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L‟italiano moderno: la formazione della lingua nazionale

Nota 2: a seconda dell‟ampiezza, dello scopo a cui rispondono e della leggibilità, le citazioni tratte

2.2 Lettura e scrittura in Italia: i lettori reali e la ricezione sacrale del libro

2.2.1 L‟italiano moderno: la formazione della lingua nazionale

Osservando attraverso la lente delle biblioteche pubbliche il quadro dei lettori e delle pratiche di lettura nell‟Italia post-unitaria, Traniello (2002: 31) precisa: “Occorre subito premettere che l‟ambito di riferimento per l‟analisi [...] è costituito evidentemente dalla sola popolazione alfabetizzata”, e cioè da “gruppi percentualmente assai ristretti sul totale della popolazione italiana”. Pure interessata da un progressivo avanzamento tecnologico e industriale (in grado di dare nuovo impulso anche all‟editoria), sul piano della diffusione del leggere l‟Italia ottocentesca e

91 novecentesca presenta una serie di difficoltà che hanno in primo luogo a che fare con la lingua. Come afferma ancora Traniello:

Dal punto di vista dei lettori, un più vasto accesso agli strumenti della comunicazione scritta non dipendeva però solo, e neppure principalmente, in Italia, da fattori tecnici e produttivi, ma prima di tutto da aspetti legati a quella stessa comunicazione, vale a dire alle forme linguistiche in cui essa tendeva a esprimersi. (Traniello 2002: 31)

La concezione del leggere come sacrificio fruttuoso, e la preminenza dell‟impulso pedagogico nelle pratiche di lettura, possono in realtà essere meglio comprese alla luce delle radici storiche e linguistiche che hanno segnato lo sviluppo dell‟italiano moderno, sia come lingua nazionale, sia come lingua specificamente letteraria.

Più che una lingua madre, l‟italiano resta infatti a lungo una lingua scritta e letteraria: “non c‟è in Italia una lingua la qual sia da tutti succhiata, come si dice, col latte, adoperata, intesa da tutti”, lamenta Manzoni (1974: 11), “la lingua insomma di quelli che ne intendono una sola, la quale, per conseguenza, si possa chiamar lingua propria e nativa di tutti gl‟italiani, la quale si possa in questo senso denominar lingua italiana”. Nelle sue riflessioni sulla lingua italiana, Giulio Lepschy (2002a: 25) definisce l‟italiano come esempio di lingua ben nota che per molto tempo non è stata la lingua madre di nessuno. Veicolo di una letteratura celebrata e altrettanto famosa che copre più di otto secoli, con autori di statura mondiale come Dante, Petrarca e Boccaccio, fino a tempi tutto sommato abbastanza recenti l‟italiano è stato privo di veri e propri parlanti nativi. Nella sua Storia linguistica dell‟Italia unita, Tullio De Mauro (1963/1999) sottolinea il bassissimo livello di alfabetismo e il predominio dei dialetti nell‟Italia post-unificazione. Il senso di sacrificio associato alla lettura in Italia trova riflesso nel laborioso apprendimento di una lingua nazionale virtualmente sconosciuta alla maggioranza della popolazione. Nel contesto socio-culturale dell‟Italia ottocentesca (e in parte anche novecentesca), l‟italiano si presenta come una sorta di lingua morta, statica e immobile, in prevalenza scritta e conosciuta da pochi eletti:

Carlo Gozzi aveva definito l‟italiano “una lingua morta” giacente “nelle migliaia di volumi scritti” e che si apprendeva “come le lingue morte”, per via di studio. La situazione non era mutata molto negli anni dell‟unificazione. Il primato dell‟italiano era già allora un dato certo e sicuro, ma soltanto sul piano culturale e politico, non su quello linguistico: a che l‟italiano fosse davvero l‟idioma principalmente usato dagli italiani si opponevano abiti e caratteri che, radicati nei secoli nella società italiana, avevano prodotto il paradosso [...] di una lingua celebrata ma non usata e, per dir così, straniera in patria. (De Mauro 1963/1999: 14)

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L‟italiano è lingua illustre e riconosciuta a livello nazionale per il suo alto valore letterario e politico, ma non è lingua davvero “usata”, viene spesso esclusa dall‟utilizzo orale, e rimane a lungo “straniera in patria”. All‟atto pratico, neppure l‟adozione fin dal Trecento di un idioma nazionale riconducibile al fiorentino o al toscano riesce ad attenuare il predomino dei dialetti, e dal Trecento fino all‟unificazione (e oltre) l‟italiano resta appannaggio “di una minoranza di addottrinati, che la usavano solo nelle scritture” (De Mauro 1963/1999: 28).

