• Non ci sono risultati.

Il Grande Libro e la traduzione “etnocentrica”

Nota 2: a seconda dell‟ampiezza, dello scopo a cui rispondono e della leggibilità, le citazioni tratte

1.1 L‟influenza del sistema d‟arrivo: la traduzione del classico come traduzione nobilitante

1.1.2 Il Grande Libro e la traduzione “etnocentrica”

La propensione delle traduttrici e dei traduttori italiani dei classici a non travalicare i confini dell‟ortodossia linguistica e letteraria – mantenendo per quanto possibile le marche micro- linguistiche del testo di partenza, ma anche innalzandolo là dove venga meno al decoro stilistico – richiama infine quella “traduction éthnocentrique” in cui Antoine Berman individua una figura centrale del processo traduttivo in Occidente. A questa concezione Berman oppone un‟idea di traduzione etica, poetica e “pensante”, che si faccia carico della “lettera” del testo – della sua “letteralità” – senza degenerare nella “littérarisation” (cfr. Berman 1999: 25-35). Con riferimento al modello francese, Berman afferma: “Ethnocentrique signifiera ici: qui ramène tout à sa propre culture, à ses normes et valeurs, et considère ce qui est situé en dehors de celle-ci [...] tout juste bon à être annexé, adapté, pour accroître la richesse de cette culture” (Berman 1995: 29)29. Benché si intraveda la posizione critica del traduttologo francese verso una cultura che da sempre rivendica (anche in campo traduttivo, come dimostra la tradizione delle belles infidèles) la propria grandezza e la propria superiorità30, la nozione di traduzione etnocentrica è in parte sovrapponibile al concetto di traduzione come fatto della cultura d‟arrivo delineato da Toury: etnocentrico è quello che riconduce l‟altro a sé, in base alle proprie norme e ai propri valori. In questo senso, la nozione di Berman è applicabile anche al sottosistema italiano dei classici tradotti, particolarmente soggetti all‟influsso della letterarizzazione.

Per certi versi, il modello imposto dalla traduzione etnocentrica ricorda l‟addomesticamento di marca venutiana (cfr. Venuti 1995), o la “covert translation” descritta da Juliane House (1977/1981; cfr. Venuti 2004: 148). Osserva Berman:

[On] doit traduire l‟oeuvre étrangère da façon que l‟on ne “sente” pas la traduction, on doit la traduire de façon à donner l‟impression que c‟est ce que l‟auteur aurait écrit s‟il avait écrit dans la langue traduisante. [...] Ces deux principes ont une conséquence majeure: ils font de la traduction une opération où intervient massivement

29

“Etnocentrico qui significa che riconduce tutto alla propria cultura, alle proprie norme e valori, e considera quel che si colloca al di fuori di questa [...] buono al massimo per essere annesso, adattato, per accrescere la ricchezza di questa cultura”.

30 Interessante a questo riguardo lo studio di Marian Rothstein (2009) sulle traduzioni cinquecentesche del Decameron

in Francia. Rothstein (2009: 17) coglie qui il momento di passaggio da una nozione “servile” della traduzione a un‟idea di traduzione in vernacolo che esalta la lingua d‟arrivo e si confronta senza timore con i classici della letteratura straniera, raggiungendo una statura persino più nobile di quella che segna l‟originale.

27

la littérature, et même la “littérarisation”, la sur-littérature. Pourquoi? pour qu‟une traduction ne sente pas la traduction, il faut recourir à des procédés littéraires. Une oeuvre qui, en français ne sent pas la traduction, c‟est une oeuvre écrite en “bon français”, c‟est-à-dire en français classique. (Berman 1999: 35)31

