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Nota 2: a seconda dell‟ampiezza, dello scopo a cui rispondono e della leggibilità, le citazioni tratte

2.2 Lettura e scrittura in Italia: i lettori reali e la ricezione sacrale del libro

2.2.4 L‟italiano dell‟uso medio

In un recente studio sulla lingua dei dialoghisti cine-televisivi italiani condotto da Maria Pavesi ed Elisa Perego (2006), emerge in questa ristretta cerchia di traduttori-adattatori la percezione di una cesura fra la traduzione vera e propria – vista come semplice resa letterale e corretta del significato – e l‟adattamento dei dialoghi filmici, sentito invece come lavoro creativo di trasposizione quasi “fisica” del linguaggio in un‟altra situazione sociale e culturale. La traduzione, scrivono Pavesi e Perego (2006: 232) “è [...] procedura a sé stante, che segue la letteralità, in contrapposizione con l‟adattamento che sposta il linguaggio parlato, e l‟adattatore stesso, in un‟altra „situazione fisica‟”. In questo spostamento, un ruolo centrale lo svolge la fluidità del parlato-recitato: “l‟essere dialoghista presuppone l‟essere traduttore. Il dialoghista è però una figura specializzata, che dovrebbe avere conoscenze di recitazione” (Pavesi, Perego 2008: 233). La necessità di essere non letti ma detti – recitati – in modo credibile, fa sì che nei dialoghi cine-televisivi tradotti in italiano l‟attenzione si appunti sulla “dicibilità”. Al di là di una basilare adeguatezza del testo tradotto, testo che deve mantenere il senso dell‟originale evitando errori grossolani, l‟obiettivo primario di questa particolare rifrazione è dunque la credibilità e la fluidità del parlato-recitato nella lingua d‟arrivo. Se per un verso i dialoghisti mostrano “una forte preoccupazione per gli standard linguistici cui gli

59 Cfr. Bakhtin 1934-35/1981: 262.

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spettatori, in particolare i bambini, sono esposti” (Pavesi, Perego 2006: 237)60

, altrettanto cruciali appaiono “il realismo linguistico” e “il culto della dicibilità”.

Quali sono gli strumenti di cui si avvalgono i dialoghisti per conseguire la “dicibilità”? Le strategie e gli accorgimenti messi in atto affinché il parlato-recitato risulti credibile al pubblico italiano riflettono la norma linguistica comune, e possono illuminare per contrasto le scelte immobilistiche dei traduttori del classico di fronte all‟eteroglossia dei romanzi. I meccanismi adottati dai dialoghisti ruotano essenzialmente intorno all‟ordine delle parole, in particolare alla focalizzazione, e fanno uso di “moduli ricorrenti in cui compaiono ordini marcati delle parole tra cui dislocazioni a sinistra e a destra e frasi scisse”, presenti in quanto costruzioni “tipiche dell‟italiano parlato” (Pavesi, Perego 2006: 239). L‟utilizzo di queste strutture serve spesso a marcare le varietà diastratiche della lingua: le dislocazioni e le frasi scisse distinguono “in modo esplicito variazioni linguistiche legate al canale e al livello sociale, specialmente nei casi in cui è necessario enfatizzare un parlato di registro basso”, il tutto con l‟obiettivo di “mantenere più alto possibile il livello di fedeltà e vicinanza alle intenzioni linguistiche del testo di partenza” (Pavesi, Perego 2006: 240-41). L‟uso di dislocazioni, focalizzazioni e frasi scisse tipiche della lingua parlata è dunque in linea di massima non solo accettato ma adottato come norma linguistica per la resa cine-televisiva delle varietà colloquiali o basse dell‟italiano. A fronte di un italiano del doppiaggio che a metà degli anni Novanta Mengaldo giudica ancora “insincero”61

rispetto alle sceneggiature italiane originali, la lingua dei dialoghisti sembra aver almeno in parte incorporato nel corso del tempo la variabilità linguistica auspicata da De Mauro. Questo ideale di lingua mimetica, media, verosimile e “dicibile” non è distante da quello che Testa pone a fondamento dello stile semplice nella prosa narrativa.