Carattere dominante dell‟idioma nazionale è, nelle parole di De Mauro (1963:/1999: 28), una “staticità” che rasenta l‟“immobilità”. Questa tendenza alla conservazione, dovuta all‟utilizzo prevalentemente scritto e poco frequente della lingua, si riflette sulla morfologia come sul lessico. La prima conseguenza è quella che De Mauro (1963/1999) chiama “polimorfia morfologica e lessicale”: in presenza di più varianti flessionali o lessicali (e in assenza di un impiego più ampio che potrebbe portare a una selezione di forme dominanti), l‟italiano scritto tende a mantenere tutte le varianti, con una conseguente “ipertrofia sinonimica” e morfologica. A fronte di questa proliferazione, De Mauro registra la scarsa presenza di voci in varie aree linguistiche, specie se basse: “Correlativa alla sovrabbondanza in certi settori lessicali” osserva De Mauro (1963/1999: 30), “era la lacunosità e povertà di altri settori: dalla flora all‟artigianato, alla vita domestica, interi settori di esperienza a metà Ottocento cadevano fuori delle possibilità linguistiche dell‟italiano”. Difficile non ravvisare qualche retaggio di questo idioma elevato e immobile che manca di vere forme colloquiali, nella traduzione innalzante che segna il classico letterario nel polisistema italiano.

In Italia, parallelamente alla lettura, la lingua nazionale si lega almeno inizialmente a un‟idea di apprendimento faticoso. E se l‟italiano è un “possesso da acquisire attraverso applicazione e studio scolastico, dunque un possesso riservato a coloro che avevano frequentatola scuola”, si comprende come la lingua nazionale sia in verità un possesso di pochissimi. Lo scarso livello di alfabetismo che segna l‟Italia post-unitaria spiega per un verso la limitata diffusione della lingua comune, e per altri l‟assenza di una vera letteratura popolare rivolta al consumo di massa. Le cifre dell‟analfabetismo fornite da De Mauro sono pesanti e molto indicative: “Al momento dell‟unificazione [...] la popolazione italiana era per quasi l‟80% priva della possibilità di venire a contatto con l‟uso scritto dell‟italiano, ossia, per la già rammentata assenza dell‟uso orale, dell‟italiano senz‟altra specificazione” (De Mauro 1963/1999). L‟Italia della seconda metà dell‟Ottocento, periodo in cui la letteratura popolare è in pieno sviluppo nei paesi anglosassoni ed europei, presenta quindi una pressoché totale assenza di italiano parlato, mentre solo il 20% della popolazione è in grado di orientarsi in una lingua scritta, per lo più aulica e conservatrice. In una scuola in cui il dialetto continua ad essere usato anche dai maestri come lingua veicolare, specie nei

93 piccoli centri, il contatto prolungato con la lingua nazionale poteva essere garantito solo dall‟istruzione post-elementare. Considerando che in epoca post-unitaria questa veniva assicurata solo all‟8,9 per mille della popolazione tra gli 11 e i 18 anni, De Mauro (1963/1999: 42) conclude che l‟Italia intorno al 1860 è un paese di “italografi” più che di “italofoni”, e che gli stessi “italografi” non raggiungono neppure l‟un per cento della popolazione. Negli anni dell‟unificazione nazionale, gli italiani che conoscono adeguatamente la propria lingua, continua De Mauro (1963/1999: 43), “lungi dal rappresentare la totalità dei cittadini [...], erano poco più di seicentomila su una popolazione che aveva superato i 25 milioni di individui”33.

In questo quadro di grande frammentazione34, fallisce anche il tentativo di innestare nei programmi scolastici l‟uso vivo del fiorentino sulla scorta delle teorie manzoniane. Qualche tentativo di riforma finalizzata al controllo statale dell‟istruzione si era avuto in Italia già nel Settecento (specie in Piemonte). L‟intento era stato per lo più quello di formare un ceto medio opportunamente preparato per affrontare questioni legali e giurisdizionali. Il modello linguistico su cui si basavano questi interventi, come osserva Nicola De Blasi (1993) nel suo studio sull‟italiano nella scuola, era tuttavia lontanissimo dall‟uso reale: “la prefazione alla traduzione (1731) della grammatica latina di Port-Royal”, scrive De Blasi (1993: 400), “precisava che ogni maestro doveva seguire il modello toscano arcaicizzante, definendo di fatto una delle linee lungo le quali si sarebbe mossa la questione della lingua in ambito scolastico nei decenni successivi”. L‟idea che il toscano, e ancor più il fiorentino, siano per loro stessa natura lingue pure, e dunque applicabili in forza di interventi esterni all‟uso dell‟intera popolazione italiana, percorre costantemente i programmi ministeriali dell‟Italia pre- e post-unitaria. È del 1795 una regola imposta ai maestri elementari,

