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Il classico come fonte di conoscenza: la funzione didattica del Grande Libro e la traduzione innalzante

Nota 2: a seconda dell‟ampiezza, dello scopo a cui rispondono e della leggibilità, le citazioni tratte

1.2 Canone e traduzione: il classico come “testo sacro”

1.2.5 Il classico come fonte di conoscenza: la funzione didattica del Grande Libro e la traduzione innalzante

Libro che trascende il tempo, che custodisce la “voce dello spirito” (e dunque santificato e preservato dal cambiamento), libro complesso e quindi debitamente chiosato, il classico è anche, esplicitamente o implicitamente, un libro che insegna. La presenza e il rilievo dei dati paratestuali sottolineano in modo più o meno diretto la dimensione educativa assunta dal testo canonizzato: il paratesto è indispensabile perché il Grande Libro contiene sapienza e sarebbe di ardua lettura senza un opportuno commento critico. Più che per il piacere della lettura, al classico ci si avvicina dunque per imparare, e spesso con spirito di sacrificio. La ricezione del Grande Libro finisce così per richiamare in qualche modo le pratiche di lettura del codex romano, ponderoso supporto che raccoglieva in epoca tardo antica i testi del canone religioso e giurisprudenziale. Il codex, che si sostituisce verso la fine del terzo secolo dopo Cristo al più agevole volumen, è descritto da Guglielmo Cavallo (1995) come

un libro dalle dimensioni talora imponenti, nel quale venivano talora raccolti e rinchiusi i libri della Bibbia e i commentari a questa, i corpora legislativi e giurisprudenziali, i classici adottati dai canoni della scuola [...]. Alla lettura dell‟otium letterario [...] succedeva una lettura concentrata e attenta, a voce sempre più bassa, dal senso imposto da dispositivi precisi, atta ad una ricezione autoritaria del testo [...]. Da una lettura libera e ricreativa si passava a una lettura orientata e normativa. Al “piacere del testo” si sostituiva un lavorio lento di interpretazione e di meditazione. (Cavallo 1995: 67-8)

Il testo che contiene il canone (o ne fa parte) è fonte di autorità e prevede quindi una ricezione “autoritaria” e “normativa”: il testo canonizzato non presuppone un utilizzo libero, ricreativo e volto all‟otium, ma un severo e faticoso lavoro di comprensione. Nella ricezione moderna del testo letterario che abbia assunto la marca di canonicità (specie in Italia; cfr. cap. 2) è possibile percepire il riflesso di questo atteggiamento culturale. L‟ipotesi è che, per il classico letterario, a lettura sacrale corrisponda traduzione sacrale, e cioè a un tempo ossequiosa e innalzante.

In The Reader, the Text, the Poem. The Transactional Theory of the Literary Work, Louise M. Rosenblatt (1995: 22-35) distingue due possibili modalità di lettura in base alla “disposizione mentale” che il lettore può adottare di fronte a un testo: una lettura “estetica” e una lettura “non estetica” o “efferente”. Nel primo caso, scrive Rosenblatt (1995: 24), “the reader‟s primary concern

61 is what happens during the actual reading event”87: nella lettura estetica il lettore è coinvolto in modo diretto e personale, e la sua attenzione si concentra su quello che accade nel testo. La lettura efferente (dal latino efferre, “portare via”) è invece incentrata su quello che il lettore può “portare con sé” dopo aver letto il testo, in termini di conoscenze e informazioni acquisite. Nel continuum tra questi due poli, che prevede una serie di possibili gradazioni tra gli estremi e anche l‟eventualità che il medesimo testo venga letto ora in modo estetico ora in modo efferente, lo status elitario del classico e la sua valenza educativa tendono a mettere in ombra la fruizione estetica, e orientano il lettore verso una lettura per lo più efferente. La differenza tra lettura estetica e lettura efferente descritta da Rosenblatt riecheggia in questo senso la distinzione ciceroniana tra voluptas e utilitas (cfr. Cavallo 1995: 41), ovvero tra una lettura di intrattenimento finalizzata al piacere, e una lettura “alta” mirata a elevare la propria istruzione. Anche nel caso di opere molto popolari nate come letteratura di intrattenimento (i romanzi di Charles Dickens, ad esempio), la canonizzazione sembra produrre una progressiva accentuazione della utilitas rispetto alla voluptas. Questo slittamento non manca di riflettersi sul piano traduttivo. Sentito come fonte di nutrimento morale e intellettuale, il classico, in nome della sua funzione educativa, difficilmente potrà derogare dai valori convenzionali della correttezza e dell‟accettabilità linguistica (a volte anche morale; cfr. § 5.2.1 e § 5.2.2) che sono in vigore presso la cultura d‟arrivo. Si profila così, nel caso delle versioni italiane dei grandi romanzi inglesi, una duplice spinta innalzante, dovuta in parte alle norme del polisistema d‟arrivo e in parte al prestigio connaturato alla marca di classico.