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Sembra cioè agire in parte anche qui la norma pedagogica in base alla quale il linguaggio rivolto ai bambini acquista una valenza didattica, e non può dunque scendere troppo al di sotto della norma convenzionale (cfr. § 5.0 e la “correctness notion” (“nozione di correttezza”) elaborata da Tiina Puurtinen 1995; cfr. anche introduzione generale). In un articolo sul problema della norma linguistica in italiano, anche Serianni (1986) mette in risalto la permanenza di tratti tradizionali della lingua scritta nei fumetti per ragazzi e in certa letteratura di consumo. Interessanti a questo proposito le osservazioni di Berruto (1987: 63), che esclude Topolino e altri fumetti per bambini dal campo di osservazione dell‟ “uso medio standard attuale” in quanto “luoghi di un certo „perbenismo‟ linguistico” nel cui italiano “un po‟ impastoiato [...] c‟è da aspettarsi a priori che risulti una quantità di elementi dello standard ancien régime maggiore di quella che a lume di naso sembra essere la norma in altri tipi di testo forse più significativi per le tendenza di fondo della lingua contemporanea”.

61 “[I]o stesso” scrive Mengaldo (1994: 70) “ho sentito fo nella versione di Cime tempestose di Wyler e, più recente,

desinare in quella di Sabrina di Wilder, entrambi toscanismi oggi impossibili [...]. In generale, continua a darsi, come

nei decenni precedenti, un‟opposizione di massima tra l‟italiano „insincero‟ del doppiaggio e quello più autentico dei film prodotti in Italia”.

127 Esiste dunque da tempo nel polisistema italiano una lingua dell‟uso medio che è accessibile – benché non necessariamente “disponibile”, cioè sentita come legittima (cfr. Even Zohar 1990: 40 e § 1.1.1) – per i traduttori italiani. Qual è il suo sviluppo e quali tratti la contraddistinguono? Tra le due guerre comincia a profilarsi in Italia una pluralità di registri in cui forme di italiano comune e di italiano regionale si affiancano ai dialetti più arcaici e ai dialetti italianizzanti più recenti (cfr. De Mauro 1963/1999: 143). Dopo il tentativo contraddittorio (e solo parzialmente riuscito) del regime fascista di avviare un‟italianizzazione di massa imposta dall‟alto62

, l‟Italia perviene gradualmente a una reale lingua condivisa. Nel testo della Costituzione, approvato nel 1948, De Mauro (1963/1999: 240) individua il punto più alto dell‟“equilibrio linguistico” raggiunto da un “popolo che parla sicuro la propria lingua”63

. Trenta anni dopo, anche in virtù di una progressiva “ristandardizzazione”, l‟italiano si allontana ulteriormente dal “carattere di lingua paludata e burocratica che aveva ancora negli anni Cinquanta” (Berruto 1987: 55), e diventa a pieno titolo una lingua comune cui Berruto dà il nome di “italiano neo-standard”:

Negli anni Ottanta molti autori sono d‟accordo nel vedere in atto un processo di ristandardizzazione dell‟italiano. Appare da molti sintomi che la lingua italiana si sta rinormalizzando: si sta consolidando una nuova norma, in più di un punto difforme, se non in contrasto, rispetto alla norma tradizionale, l‟italiano colto

ancien régime. [...] [C] „è un avvicinamento fra scritto e parlato, nel senso che anche lo scritto tipico tende ad

accogliere come normali tratti sinora peculiari del parlato; in generale, ciò significa anche che tratti sub- standard vengono attratti nella sfera dello standard, dando luogo [all‟] italiano neo-standard [...].(Berruto 1987: 55)

Già negli anni Ottanta è dunque riconoscibile un italiano medio, neo-standard, che ha una sua precisa fisionomia, in più punti “difforme, se non in contrasto” rispetto all‟italiano colto, e che ingloba “come normali” anche nello scritto tratti ritenuti tipici del parlato sub-standard.

