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L‟italiano moderno: lo sviluppo della lingua letteraria

Nota 2: a seconda dell‟ampiezza, dello scopo a cui rispondono e della leggibilità, le citazioni tratte

2.2 Lettura e scrittura in Italia: i lettori reali e la ricezione sacrale del libro

2.2.2 L‟italiano moderno: lo sviluppo della lingua letteraria

All‟opposto dello stile “ornato”, che è “monologica e preziosistica esaltazione della letterarietà e del registro scritto della lingua”, lo “stile semplice”, scrive Enrico Testa (1997: 6), può essere definito come “un tipo di prosa narrativa in cui è dominante l‟orientamento verso una lingua media e colloquiale”. Il principio retorico e stilistico su cui si fonda lo stile semplice è la “leggibilità”, la cui realizzazione più compiuta è il “testo realista con il suo apparato mimetico” (Testa 1997: 8). Lo stile semplice e la leggibilità si collegano a loro volta alla categoria della “verosimiglianza” (Testa 1997: 9), ovvero alla capacità della lingua narrativa di farsi mimetica delle varie stratificazioni individuali e sociali rappresentate nel romanzo. Lo stile semplice presuppone quindi una lingua verosimile e non ornata, che sappia modellarsi sull‟uso reale, anche parlato, a fini non meramente espressionistici. Se nel panorama letterario inglese i romanzi sociali e realistici dell‟Ottocento (e in parte anche quelli modernisti) rispondono a questi requisiti di leggibilità e verosimiglianza, nel polisistema italiano la lingua letteraria – così come la lingua nazionale, che nasce da una norma scritta e puristica – tende invece a modellarsi su uno stile “ornato” che esclude la medietà. Come osserva lo stesso Testa:

Ora, però, stante, da un lato, il particolare profilo dell‟italiano, divaricato tra lingua scritta e lingua orale (complicata, quest‟ultima, dalla coabitazione di dialetti e moduli comuni di parlato), e, dall‟altro, il predominio delle componenti “illustri” della nostra tradizione letteraria, la tendenza ad una prosa narrativa uniforme e regolata su alcune coordinate condivise dalla maggioranza della comunità dei parlanti, non ha potuto, almeno sino a una certa data, coincidere con una soluzione centripeta e mediana del problema della lingua del romanzo. (Testa 1997: 6-7)

97 Dal diciannovesimo secolo fino a tempi molto recenti, la lingua “centripeta e mediana” presupposta dal romanzo, una lingua condivisa e riconosciuta come legittima dagli scrittori e dalla comunità interpretante, incontra in Italia notevoli difficoltà ad affermarsi. Predominante rispetto alla linea dello stile semplice (pure sostenuta in tempi recenti da voci autorevoli come quella di Italo Calvino, ed esplorata in modi diversi da scrittori come Bassani e Cassola) è la predilezione per uno stile elevato, punteggiato all‟occasione da qualche tratto basso o vernacolare che non ne scalfisce la preziosità.

Come si è già osservato (cfr. § 1.1), la traduzione del classico tende già di per sé a orientarsi verso lo stile alto, e a configurasi come traduzione nobilitante che esclude o attenua i moduli colloquiali e informali. Le peculiari condizioni di sviluppo della lingua nazionale (connesse come sono a un‟idea “alta” e istruttiva della lettura e a una certa avversione della lingua letteraria per lo stile semplice) rendono particolarmente visibili gli effetti di questa norma nobilitante nel polisistema italiano. In Italia, la funzione formativa ascritta al Grande Libro e la rigidità di un idioma nazionale che si presenta fin dal suo nascere come scritto e lontano dall‟uso comune35, si riflettono in una lingua letteraria innalzante, anti-mimetica, e scarsamente aderente all‟oralità. Eppure proprio nella mimesi dell‟oralità, nella riproduzione credibile del discorso sociale e delle voci individuali dei personaggi, sembra risiedere uno dei principali requisiti della lingua del romanzo:

Al centro dell‟orbita descritta dallo “stile semplice” [...] sta il “parlato-scritto”, ovvero la mimesi letteraria del registro orale della lingua. Con questa formula, esemplare, insieme al “parlato-recitato”, della più generale categoria del “parlato simulato”, si indicano sequenze dall‟estensione variabile [...] sostenute dalla volontà di rappresentare il processo enunciativo in azione e il dire del personaggio o dell‟autore, quando decide di assumere la maschera del narratore orale o dello stenografo della parola sociale. (Testa 1997: 10)

35 Lo stesso Calvino, quando si cimenta nella traduzione italiana di Les Fleurs Bleues (1965) di Raymond Quenau, deve

ricorrere a una molteplicità di strategie letterarie per rendere le diverse varietà del francese orale contemporaneo (cfr. Federici 2009). Nella sua analisi dell‟opera di Calvino traduttore di Quenau, Federico Federici (2009: 114) rileva la lentezza con cui si attua il processo di standardizzazione dell‟italiano orale, e la prolungata permanenza dell‟italiano nella circoscritta sfera d‟azione di intellettuali e letterati: “Italian was for centuries only a written language with few members of the population able to use actively in writing, speaking and listening. [...] The reasons behind the diverse strategies that Calvino had to adopt instead of Queneau‟s juxtapositions of varieties can be explained by referring to the historical situation of standard Italian. [...] Italian was the language of intellectuals and, mostly, men of letters” (“L‟italiano rimase per secoli solo una lingua scritta, con pochi membri della popolazione in grado di usarlo attivamente nello scritto, nel parlato e nell‟ascolto. [...] Le ragioni alla base delle diverse strategie che Calvino dovette adottare al posto della giustapposizione di varietà usata da Quenau trovano spiegazione alla luce della situazione storica dell‟italiano standard. [...] L‟italiano era la lingua degli intellettuali e per lo più dei letterati”).