Berman sembra inizialmente parlare di traduzione “invisibile” (cfr. Venuti 1995:1-17): l‟opera tradotta deve saper nascondere la propria natura e farsi per così dire trasparente, in modo da essere letta come se si trattasse di un originale scritto in quella lingua. Ma se in Venuti alla trasparenza corrisponde una traduzione fluida, media, scorrevole e moderna (che è, evidentemente, quanto risulta familiare al pubblico anglosassone), nel sistema francese – come nel sistema italiano, si potrebbe aggiungere – quello che risulta familiare è un testo in cui interviene in modo massiccio la letteratura, o meglio la “sur-littérature”, con un innalzamento del testo originale32. Così, come un‟opera che non “sappia” di traduzione è in Francia un‟opera scritta in “buon francese”, la traduzione del Grande Libro in Italia sarà (anche se per motivi diversi) una traduzione che segue in prevalenza i dettami del “buon italiano”. Questo si identifica, nella fattispecie, con l‟italiano letterario e narrativo costruito a partire dalla norma scritta tra l‟Ottocento e il Novecento, in un paese scarsamente alfabetizzato e dominato dai dialetti, ancora privo di una vera lingua parlata comune e di un pubblico di lettori di massa (cfr. De Mauro 1963/1999: 28-93; cfr. § 2.2).

Questa lingua, che Tullio De Mauro definisce statica e “immobile” (De Mauro: 1963/1999: 28), si presta in modo peculiare all‟impulso letterarizzante33. La tendenza a “letterarizzare” il testo

31 “[L‟]opera straniera va tradotta in modo che non „sappia‟ di traduzione, bisogna tradurla in modo da dare

l‟impressione che sia quel che avrebbe scritto l‟autore se avesse scritto nella lingua in cui l‟opera è tradotta. [...] Questi due principi hanno una conseguanza rilevante: fanno della traduzione un‟operazione in cui interviene massicciamente la letteratura, e persino la „letterarizzazione‟, la sovraletteratura. Perché? Affinché una traduzione non sappia di traduzione, bisogna ricorrere a dei procedimenti letterari. Un‟opera che in francese non sappia di traduzione è un‟opera scritta in „buon francese‟, cioè in francese classico”.

32 Berman porta come esempio di “letterarizzazione” una versione francese del Processo di Kafka in cui il traduttore

innalza sistematicamente il testo di partenza: “la différance peut paraître mince, mais entre „armée d‟un livre‟ et „un livre à la main‟, entre „détacha son regard‟ et „leva les yeux‟, il y a toute la distance entre la „littérarisation‟ et la „littéralité‟. Appliquée à chaque phrase de l‟oeuvre, la „légère‟ touche de littérature de Vialatte finit par produire un „autre‟ Kafka, et bien sûr par biffer sa langue” (“la differenza può sembrare sottile, ma tra „armata di un libro‟ e „con un libro in mano‟, tra „sollevò lo sguardo‟ e „alzò gli occhi‟, c‟è tutta la distanza fra la „letterarizzazione‟ e la „letteralità‟. Applicato a ogni frase dell‟opera il „leggero‟ tocco letterario di Vialatte finisce per produrre un „altro‟ Kafka e, come è ovvio, per cancellare la sua lingua”, Berman 1995: 39).

33 Vari segnali lasciano supporre che la spinta alla nobilitazione dei tratti colloquiali sia piuttosto diffusa e si estenda a

vari polisistemi. La cultura francese in particolare, come si visto, sembra condividere questa propensione all‟innalzamento, quanto meno nella traduzione dei testi canonizzati (cfr. § 1.2.5).

28

d‟arrivo in nome del bello scrivere si manifesta, secondo Berman (1995: 52), in una vera e propria rete di spinte deformanti che traduttori e traduttrici subiscono per lo più inconsapevolmente. E si tratta di un sistema di forze coeso e organico che irreggimenta la traduzione, mantenendola nei confini della “bella forma”34

. Ecco come Berman classifica le deformazioni che fanno parte di questo sistema:

Les tendances qui vont être analysées sont: la rationalisation, la clarification, l‟allongement, l‟ennoblissement et la vulgarisation, l‟appauvrissement qualitatif, l‟appauvrissement quantitatif, l‟homogénéisation, la destruction des rythmes, la destruction des réseaux signifiants sous-jacents, la destruction des systématismes textuels, la destruction (ou l‟exotisation) des réseaux langagiers vernaculaires, la destruction des locutions et idiotismes, l‟effacement des superpositions de langue. (Berman 1995: 53)35