Uno dei tratti più significativi di questa varietà media dell‟italiano si evidenzia nei tempi e nei modi del sistema verbale, dove si registra il disuso del trapassato remoto, il parziale abbandono del passato remoto, sostituito dal passato prossimo (specie al Nord), e l‟estensione dell‟imperfetto

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Il fascismo perseguiva un‟ideale di lingua alta e ufficiale completamente separata dai dialetti che costituivano la lingua madre della maggioranza degli italiani tra gli anni Venti e gli anni Quaranta. Il “purismo fascista”, scrive Mengaldo (1994: 13), “si articolò in tre filoni 1) l‟antidialettalismo; 2) la lotta contro le lingue delle minoranze, specie altoatesine e giuliane; 3) il rifiuto delle parole straniere”.

63 Indicative di questo mutamento sono anche le posizioni di Bendetto Croce, confluite nell‟Estetica come scienza

dell‟espressione e linguistica generale del 1945, in cui si teorizza la spontaneità nell‟esprimersi (cfr. De Mauro

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indicativo, anche a coprire aree di norma occupate dal modo congiuntivo o condizionale. Nel 1987, analizzando l‟italiano contemporaneo, Berruto osserva:

Accanto ad alcuni tempi andati in disuso, come il trapassato remoto, altri sembrano in espansione. Sia pure in mancanza di dati appositi, si può facilmente notare l‟estensione di impieghi anzitutto dell‟imperfetto, che tende a coprire [...] tutti i valori cosiddetti controfattuali [...]: sono del tutto normali gli impieghi „di cortesia‟ (volevo

un chilo di pere; volevo parlarle di una cosa), di creazione di mondi possibili (come nei giochi infantili: io facevo il ladro e tu la guardia; o nella narrazione di sogni [...]), e nel periodo ipotetico dell‟irrealtà (se venivi prima, trovavi ancora posto; potevi venire prima; forse era meglio rimandare), oltreché nel discorso indiretto

per indicare il futuro nel passato (mi ha detto che veniva). Nel primo e ultimo caso, l‟imperfetto indicativo è un potente concorrente del condizionale, che appare in ribasso [...]. (Berruto 1987: 69-70)

Un approfondito studio del 1994 sull‟italiano parlato condotto da Carla Bazzanella conferma e amplia il quadro tracciato da Berruto. Anche l‟analisi di Bazzanella, che guarda alla lingua in termini di “azione ed interazione all‟interno di un contesto”, e muove dall‟idea di una interdipendenza pragmatica tra lingua e contesto d‟uso, mette in risalto l‟ampliarsi della sfera d‟azione dell‟imperfetto, in concomitanza con la parallela contrazione del futuro grammaticale. Imperfetto e futuro sono identificati come due tempi “asimmetrici nella loro frequenza”, l‟uno “in espansione” e l‟altro “in riduzione” (Bazzanella 1994: 95). Avviene allora, come già osservava Berruto, che nel registro informale l‟imperfetto si sostituisca al condizionale nell‟apodosi e al congiuntivo nella protasi, mentre sempre più spesso il futuro è rimpiazzato nell‟oralità dal presente, “specialmente quando è chiaro da altri indicatori temporali (tipicamente un avverbio, o „cronodeittico‟) che l‟evento si svolgerà nel futuro o quando la situazione a cui si riferisce è in qualche modo „pianificata‟ come in “ A. Vieni più tardi? B. Sì. Passo tra le 4 e le 5” (Bazzanella 1994: 99, 108). Questa sostituzione, spiega Bazzanella (1994: 108), può essere “il risultato di un processo di semplificazione (come per l‟Imperfetto)” tramite il quale “il sistema si equilibra ad un livello più economico, diminuendo le opposizioni rilevanti”, sul modello delle lingue in cui il futuro ad esempio non è morfologizzato, e si oppongono solo passato e non-passato. Più in generale, anche Mengaldo (1994: 93) individua il cedere “del congiuntivo all‟indicativo coi verba putandi, dopo dichiarativa negativa („non dico che hai torto‟), nelle interrogative indirette, nelle ipotetiche dell‟irrealtà („se potevo, venivo‟), nelle relative restrittive („sei l‟unico che parla arabo‟)”. Sempre riguardo al disuso del passato remoto64, nella sua Grammatica Italiana. Italiano comune e lingua

64 Serianni (2006: 473) rileva anche un uso del passato remoto particolarmente lontano dalla norma comune

nell‟italiano ottocentesco del melodramma, italiano che ricorda il tono libresco e iper-letterario di certa prosa ottocentesca qualificato da Testa (1997: 119) come “sublime da salotto” (cfr. § 2.2.2).