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Cfr. anche Giulio Lepschy (2002a: 35): “It has been estimated that at the moment of national unification in 1860 only 2.5 per cent of the population was able to use Italian. There is a more optimistic evaluation, but even that has not been able to produce a figure higher than 10 per cent. It was only during the second half of the twentieth century that Italian became a spoken language that a majority of Italians are able to use in everyday life as their ordinary medium of communication” (“È stato stimato che al momento dell‟unificazione nazionale nel 1860 solo il 2.5 per cento della popolazione era in grado di usare l‟italiano. C‟è una valutazione più ottimistica, ma anche questa non è stata in grado di produrre una cifra superiore al 10 per cento. È solo nella seconda metà del ventesimo secolo che l‟italiano è diventato una lingua parlata che una maggioranza di italiani è in grado di usare nella vita di tutti i giorni come normale mezzo di comunicazione”).

34 Per una descrizione della frammentazione linguistica e del multilinguismo in Italia, cfr. anche Maiden (2002), dove si

rileva che la comprensione e l‟uso della lingua italiana rimasero estremamente limitati per gran parte degli italiani fino al Novecento, quando fattori come mobilità sociale, movimenti migratori interni ed esterni, scuola e mezzi di comunicazione di massa contribuirono a diffondere l‟italiano presso fasce di popolazione sempre più ampie (cfr. Maiden 2002: 36).

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secondo la quale “Nel tempo della scuola il Sig. Maestro parlerà sempre in buon linguaggio toscano, ed obbligherà gli scolari a parlar così” (cfr. De Blasi 1993: 403), e del 1890 un bando di concorso per la compilazione di un dizionario dialettale che prescrive al lessicografo di riferirsi all‟uso vivo del fiorentino per la parte italiana.

Il fatto che la regola settecentesca circoscriva l‟uso del toscano al tempo scolastico e lo imponga ad allievi e maestri in forma di obbligo, lascia facilmente intendere che la norma venisse spesso disattesa, e mostra indirettamente come l‟utilizzo dell‟italiano fosse tutt‟altro che abituale e generalizzato. Nel corso dei decenni, si rafforza in ambito scolastico l‟orientamento antidialettale, sempre però a vantaggio di una lingua letteraria di matrice toscana che esclude la pluralità dei registri. Nei primi anni del Novecento, i maestri continuano ad usare a scuola un misto di dialetto e di italiano aulicizzante lontano dall‟uso vivo. Come osserva De Blasi (1993: 408), questo “prelude di fatto all‟idea che la lingua sia priva di varietà geografiche o sociali, e che debba essere trattata solo dal punto di vista dell‟espressione artistica”. Per espressione artistica si intende in via pressoché esclusiva l‟espressione scritta e formale. “Nei programmi del 1955 per le scuole elementari”, continua De Blasi (1993: 408), “l‟idea di una norma linguistica monolitica si spinge fino ad escludere una qualsiasi distinzione tra lingua scritta e lingua parlata”. In questo modo l‟italiano parlato (compreso e utilizzato a partire dal secondo dopoguerra in gran parte del territorio nazionale) e le forme medie della lingua vengono spesso stigmatizzate, e subiscono di fatto una sorta di delegittimazione che le sottrae all‟analisi e all‟apprendimento in campo scolastico.

Negli anni Cinquanta, la lingua italiana è ancora presentata e percepita come monolitica, priva di varianti geografiche, sociali o situazionali, e il suo insegnamento continua a essere per lo più svincolato dall‟uso linguistico reale. Questa visione monolitica dell‟italiano perdura, secondo De Blasi, almeno fino agli anni Settanta, periodo in cui l‟italiano continua ad apparire in base ai libri di grammatica come “una lingua priva di varietà diverse dal toscano”, e ancora una volta priva “finanche di una distinzione tra lingua scritta e parlata” (De Blasi 1993: 414). Prende così forma una categoria linguistica (cui verrà riservata una specifica trattazione, cfr. § 2.2.3) che rifugge dalle forme dell‟oralità, e i cui tratti sono frequentemente ravvisabili anche nel sotto-sistema dei classici in traduzione: l‟“italiano scolastico”. Scrive a questo proposito De Blasi:

La lingua proposta dalla scuola con il libro di grammatica e quelli di lettura, e praticata nei compiti, si è di volta in volta orientata verso ideali puristici e arcaizzanti ovvero vero la viva toscanità, ma in ogni caso la tendenza è stata quella di additare una norma esclusiva ed unica in sostituzione di un modo comune e quotidiano di esprimersi, spesso compromesso con gli usi dialettali. [...] Sia che si proponesse la purezza trecentesca, sia che si additasse invece l‟uso toscano contemporaneo, il risultato suggerito coincideva d‟altronde con una lingua affettata o nel senso dell‟arcaismo o in quello del toscanismo, con fitto ricorso a