Tra le tendenze elencate nella tassonomia bermaniana e i procedimenti adottati con regolarità dalle versioni italiane dei classici emerge più di un punto di contatto: chiarificazione, allungamento e distruzione dei ritmi, ad esempio, sono presenti in molti dei bi-testi (cfr.§ 3.2.2, § 4.1.1 e § 4.2.2). Tuttavia, la spinta più generale che percorre e modella in profondità l‟intero gruppo è senz‟altro identificabile in quell‟abbellimento del testo di partenza che Berman definisce “ennoblissement”, nobilitazione. La nobilitazione fa sì che la traduzione sia “più bella”, formalmente, dell‟originale da cui prende forma: “tout discours”, dice Berman (1995: 57), “doit être un beau discours” (“ogni discorso deve essere un bel discorso”). Se in poesia l‟“ennoblissment” dà così luogo a una “poétisation” (“poetizzazione”) in prosa il rischio è quello di cadere nella “rhétorisation embellissante”, cioè in una “retorizzazione” nobilitante che consiste nel produrre un testo d‟arrivo più elegante del testo di partenza. “L‟ennoblissement n‟est donc qu‟une ré-écriture, un „exercice de style‟ à partir (et aux dépens) de l‟original” (Berman 1995: 57): la nobilitazione è quindi una riscrittura finalizzata all‟abbellimento, un esercizio di stile di cui l‟originale fa in qualche modo le spese.

E a fare le spese di questo abbellimento è una dimensione particolare, propria di tutta la grande letteratura, specie in prosa. Berman la descrive così:

34 Berman parla di “un tout systématique, dont le fin est la destruction, non moins systématique, de la lettre des

originaux, au seul profit du „sens‟ et de la „belle forme‟ ”(“un tutto sistematico, il cui fine è la distruzione, non meno sistematica, della lettera degli originali, al solo profitto del „senso‟ e della „bella forma‟”, Berman 1995: 52).

35 “Le tendenze che saranno analizzate sono: la razionalizzazione, la chiarificazione, l‟allungamento, la nobilitazione e

la volgarizzazione, l‟impoverimento qualitativo, l‟impoverimento quantitativo, l‟omogeneizzazione, la distruzione dei ritmi, la distruzione delle reti significanti soggiacenti, la distruzione dei sistematismi testuali, la distruzione (o l‟esotizzazione) delle reti linguistiche vernacolari, la distruzione delle locuzioni e degli idiotismi, la cancellazione delle sovrapposizioni di lingua”.

29

Les grandes oeuvres en prose se caractérisent par un certain “mal écrire”, un certain “non-contrôle” de leur écriture. [...] Plus la visée de la prose est totale, plus ce non-contrôle est manifeste. [...] La prose, dans sa multiplicité, ne peut jamais être dominée. Mais son “mal écrire” est aussi sa richesse: il est la conséquence de son “polylinguisme”. (Berman 1995: 51)36

I grandi romanzi, scrive Berman, sono caratterizzati da un certo “mal scrivere”, da uno stile non sempre controllato, ordinato o elegante, da una stratificazione di voci e di linguaggi. Ed è precisamente in questa pluralità di voci, in questo “polilinguismo”, che sta la loro ricchezza. Quella di Berman, naturalmente, non è altro che una riproposizione delle teorie sul romanzo di Mikhail Bakhtin. Il romanzo, afferma Bakhtin (1934-35/1981: 261-62), è un fenomeno multiforme nello stile, vario nel discorso e nella voce. Nel romanzo si stratificano livelli linguistici e stilistici diversi, e la sua lingua è l‟insieme dei suoi vari “linguaggi”, dal discorso individualizzato del singolo personaggio alla voce del narratore. In breve, il romanzo può essere definito come “una varietà di tipi di discorso sociale [...] e voci individuali organizzata artisticamente” (Bakhtin 1934-35/1981: 262). Nel grande romanzo comico inglese (Bakhtin cita i classici del genere: Fielding, Smollett, Sterne, Dickens), l‟uso e l‟organizzazione di questa “eteroglossia” diventano cruciali (cfr. Bakhtin 1934-35/1981: 301): il romanzo comico inglese rielabora in modo parodico tutti i livelli del linguaggio letterario del tempo, scritto e orale, ed è sulla “diversità del discorso”, non sull‟“uniformità di una lingua normativa condivisa”37

, che lo stile del romanzo trova fondamento (Bakhtin 1934-35/1981: 308).