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letteraria Serianni (2006: 472) nota che “nel Settentrione e in parte dell‟Italia centrale i parlanti

anche cólti tendono a non adoperare mai il passato remoto”, e che anche nelle regioni meridionali, malgrado una maggiore tenacia di questo tempo verbale, il passato remoto sta perdendo terreno rispetto al passato prossimo.

Insieme all‟estendersi degli usi di presente e imperfetto indicativo a discapito di altri tempi e modi verbali, un ulteriore dato tipico dell‟italiano contemporaneo, sempre sul piano verbale, è l‟uso molto limitato della forma passiva, cui fanno invece regolarmente ricorso – anche nella resa del parlato – i traduttori e le traduttrici dei Grandi Libri inglesi a fronte di forme passive nell‟originale (cfr. § 3.1.1.2). Nel suo studio su una possibile grammatica dell‟italiano parlato, Berruto (1985: 125) segnala “la, peraltro ben nota, antipatia del parlato per l‟impiego della forma passiva, che [...] tende a essere soppiantata nel parlato da une terza plurale generica o dalla dislocazione a sinistra”; questa, continua Berruto, “ne è del tutto equivalente funzionalmente e prospetticamente, ma ha il vantaggio di essere una costruzione marcata dal punto di vista del centro di interesse o focus empatico, e quindi più idonea a un impiego nel parlato”; “più precisamente”, conclude, “quella che appare rara nel parlato è la forma passiva con l‟agente espresso”. L‟equivalenza tra uso del passivo e uso formale/scritto viene confermata anche da Bazzanella (1994: 139) quando afferma che anche “se la variabile diamesica non può essere considerata come condizione necessaria per l‟uso del passivo [...], è indubitabile che la correlazione passivo/formalità/scritto, oltre che diffusa, abbia un certo grado di plausibilità”. In questo, come in altri usi, la tendenza della scrittura traduttiva è dunque quella di privilegiare strutture più “scritte” e formali rispetto a quelle più fluide della lingua orale o media.

Oltre alle tendenze viste in azione nel campo del sistema verbale, altri elementi distintivi identificati principalmente da Berruto (1985, 1987) e Mengaldo (1994) in questa varietà di italiano comune sono

l‟uso dei pronomi personali lui, lei, loro al posto di egli,ella/esso, essa, essi, esse, forme che Berruto (1987: 74) vede come relegate “per lo più allo scritto piuttosto sorvegliato”; anche Mengaldo (1994: 93) segnala l‟impiego ormai generalizzato di “Lui, lei, loro come soggetti per le funzioni testuali di tema o rema” (cfr. anche Serianni 2006: 242-43);

l‟uso di gli come dativo anche col valore di le e loro (cfr. Mengaldo 1994: 93);

la predominanza di ci rispetto a vi come locativo: “vi è nettamente in regresso”, scrive Berruto (1987: 76) “ed è ormai da ritenere usato solo nello scritto sostenuto” (cfr. anche Mengaldo 1994: 122);

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la rarefazione dell‟uso di ciò come dimostrativo neutro: “sembra assodato”, osserva Berruto (1987: 78) “che impieghi come ciò che dici mi stupisce stanno per essere relegati allo scritto o al parlato formale, e ciò è largamente soppiantato da questo/quello”;

l‟uso del pronome interrogativo cosa rispetto a che cosa/che: la “forma cosa ha guadagnato vistosamente terreno rispetto allo standard ancien régime che cosa e che, come pronome interrogativo neutro” (Berruto 1987: 79);

la progressiva sostituzione del pronome relativo il quale con che nei casi retti e cui nei casi obliqui. “Il quale”, scrive Berruto (1987: 79), “è vivo nell‟uso scritto; ma anche qui con effetti decisamente „sovratono‟”.