Se l‟Italia presenta un campo di ricerca particolarmente favorevole all‟osservazione di questa macro-norma, l‟impulso innalzante nella traduzione dei classici sembra essere peraltro un fenomeno piuttosto ricorrente e generalizzato. Nelle prime traduzioni in ebraico dei sonetti di Shakespeare prodotte da Schwartz tra il 1916 e il 1923, Toury (1995: 108) rileva una tendenza ad aderire alle norme più tradizionali del polisistema ebraico e un innalzamento del testo di partenza. Questa “stylistic elevation” (“elevazione stilistica”), osserva Toury (1995: 121)88, può essere parzialmente ricondotta allo status di classico assegnato all‟originale. Anche nel caso del polisistema ebraico, il prestigio del classico si combina con la forza delle norme conservatrici che regolano la cultura ricevente:

Trying to sum up Schwartz‟s approach to the sonnets, it turns out that he chose to place his translations at a point where the innovation they represent through the reflection of the source-text features will be tempered by

87 “Il lettore si concentra in primo luogo su quello che avviene durante l‟atto della lettura vero e proprio”

88 Cfr. Venturi (2009a: 343) per l‟interazione tra lo status di classico e le norme del polisistema d‟arrivo nelle versioni

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habitual and established practices sufficient to ensure that the text as a whole will not deviate unduly from the prevalent norms. (Toury 1995: 122)89

Il classico è dunque accettato e confermato come tale nella misura in cui non devia in modo indebito dalle norme prevalenti, e in particolare dall‟eccellenza dello stile. Nel caso in cui l‟originale si allontani dal “bello scrivere”, sarà eventualmente la traduzione a ripristinare l‟ortodossia linguistica.

Può essere utile a questo proposito gettare uno sguardo anche sui polisistemi francese e canadese. Nel corso di una recente conferenza presso il SITLEC (Università di Bologna a Forlì, 4 Maggio 2009), presentando i risultati di un progetto curato dal gruppo GRETI che aveva per obiettivo la ri-traduzione in francese del romanzo di William Faulkner The Hamlet (1940), la studiosa canadese Annick Chapdelaine90 ha messo in luce una dicotomia fra la traduzione prodotta in area canadese e le versioni francesi ufficiali di Faulkner. L‟elemento centrale di questa dicotomia è la resa dei tratti bassi o vernacolari del romanzo: muovendosi in un territorio meno vincolato e non centrale, la versione GRETI ne dà un trattamento mimetico, attingendo ai socioletti del repertorio del Québec, mentre nelle traduzioni francesi i tratti sub-standard vengono di norma innalzati in ossequio al “bien écrire hexagonal”. Ancora più interessante è il passaggio dalla traduzione francese parzialmente “ripulita” di Hilleret, pubblicata da Gallimard nel 1959 nell‟edizione economica “folio”, e la versione del 2000, rivista da Coupaye e Gresset sempre per i tipi di Gallimard, ma questa volta edita nella più prestigiosa collana della “Pléiade”. In quest‟ultima edizione, dai tratti fortemente canonizzanti, osserva Chapdelaine, scompaiono virtualmente tutte le forme vernacolari sentite come troppo basse o illegittime. Se ne potrebbe desumere una macro- norma analoga a quella in vigore in Italia: entrato ormai di diritto nel bosco sacro dei classici, il romanzo di Faulkner subisce un‟azione innalzante che sfocia in una rispettabile “version nettoyée” (“versione ripulita”) dell‟originale in cui il registro basso è sacrificato allo stile elegante e formale.