Cosa ne è di questa eteroglossia nel corso del passaggio traduttivo? Non a caso, Berman individua proprio nella resa del polilinguismo uno dei nodi centrali della traduzione della prosa: se

36 “Le grandi opere in prosa sono caratterizzate da un certo „mal scrivere‟, da un certo „non-controllo‟ della propria

scrittura. [...] Quanto più ampia è la visione della prosa, tanto più si fa manifesto questo non-controllo. [...] La prosa, nella sua molteplicità, non può mai essere dominata. Ma il suo „mal scrivere‟ è anche la sua ricchezza: è la conseguenza del suo „polilinguismo‟”.

37 In uno studio sulla lingua del doppiaggio in Italia, Delia Chiaro (2000: 28) definisce come “a fairly straightforward

task” la traduzione di classici letterari stranieri per lo schermo (in considerazione del fatto che l‟italiano usato può fare riferimento agli adattamenti di opere letterarie autoctone appartenenti al medesimo periodo). A questo tipo di trasposizione viene opposta la “challenging translation” dell‟inglese di oggi e delle sue varietà linguistiche, spesso sacrificate “in favour of a flat, classless Standard Italian” (“a vantaggio di un piatto italiano standard privo di inflessioni”; Chiaro 2000: 28). In realtà, l‟appiattimento della ricchezza e della diversità linguistica nella traduzione dei classici inglesi (per la pagina come per lo schermo, come dimostra la versione italiana di David Copperfield prodotta dalla Rai nel 1965; cfr. Venturi 2009b) non è dissimile nelle sue conseguenze rispetto a quello avvertito con maggior forza da Chiaro nella produzione contemporanea.

30

uno dei maggiori “problemi” della traduzione poetica è il rispetto della polisemia (per esempio nei

Sonetti di Shakespeare), il principale problema nella traduzione della prosa è di rispettare la

“polylogie informe” (“polilogia informe”) del romanzo (cfr. Berman 1995: 52). Come si è visto, nelle versioni italiane dei grandi romanzi inglesi questa polilogia viene di norma appiattita a vantaggio di una lingua uniforme, spesso ricercata ed elegante. Si vedrà nei capitoli pratici come questa omogeneizzazione del linguaggio abbia consistenti ricadute su vari piani, inficiando ora gli effetti comici (o ironici) dei romanzi ottocenteschi (cfr. in particolare § 3.3.1.2), ora la resa delle tecniche narrative nel romanzo modernista (cfr. § 4.1.1). Intanto, basterà osservare come anche la nobilitazione del testo di partenza abbia a che fare con l‟idea di classico. Nella sua prima monografia, L‟épreuve de l‟étranger. Culture et traduction dans l‟Allemagne romantique (1984), parlando dell‟opera di Shakespeare, Cervantes e Boccaccio, Berman mette in luce di questi autori il loro radicamento nella cultura orale, insieme alla capacità di unire l‟alto e il basso, il “nobile” e il “vile” (Berman 1984: 222-23). Berman mostra poi come la cultura romantica, pur accettando questa compresenza sul piano teorico, la rifiuti su quello pratico: nelle imitazioni degli autori canonizzati (anche in virtù del ruolo di guide didattiche e morali che viene loro attribuito), la preferenza va allo stile nobile, e il vile e il basso sono costantemente eclissati. In modo non diverso, anche perché soggette al medesimo impulso canonizzante, tendono a comportarsi le traduzioni italiane dei Grandi Romanzi.