L‟abbandono del si enclitico, particolarmente arcaicizzante, che a parere di Mengaldo (1994: 122) “non ha più alcuna vitalità neppure nella prosa d‟intenzione alta, a differenza dei tempi di D‟Annunzio”.

L‟analisi dei bi-testi mostrerà come solo una parte molto limitata dei tratti appena visti faccia la propria comparsa nelle traduzioni italiane dei classici, lontane o vicine nel tempo, sia nella narrazione – dove per esempio il vi locativo e i soggetti arcaicizzanti sono la norma – sia nei dialoghi, dove l‟allontanamento dalle forme del parlato spicca maggiormente.

Restringendo il campo all‟oralità, è dunque codificabile almeno fin dagli anni Ottanta un italiano condiviso – più rilassato e semplificato dello scritto, non pianificato e incentrato sul parlante65 – la cui grammatica, pur non deviando in modo sostanziale da quella scritta, risulta però più elastica. Come osserva Berruto,

si può dire che l‟italiano parlato non abbia una sua propria grammatica, sensibilmente diversa dalla grammatica standard tout court. Le regole della morfosintassi del parlato non sono intrinsecamente differenti né radicalmente autonome rispetto a quelle dello standard scritto: si pongono all‟interno di un quadro di riferimento da queste disegnato, aumentando la libertà d‟iniziativa di chi parla rispetto a chi scrive. [...] E non pare che vi siano regole nel parlato in contraddizione con quelle dello standard scritto: piuttosto, nel parlato diventa spesso normale o ricorrente ciò che nello scritto è considerato l‟eccezione, o, a posteriori, frutto di “licenza”, “non buono” per i canoni standard [...]. È forse meglio, allora, affermare che lo scritto standard

65 Cfr. Berruto (1985: 143-44), secondo il quale l‟italiano parlato è retto da quattro principi fondamentali:

“l‟egocentrismo, l‟essere una parte della grammatica del parlato empatica e centrata sul parlante [...]; la semplificazione; in un duplice senso: vera e propria semplificazione linguistica [...]; e rilassamento del controllo formale di parlante e ascoltatore [...]; la non pianificazione, la mancanza o lo scarso grado di progettazione in anticipo [...]; la percettività, [...] la presenza di dispositivi atti a migliorare l‟articolazione del discorso e la sua decodificabilità”.

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“deriva” dal parlato, ponendo restrizioni, irrigidendo e complicando, integrando [...] una grammatica più ampia, agile e maneggevole [...]. (Berruto 1985: 144-45)

Ribaltando la visione convenzionale che antepone l‟espressione scritta a quella orale, Berruto individua nel parlato una matrice “agile e maneggevole” da cui lo scritto deriva in forza di irrigidimento e complicazione. Accade allora, “a posteriori”, che le regole dell‟italiano parlato vengano percepite allo scritto come “licenza”, e quindi non sempre accettabili per i canoni standard. È in generale questa percezione a modellare le attese della comunità interpretante italiana in relazione al testo scritto e al testo letterario in particolare, specie quando i lettori si trovino alle prese con quella sorta di “Scrittura secolare” che è il Grande Libro.

Nella sua descrizione dell‟“italiano dell‟uso medio”, che viene identificato come uno dei punti più alti nella crescita della lingua italiana, Francesco Sabatini (1985) include in questa varietà anche una dimensione scritta. Ecco come lo stesso Sabatini espone i punti focali della sua tesi:

L‟assunto principale della mia tesi può essere sintetizzato in tre punti [...]:

- i processi in corso nella situazione linguistica italiana hanno ormai portato alla diffusione e all‟accettazione, nell‟uso parlato e scritto di media formalità, di un tipo di lingua che si differenzia dallo “standard” ufficiale più che per i tratti propriamente regionali [...] soprattutto perché è ricettivo dei tratti generali del parlato;

- si tratta dell‟esito più significativo dell‟intero percorso della nostra storia linguistica, dato che sostanzialmente segna il recupero, sul piano “nazionale”, di modalità appartenute da sempre ai sistemi linguistici di base della comunità italiana [...] ma fino ad epoca recente rimaste attive ed accettate solo nelle forme di comunicazione regionale (dialetto, italiano regionale);

