocratica e letteraria, contribuisce anche l‟italiano della scuola58, quello che nel suo studio sulla lingua di fine Ottocento Teresa Poggi Salani (1983: 959) chiama l‟“italiano delle maestre”, con una definizione applicabile ancora oggi. La soggezione verso il testo scritto, l‟aspetto ipertrofico, innalzante e lontano dalla medietà dell‟italiano letterario e burocratico, storicamente riconducibili anche alla lenta progressione della lingua media comune (cfr. § 2.2.4), vengono confermati e rilanciati dall‟insegnamento della lingua nazionale nella scuola italiana. Come già osservato nella parte dedicata allo sviluppo storico dell‟idioma nazionale (cfr. De Blasi 1993: 414, e § 2.2.1), l‟italiano scolastico si potrebbe identificare come una “lingua speciale”, ed è contraddistinto da una serie di tratti riconoscibili e ricorrenti. Il primo e più generale di questi tratti è l‟allontanamento dalla lingua parlata. Come si è visto, nel periodo della scuola post-unitaria si diffonde in Italia un insegnamento puramente formalistico della lingua che mira ad escludere in modo sistematico i moduli lessicali e sintattici del parlato, ancora in prevalenza dialettale. “Al raggiungimento di questo obiettivo”, scrive De Blasi (1993: 415), “concorrono per esempio, nel secolo scorso come ancora adesso, le prescrizioni di non usare lui e loro in posizione di soggetto”. Nei primi decenni del Novecento, lo scollamento tra lingua vera e italiano scolastico non sfugge ad Antonio Gramsci, che nei Quaderni dal carcere denuncia il contrasto insanabile fra “una grammatica normativa spontanea, non scritta, ed una scritta, codificata dalle istituzioni statali attraverso la scuola” (Mengaldo 1994: 16). Nell‟insieme, quello che più colpisce, al di là delle diverse occorrenze in cui si manifesta, è la straordinaria persistenza nel tempo degli usi e delle norme dettate dall‟istituzione: la maggior parte delle prescrizioni dell‟italiano scolastico valgono, come afferma Serianni, “ancora adesso”, e ancora adesso – a fronte di una lingua media comune ormai acquisita anche sul piano orale – l‟italiano scolastico, come quello letterario, appare particolarmente refrattario agli usi del parlato.

Come nell‟italiano burocratico, e in parte in quello letterario, la lingua insegnata a scuola mostra una generale tendenza alla ridondanza e all‟innalzamento. Ecco come la descrive Mengaldo:

Su quali presupposti e pratiche si basa, in breve, l‟insegnamento “tradizionale” dell‟italiano? 1) Vige l‟idea che gli allievi, contro ogni evidenza, siano monolingui e non diglottici o dilalici se non bilingui. 2) Si privilegia l‟uso cognitivo o referenziale della lingua rispetto alla varietà di tutti gli altri suoi usi. 3) L‟italiano “puristico” insegnato è, ancor più che un italiano letterario, un pretto italiano “scolastico” (la tautologia ci vuol proprio):

58 Berruto (1987: 15) individua tra il codice burocratico e l‟italiano scolastico un possibile legame di discendenza

diretta: il linguaggio burocratico, “frutto della centralizzazione amministrativa, [...] si basa su un ideale scritto artificioso, ed è usato dai ceti medi del terziario; fungerebbe anche da modello per gli insegnanti nella scuola”.

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per cui è normale che l‟insegnante corregga arrabbiarsi con adirarsi, fare con eseguire, di più con

maggiormente, andare a letto con coricarsi, lui lei loro sogg. con egli essa esse [...]. (Mengaldo 1994: 22)

L‟italiano scolastico si presenta in sostanza, nel quadro che ne dà Mengaldo, come una lingua persistente, monolitica e “puristica”, abbastanza impermeabile alla diversità degli usi e insegnata in prevalenza a scopo “cognitivo o referenziale”. In questo codice, indipendentemente dalla situazione comunicativa in cui viene utilizzato, l‟alzo di registro è costante. Come nell‟antilingua del brigadiere calviniano, fare diventa allora eseguire, arrabbiarsi è corretto in adirarsi, e così via.