Analoghe strategie innalzanti nella traduzione dei Grandi Libri si riscontrano nelle versioni rumene di Robinson Crusoe studiate da Rodica Dimitriu (2006). Prototipo del romanzo moderno, parzialmente inglobato anche dal sottosistema della letteratura per l‟infanzia, Robinson Crusoe acquista molto presto lo status di classico universale e conta innumerevoli traduzioni e adattamenti. Nel 1835 il romanzo di Daniel Defoe entra nel polisistema rumeno come testo per ragazzi, con

89 “Cercando di riassumere l‟approccio di Schwartz ai sonetti, emerge che il traduttore ha scelto di collocare le sue

traduzioni in un punto in cui l‟innovazione che rappresentano attraverso il riflesso delle caratteristiche del testo di partenza verrà attenuata da pratiche abituali e consolidate, sufficienti ad assicurare che il testo nel suo insieme non debba deviare indebitamente dalle norme prevalenti”.

63 finalità marcatamente didattiche: nella prefazione epistolare a questa prima versione, il Ministro degli Interni viene rassicurato dal traduttore Vasile Drăghici sui grandi benefici morali che i giovani potranno derivare dalla lettura del romanzo (cfr. Dimitriu 2006: 74). Due delle versioni successive, pubblicate nel 1900 e nel 1943, segnano l‟ingresso di Robinson Crusoe nel canone per gli adulti. Alla valenza educativa si unisce così quella estetica e letteraria, istanza cui i critici e i lettori colti si mostrano particolarmente sensibili:

The twentieth century and more specifically the inter-war and post-war years saw aesthetic criteria become increasingly part of the (educated) reader‟s expectations. Literary critics repeatedly sought aesthetic values in literary works in general and translations in particular. [...] The critics‟ norms required that translations have the same literary value as their originals, that translators make use of their creative powers, and that they have spiritual affinities with their authors. (Dimitriu 2006: 77)91

A fronte della prescrizione ontologica che richiede al traduttore di essere spiritualmente affine all‟autore, e di usare il suo potere creativo per plasmare un testo tradotto con lo stesso valore letterario dell‟originale, le traduzioni del classico letterario introducono in realtà anche un elemento di elevazione del testo di partenza. Nella versione rumena di Robinson Crusoe edita nel 1943, scrive Dimitriu, “at the level of register, the general style is more formal than that of the English text”. “This”, conclude, “has to do with Romanian norms when translating classics” (Dimitriu 2006: 78). Nelle traduzioni rumene dei classici stranieri, come in quelle italiane, il registro subisce una generale elevazione, e questo procedimento è in buona parte collegabile allo status elitario assunto del testo di partenza.

Un aumento del livello di formalità, unito a un‟epurazione delle forme basse e vernacolari sentite come devianti, si riscontra anche nelle edizioni economiche dei classici stranieri pubblicate in Brasile dal Clube do Livro tra il 1943 e il 1976 (cfr. Milton 2001). Qui, in un caso “ibrido” di grande letteratura specificamente volta al mercato di massa, torna in primo piano il valore pedagogico del classico. Nel suo esame di questa produzione, John Milton scrive che “the paternalistic and educational aspect of the book club [...] often resulted in bland translations that

91 “Nel Novecento e in modo più specifico nel dopoguerra e negli anni tra le due guerre i criteri estetici cominciarono a

diventare parte delle attese del lettore (istruito) in misura sempre maggiore. I critici letterari sondavano ripetutamente i criteri estetici delle opere letterarie in generale e delle traduzioni in particolare. [...] Le norme dei critici richiedevano che le traduzioni avessero lo stesso valore letterario degli originali, che i traduttori facessero uso dei loro poteri creativi, e che avessero affinità spirituali con i loro autori”.

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„corrected‟ any non-standard language in the original” (Milton 2001: 43)92

. La finalità educativa ascritta al testo non solo spinge i traduttori a censurare93 i riferimenti legati alla sfera sessuale, scatologica o religiosa (come spesso avviene anche nella letteratura per l‟infanzia, cfr. Milton 2001: 49 e cap. 5), ma incide fortemente anche sulla resa delle varietà linguistiche sub-standard. Così, l‟ingenua semplicità di Stephen Blackpool, che in Hard Times si esprime in un dialetto del nord, viene resa con un “somewhat highbrow Portuguese”, ovvero con un portoghese piuttosto raffinato (Milton 2001: 51). Il dialetto non viene tradotto perché quello che il personaggio dice è evidentemente ritenuto più importante di come lo dice. Ma, osserva Milton, c‟è anche una seconda ragione connessa alla prima:

The second reason [...] is that slang is somehow “wrong”, that it shouldn‟t be allowed to soil the pages of a classic novel. [...] The less slang an author uses then, the better he or she is considered to be. Here we can point to specifically Brazilian reasons, such as a hangover from the French cultural dominance of Brazilian culture right up to the Second World War. Literature is belles lettres; the translator must preserve le bon goût and should cut and alter translations aux belles infidèles. (Milton 2001: 52)94

Nella traduzione del Grande Libro lo slang è sentito come “sbagliato”, come non legittimo, e viene epurato in nome del “buon gusto”. Per il polisistema brasiliano, Milton associa (non a caso) questa

92 “l‟aspetto educativo e paternalistico del club del libro [...] spesso risultava in traduzioni blande che „correggevano‟

qualunque uso non standard della lingua nell‟originale”.