- tale esito rappresenta anche il vero punto di forza per le sorti della lingua italiana in una società più omogenea socialmente e culturalmente e in un tipo di civiltà che si avvale largamente della comunicazione orale “ampliata” e “ufficializzata” qual è quella affidata ai moderni mezzi di trasmissione fonica e visiva. (Sabatini 1985: 155)

La lingua osservata da Sabatini è una varietà nazionale di italiano orale e scritto66, sovra-regionale e di “media formalità”, diverso dalla norma ufficiale in quanto capace di assorbire tratti del parlato. In

66 Cfr. Mengaldo (1994: 93) quando riguardo all‟italiano dell‟uso medio identificato da Sabatini afferma che l‟“italiano

dell‟uso medio è sia orale che scritto (purché questo non sia formale), ma prevalentemente orale; in concreto, ciò vuol dire che mentre tutti i suoi fenomeni distintivi sono presenti nell‟orale, non tutti lo sono nello scritto [...]. La differenza dallo standard sta soprattutto nel fatto che l‟italiano dell‟uso medio accoglie in sé tratti del parlato che a loro volta spesso coincidono con fenomeni attestati anticamente nell‟italiano scritto, prima che la norma classicista li escludesse [...]”.

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questo senso, l‟italiano dell‟uso medio riflette anche lo sviluppo della società italiana, divenuta nel tempo “più omogenea” sul piano sociale e culturale67.

Nei tratti morfologici e sintattici di questa varietà linguistica si ritrovano, insieme ad altri, molti dei costrutti già visti come tipici dell‟italiano contemporaneo descritto da Berruto e da Mengaldo. Tra questi: l‟uso di gli per “a lui”, “a lei”, “a loro”, anche in giornali e riviste, e riportato come “quasi normale nella narrativa” autoctona (Sabatini 1985: 158-59); l‟uso raro di ciò come pronome neutro e di codesto, costì (utilizzati solo dal codice burocratico, eccetto in Toscana); il predominio di lui, lei, loro, che “sono ormai norma in ogni tipo di parlato, anche formale, e nelle scritture che rispecchiano atti comunicativi reali” (Sabatini 1985: 159)68; l‟uso esteso del che polivalente (Sabatini 1985: 164); la presenza dell‟imperfetto nelle ipotetiche dell‟irrealtà; la rarità della “concordanza tra il participio passato e l‟oggetto sotto forma di pronome relativo antecedente”, cosicché, se “il participio è accompagnato dall‟ausiliare avere, resta più spesso nella forma del maschile singolare” (Sabatini 1985: 167); e ancora, la frequenza con cui il passivo viene sostituito da costrutti impersonali realizzati “mediante la terza persona plurale [...] o mediante il pronome indefinito [...] o il tu generico [...]” (Sabatini: 1985: 168). Sul piano fonologico, Sabatini rileva anche la scarsità di elisioni e troncamenti (ch‟io) e della i prostetica. Un‟altra serie di manifestazioni che caratterizzano l‟italiano dell‟uso medio ha infine a che fare con la focalizzazione. Si tratta di “fenomeni di „enfasi‟connessi alla tematizzazione” (cfr. Sabatini 1985: 161-63), come le dislocazioni a destra o a sinistra, la posposizione del soggetto al predicato, gli anacoluti (“Giorgio, non gli ho detto nulla”), o le frasi “scisse” (che danno rilievo al nuovo per poi

67 Lepschy (2002a) e De Mauro (1963/1999) rilevano a questo proposito anche il forte influsso unificante dei nuovi

mezzi di comunicazione di massa (soprattutto radio e televisione) tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Scrive Lepschy: “The situation changed during the second half of the twentieth century, however, particularly owing to the overwhelming diffusion of television in the 1950s and 1960s. For the first time in history the Italian population was in daily contact with a spoken language, used in the same way throughout the country. People born after 1950 could acquire Italian (rather than a dialect) as a mother tongue” (“La situazione tuttavia cambiò nella seconda metà del ventesimo secolo, in particolare come conseguenza dell‟ampia diffusione della tv tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Per la prima volta nella storia la popolazione italiana era quotidianamente a contatto con una lingua parlata, usata nello