La dimensione lessicale è, come si vede, quella in cui questo processo si evidenzia con maggiore chiarezza. L‟uso di forme arcaicizzanti e lontane dalla lingua media (come i soggetti

egli/ella/essi/esse al posto di lui/lei/loro) mette in luce uno dei tratti più salienti dell‟italiano della

scuola fin dal periodo post-unitario: la predilezione per il lessico elevato e per la sinonimia. Scrive a questo riguardo De Blasi:

La caratteristica forse più evidente dell‟italiano di uso scolastico è l‟adozione di in lessico ricercato, insegnato il più delle volte a partire dalla repressione delle forme più spontanee e familiari. Proprio sul lessico si concentrava gran parte degli sforzi della didattica linguistica postunitaria [...]: la nomenclatura rappresentava la principale preoccupazione e condizionava anche il metodo didattico [...]. (De Blasi 1993: 415)

Se tra Ottocento e Novecento questa predilezione prende forma in un lessico aulico e lezioso (lessico che spinge una giovane sulmonese di nome Cecchina a intrecciare il suo italiano popolare con espressioni magniloquenti e incongrue come in io riedo da Roma, ho comprato uno speglio, è

molto veglio il tuo cappello e tu sei molto ultore; cfr. De Blasi 1993: 418), il ricorso alle forme

paludate continua a presentarsi anche nei decenni successivi. Nonostante un lieve avvicinamento alla lingua media, e malgrado la recente introduzione nelle scuole superiori di prove come l‟articolo di giornale o il saggio critico, gli elaborati scritti – e in particolare il tema, da sempre giudicato palestra della “ricchezza espressiva” – mantengono salde le posizioni dell‟italiano puristico e formale trasmesso dalla scuola. “Passando da un campo osservai che i buoi erano intenti a tirare il pesante aratro. Mi rivolsi al babbo ed esclamai: che fatica per quelle povere bestie! Il babbo sorrise e mi disse che disimpegnavano così il loro compito”: questa citazione, tratta da un tema di scuola elementare scritto negli anni Trenta (cfr. De Blasi 1993: 420) mostra lo scarto tra la lingua scolastica scritta e quella parlata. Negli elaborati di trenta anni più tardi, scrive De Blasi (1993: 420- 21), questo scarto non è ancora colmato e, pur con un grado di artificiosità minore, “si continua a usare recarsi per „andare‟, intonare un canto per „cantare‟”, e così via.

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Nei decenni successivi, l‟immissione di forme regionali, di anglicismi e di tratti panitaliani del parlato ha parzialmente messo in crisi un sistema scolastico “avvezzo a impartire una sola e unica norma come corretta e ammissibile” (De Blasi 1993: 421). Di fronte al cambiamento, tuttavia, la scuola italiana sembra per lo più orientarsi verso posizioni immobilistiche mirate al mantenimento della norma tradizionale. Negli anni Settanta, osserva De Blasi (1993: 421), “l‟analisi delle correzioni apportate ai temi, spesso ingiustificate se non del tutto peggiorative o errate” rendono evidente che, “in assenza della vecchia norma puristica”, molti insegnanti si comportano da “nostalgici”, e non rinunciano all‟idea “che esista un unico e invariabile modo di esprimersi correttamente, modellato semmai non sulla sola lingua letteraria, ma anche su quella della burocrazia o dell‟informazione”. Quello che ne deriva è un intenso ricorso a forme stereotipate, tra il letterario e il burocratico, particolarmente diffuse anche perché di facile trasmissione nel corso del tempo. Riemerge così, anche per influsso del codice burocratico, il vecchio stile aulico, che sostituisce a moduli di uso quotidiano perifrasi e parole più ricercate. Ancora alla fine degli anni Ottanta, immobilizzati su posizioni “nostalgiche” e poco sensibili alla variabilità linguistica, molti insegnanti chiedono di conoscere – ed esigono dagli studenti – solo “ciò che è sicuro, uno e immobile” (Beccaria 1988: 250-51).