93 In uno dei suoi studi, Bourdieu introduce il concetto di “censura strutturale” (cfr. Bourdieu 1991: 138, 87) che

richiama in parte la nozione touryiana di norma. Non esplicitamente messa in atto tramite proibizioni, la “censura strutturale” è insita nel sistema stesso e si esercita attraverso le sanzioni messe in atto dal campo in caso di deviazione dal comportamento accettato. Questo tipo di censura agisce su tutti i produttori di beni simbolici, ma con più forza sui rappresentanti ufficiali della cultura, più soggetti alle norme del decoro. In questo senso, Bourdieu definisce l‟uso di una lingua “addomesticata” (che sanziona ad esempio il linguaggio basso o volgare) come “censura resa naturale”. Applicando le osservazioni di Bourdieu al campo traduttivo, Elisabeth Gibbels (2009: 74) scrive: “Translators as tacit censors do not simply replace words that may cause offence or omit passages that could draw the attention of censorious institutions. They tinge the tone of texts and make them readable and acceptable. This is no conscious choice but an effect of their position in the system of symbolic production” (“I traduttori come censori taciti non si limitano a sostituire le parole che potrebbero risultare offensive o ad omettere le parti che potrebbero attirare l‟attenzione delle istituzioni censorie. I traduttori modificano il tono dei testi per renderli leggibili e accettabili. Non si tratta di una scelta consapevole ma di un effetto della loro posizione nel sistema della produzione simbolica”).

94 “La seconda ragione [...] è che lo slang è in qualche modo „sbagliato‟, che non gli si dovrebbe permettere di sporcare

le pagine di un romanzo classico. [...] Così, meno un autore usa lo slang, maggiore è la considerazione che si ha di lui o di lei. Qui si potrebbero individuare motivazioni specificamente brasiliane, come ad esempio un residuo del dominio culturale francese sulla cultura brasiliana almeno fino alla seconda guerra mondiale. La letteratura è belles lettres; il traduttore deve preservare le bon goût e tagliare o alterare le traduzioni sul modello delle belles infidèles”.

65 difesa del decoro stilistico al dominio culturale che la Francia delle belles lettres e delle belles

infidèles esercita sul Brasile fino al dopoguerra. Ancora una volta, anche se diretta a un pubblico di

massa, alla grande letteratura non viene consentito di deviare da un certo perbenismo linguistico. Traduzione del classico e linguaggio elevato vanno dunque di pari passo. E lo stile alto che quasi invariabilmente si accompagna alla traduzione del classico rimanda al concetto di eloquenza che informa in epoca rinascimentale la riscoperta degli antichi. Scrive a questo proposito Michael Cronin (2007):

Civility was an essential concept for the revival of learning in fourteenth and fifteenth century Europe. In looking back to classical models, a primary source of inspiration were conceptions of civility deemed to have been formulated and to have existed in antiquity [...]. For the writers and philosophers of the Renaissance, the idea of civility, of how one should think and behave in a civilized polity, was bound up with the notion of

communicatio. Language was to be the hallmark of the educated citizen but language of a particular kind,

language as eloquence. It is eloquence which in a sense allows speakers to transcend themselves and their point of origin. (Cronin 2007: 254)95

La nozione di classico, specie nella sua veste di guida morale e intellettuale, incorpora nel corso del Rinascimento quella di “civiltà”; la civiltà si esprime e si comunica attraverso un linguaggio adeguato, e il linguaggio adeguato sarà dunque, di necessità, un linguaggio colto ed eloquente.