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stereotipi, tra il letterario e il burocratico, di facile trasmissione nel corso del tempo. Anche per questo motivo è possibile parlare di un “italiano scolastico”, riconoscibile quasi come una lingua speciale. (De Blasi 1993: 414)

La norma imposta dall‟italiano scolastico è quella monolitica della lingua arcaicizzante o toscaneggiante, una lingua “affettata” e lontana dall‟uso comune che impiega e mantiene nel tempo moduli a metà tra il letterario e il burocratico. Malgrado un progressivo processo di italianizzazione, politica e linguistica, agli inizi del Novecento come nei decenni successivi l‟Italia sembra privilegiare un insegnamento della lingua che De Mauro (1963/1999: 93) definisce “meramente formalistico”. “Nella scuola elementare”, scrive De Mauro, “la lingua comune [...] all‟inizio del secolo continuava a essere in genere una realtà lontana, staccata dalla vita quotidiana che trovava espressione nel dialetto, una lingua che si insegnava ma non si praticava veramente” (De Mauro 1963/1999: 93). Non solo agli inizi del Novecento ma anche in seguito, l‟italiano nella scuola rimane per molti versi lingua “artistica” ed elevata, lingua che si insegna ma non si usa, che si legge, si parafrasa – o con fatica si scrive – ma non si pratica. Occorre pensare che questo è in prevalenza il repertorio e l‟enciclopedia comune a cui attingono, anche per formazione personale, traduttori e lettori dei classici moderni inglesi tra gli anni Trenta e i giorni nostri, e questa la norma linguistica dominante che orienta le scelte traduttive.

Come si vedrà (cfr. § 2.2.2), già a partire dalla faticosa elaborazione manzoniana di una lingua narrativa che potesse dirsi viva e vera oltre che comune, i riflessi di questo squilibrio tra lingua scritta e lingua orale, tra lingua alta e lingua bassa, si riverberano costantemente anche sul linguaggio letterario. Il periodo tra le due guerre e quello che fa seguito al secondo conflitto mondiale, segnati dallo sviluppo urbano e industriale e dal diffondersi anche in Italia di una stampa quotidiana e periodica rivolta a un pubblico sempre più ampio, portano a un graduale superamento dei dialettismi e alla formazione di diverse varietà linguistiche. Al dialetto comincia ad affiancarsi una forma embrionale di italiano comune, ancorché fortemente regionalizzato. A fronte di questo pur lento rinnovamento, tuttavia, il polisistema letterario – come la scuola – mostra una marcata tendenza ad ancorarsi ai modelli tradizionali. Questa tendenza alla conservazione sul piano letterario viene vista da De Mauro come direttamente correlata al mancato rinnovamento delle classi dirigenti italiane sul piano politico e sociale:

[Una] più larga accettazione delle innovazioni si sarebbe avuta anche nell‟ambito della scuola e dei mezzi di informazione se il paese avesse conosciuto un brusco salto di classe dirigente. [...] In altri termini, la preminenza sociale e, quindi, la preminenza in fatto d‟uso della lingua italiana, attraverso tre o quattro generazioni, sono restate sempre, con prevalenza quasi assoluta, ai figli e ai nipoti di coloro che la avevano nei primi decenni dopo l‟unità. [...] [I]l rinnovamento italiano [è] avvenuto con molta lentezza e cautela, senza che,

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in sostanza, ci si discostasse dal solco della tradizione. Il persistere, anzi il primeggiare di letture ottocentesche tra la grande massa dei lettori [...] è la miglior riprova di tutto ciò: [...] Iacopo Ortis, [...] Promessi Sposi,

Cuore, I miserabili, Piccolo mondo antico formano attraverso le generazioni il nerbo della cultura letteraria

collettiva. (De Mauro 1963/1999: 138-39)

Se l‟Italia post-unitaria conosce nell‟arco dei decenni un lenta ma progressiva unificazione – anche linguistica – e sviluppa, nel tempo, un italiano dell‟uso medio, orale e scritto (cfr. Sabatini 1985 e § 2.2.4), il sistema educativo, e con questo anche il polisistema letterario, mostrano invece un forte grado di refrattarietà al rinnovamento e ai moduli della lingua media, continuando a prediligere allo stile semplice e mimetico della lingua viva (cfr. Testa 1997) uno stile aulico e ridondante, spesso segnato da moduli scolastici o burocratici (cfr. § 2.2.2 e § 2.2.3).