Anche in tempi più recenti, la cornice di immobilità che caratterizza l‟italiano della scuola appare sostanzialmente immutata. In una monografia a due mani pubblicata nel 2009, Luca Serianni e Giuseppe Benedetti analizzano la norma linguistica imposta in Italia dagli insegnanti di lettere nel primo anno di scuola superiore, e rimarcano lo zelo applicato alla difesa di “reperti archeologici” come egli/ella soggetto (Serianni, Benedetti 2009: 141), nonché al rifiuto dei colloquialismi:

Continua a suscitare censure generalizzate, quale che sia l‟area geografica e il tipo di scuola, l‟intromissione del lessico colloquiale. [...] Detto questo, siamo d‟accordo che non si debbano usare né casino né ganzo. Ma di qui a censurare parole non marcate, e quindi correnti in ogni livello di lingua, perché appartenenti al lessico fondamentale, ce ne corre. Sono i casi sui quali ironizzava, ormai molti anni fa Tullio De Mauro, evidentemente senza essere riuscito ad abbattere il baluardo delle abitudini acquisite. Il lessico deve essere puntuale e referenziale [...]; le azioni, comprese quelle più banali e quotidiane, devono essere dettagliate e descritte minutamente, come se si dovesse redigere un verbale; il parlato non deve insinuarsi a nessun livello nelle pagine di un compito in classe, nemmeno quando si inventa un dialogo. (Serianni, Benedetti 2009: 139)

A dispetto dell‟evoluzione della lingua a livello nazionale, l‟insegnamento dell‟italiano nella scuola continua per antica abitudine a osteggiare l‟introduzione di moduli del parlato nell‟espressione scritta (paradossalmente anche quando allo studente si richieda di simulare un dialogo), arroccandosi su una dimensione lessicale slegata dalla funzione comunicativa, dalla componente

123 situazionale, dalla varietà dei registri che ne consegue. In questo modello di lingua distante dalla medietà e dalla variabilità linguistica, quello che conta è l‟uso a tutti i livelli di termini precisi o sinonimici, “come se si dovesse redigere un verbale”, e la norma viene estesa anche alla descrizione di azioni o situazioni semplici. Così, “fare una multa” è corretto con “applicare una multa”, “si arrabbiò” passa a “si inquietò”, e a al posto di “durante il compito non c‟è molto rumore” l‟insegnante suggerisce di scrivere “non si odono rumori in classe” (cfr. Serianni, Benedetti 2009: 139). Il rigetto delle forme medie del parlato, anche quando non siano scorrette o volgari, il “rispetto” del testo scritto e i meccanismi di innalzamento lessicale che ne derivano sono gli stessi che agiscono sull‟italiano burocratico e su quello letterario. Queste tre componenti – scolastica, burocratica, letteraria – si intrecciano a loro volta nell‟italiano immobile e nobilitante che plasma i classici in traduzione.

La visione dogmatica, immobilistica e sacrale dell‟italiano scolastico investe tanto il campo lessicale quanto quello sintattico. Come per il lessico, anche l‟insegnamento della grammatica italiana mostra una notevole resistenza all‟accettazione delle varietà medie e parlate, tanto che De Benedetti (2009: 12) arriva a parlare di una “grammatica-catechismo che si impara come un dogma di fede e che ti educa a considerare l‟italiano come una reliquia intoccabile”. Nel suo testo del 2009, che rivede la grammatica alla luce degli usi attuali della lingua, De Benedetti individua nella scuola italiana una “legione di insegnanti, vetero-puristi e neo-cruscanti impegnati a vario titolo in