A questa nozione sembra ancorarsi in modo saldo e durevole anche la pratica traduttiva, come dimostra il fatto che non solo i classici moderni ma anche gli archetipi della letteratura antica possono essere sottoposti al medesimo trattamento nobilitante. Deborah H. Roberts (2009) osserva come nelle traduzioni delle opere greche e latine pubblicate in Inghilterra tra il 1800 e il 1950, l‟aura del classico renda inaccettabile l‟uso del linguaggio basso e a volte osceno degli originali (cfr. Roberts 2009). Lo stile viene allora per così dire “ripulito”:

The association of obscenity with the lower-class diction of their own time [...] may lead translators to obscure the presence of such language in classical literature not only because it might be shocking to a middle- or

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“Quello di civiltà è stato un concetto essenziale per la rinascita degli studi nell‟Europa del quattordicesimo e quindicesimo secolo. Guardando ai modelli classici, una fonte primaria di ispirazione erano i concetti di civiltà che si riteneva fossero stati formulati e fossero esistiti nell‟antichità [...]. Per gli scrittori e i filosofi del Rinascimento, l‟idea di civiltà, di come si dovrebbe pensare e di come ci si dovrebbe comportare in una società ordinata, era collegata alla nozione di communicatio. La lingua doveva essere il segno distintivo del cittadino colto, ma una lingua particolare, una lingua come eloquenza. È l‟eloquenza che permette in qualche modo ai parlanti di trascendere se stessi e la loro origine”.

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upper-class audience but because it would seem inappropriate to the status of the characters who speak it – and perhaps to the status of the classical text as well. (Roberts 2009: 290)96

Le attese di un pubblico colto (o da istruire ed “educare”), unite alla riverenza verso il prestigio attribuito al classico e ai personaggi che si muovono al suo interno, fanno sì che il “vile” venga oscurato, e che le varietà linguistiche basse, vernacolari o scurrili presenti nell‟originale vengano purificate a vantaggio di una lingua alta, sentita come più adeguata alla posizione dell‟opera nel polisistema letterario.

Nel capitolo che segue si cercherà di vedere come, nel caso delle versioni dei grandi romanzi inglesi pubblicate in Italia, questa spinta innalzante determinata dallo status elevato e dalla valenza istruttiva del classico venga alimentata anche dai tratti specifici che caratterizzano la tradizione letteraria autoctona – e come la cultura italiana in particolare orienti traduttori e traduttrici verso una resa conservatrice, nobilitante, e per molti versi immobile del testo canonizzato. Si cercherà, in altre parole, di contestualizzare le versioni italiane dei classici inglesi osservando il quadro degli elementi che Toury (1995: 30) definisce “historically significant” (“storicamente significativi”) nel polisistema d‟arrivo, ponendoli a confronto con i tratti che segnano il polisistema di partenza. Lo scopo di questa osservazione è quello di identificare in modo più preciso le radici storiche e socio- culturali delle macro-norme che presiedono alla traduzione del classico moderno in Italia.

96 “È possibile che l‟associazione tra oscenità e lingua usata dalle classi basse del proprio tempo [...] abbia spinto i

traduttori a oscurare la presenza di questa lingua nella letteratura classica, non solo perché poteva risultare scioccante per un pubblico di classe media o alta, ma perché sarebbe sembrata inadeguata allo status dei personaggi che la parlavano – e probabilmente anche allo status del testo classico”.

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CAPITOLO 2

Italia-Inghilterra: due polisistemi a confronto

2.0 Introduzione

Abbiamo visto nel capitolo precedente come la traduzione del classico vada soggetta a un intreccio di impulsi, dettati sia dal prestigio del bi-testo sia dalle norme traduttive imposte dal sistema d‟arrivo. Si tratta di spinte – immobilizzanti e nobilitanti a un tempo – proprie di una costellazione di letteratura tradotta che tende ad assumere una posizione periferica nel polisistema, e che appare piuttosto refrattaria al cambiamento. La resistenza al cambiamento è a volte quella materiale delle istituzioni (dalle case editrici al sistema educativo), che tendono a canonizzare certi bi-testi, e a preservarli immutati nel tempo sul mercato dei beni simbolici. Il risultato può essere in alcuni casi una serie di traduzioni immobili anche nel senso di inamovibili, e a loro volta canonizzate (cfr. § 3.1.1.2, § 3.3.2, § 4.1.1 e § 4.2.2). Ma la tendenza alla conservazione, in parte per effetto dello status elevato del testo, e in parte come conseguenza della traduzione etnocentrica, è visibile anche in bi-testi più recenti, dove talvolta addirittura si intensifica (cfr. § 1.2.5 e § 3.1.2.2). Di fronte alla