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Il “parlato-scritto”36

, cioè una simulazione scritta credibile del discorso parlato, una riproduzione verosimile tramite la lingua narrativa delle voci diverse in cui si articola il discorso orale, richiama l‟inglese realistico, duttile e stratificato sul piano dei registri con cui Dickens, la Eliot, e in parte la stessa Austen, costruiscono i loro mondi narrativi, facendosi “stenografi” del discorso sociale (cfr. § 3.0). Il repertorio a cui appartiene la lingua di cui fanno uso i traduttori italiani dei classici moderni è innegabilmente molto distante da questa forma mimetica di scrittura, e rimanda invece all‟italiano letterario e narrativo tradizionale, per come questo si sviluppa nell‟arco di due secoli, tra Manzoni e il Novecento.

Fin dal suo esordio, oralità, verosimiglianza e leggibilità costituiscono i nodi centrali – e per molti versi irrisolti – della lingua narrativa in Italia. In questo senso, afferma Vittorio Coletti (1993: 265) nella sua Storia dell‟italiano letterario. Dalle origini al Novecento, una “svolta decisiva [...] avviene, in prosa, nel segno di Alessandro Manzoni”, ed è una svolta intesa a “eliminare la specificità secolare della lingua letteraria, avvicinandola e, negli auspici di taluni, uniformandola a quella parlata”. Anche Testa individua nello stile adottato da Manzoni il prototipo di una possibile prosa anti-espressionistica (cfr. Testa 1997: 4-5). Nella sua veste di romanziere, Manzoni avverte con chiarezza che il genere narrativo, più della poesia, necessita di realismo anche linguistico, ed è al tempo stesso consapevole della mancanza in Italia di una lingua verosimile e comune che possa mediare tra lo scritto e l‟orale, sottraendosi all‟eccesso di letterarietà. Di qui, il tentativo di dare forma a una lingua media, “viva e vera” (cfr. Testa 1997:19) che rivoluzioni la prosa italiana, prima con il Fermo e Lucia, tramite una mescolanza non riuscita di dialetto lombardo e forme alte, poi con le varie edizioni dei Promessi Sposi. A riprova di quanto osservato anche da De Mauro sulla lingua nazionale, la difficoltà maggiore della lingua narrativa risiede nella resa espressiva della dimensione domestica e quotidiana, un‟area che l‟italiano scritto non copre e che l‟italiano orale non sembra ancora possedere. Scrive Coletti a questo riguardo:

È in effetti proprio la quotidianità a disseminare di difficoltà il percorso del Manzoni. E la quotidianità linguistica è un insieme composito di livelli stratificati, che l‟autore cerca di realizzare ora caricando il versante lombardo del suo linguaggio (specie nei discorsi diretti degli umili) ora accentuando le convergenze col toscano (soprattutto nella parlata di personaggi più altolocati). [...] Il fatto è che Manzoni cercava di conciliare la verità della lingua con l‟italianità e per il momento, poteva solo contare o sul dialetto (italianizzato) o su quei tratti toscani che col dialetto lombardo coincidevano [...] anche a rischio di indulgere ad arcaismi e idiomatismi di puro vocabolario. (Coletti 1993: 268-69)

36 Per la distinzione tra “parlato-parlato”, “parlato-scritto” e “parlato-recitato”, cfr. lo studio seminale di Giovanni

99 La scrittura manzoniana, che ha per obiettivo una lingua in cui, come scrive lo stesso Manzoni (1954: 175), parole e frasi passino “dal discorso negli scritti senza parervi basse” e “dagli scritti nel discorso senza parervi affettate”, poggia su un‟“italianità” ancora del tutto virtuale, e si scontra con l‟assenza di un linguaggio quotidiano che sia davvero condiviso. È da questa tensione verso una lingua narrativa verosimile che nasce non solo il noto ricorso all‟uso vivo del fiorentino, ma la meticolosa setacciatura durata più di dieci anni con cui Manzoni individua nella ventisettana i tratti lontani dall‟uso comune, e li sostituisce con forme meno arcaicizzanti. Il risultato di questo lavoro confluisce nell‟edizione definitiva de I Promessi Sposi pubblicata nel 184037.

Pur nei limiti di un linguaggio letterario che risulta ancora per larga parte tradizionale, le correzioni apportate alla ventisettana sono nel segno di una lingua viva più vicina alla dimensione orale, e privilegiano, come osserva anche Testa (1997: 20-21), forme “ritenute più semplici e naturali” rispetto a forme più “antiquate”. Per molti versi, la modernità di questi cambiamenti appare oggi sorprendente. Rispetto all‟edizione del 1827, il testo finale de I Promessi Sposi introduce dislocazioni che riecheggiano il parlato (“Ella lascerà ben entrare Tonio e suo fratello” diventa ad esempio “Tonio e suo fratello, li lascerà entrare”), e mostra vari segnali che rimandano all‟oralità: il vi locativo passa a ci, in più punti l‟indicativo sostituisce il congiuntivo, i soggetti

egli/ella/essi subiscono una forte riduzione e vengono sostituiti con lui/lei/loro, oppure omessi38. Ma se Manzoni accoglie e riproduce nella versione finale del suo romanzo molte norme moderne che si stanno facendo strada nell‟uso comune – su tutte, l‟impiego di lui /lei/loro e la possibile omissione di egli/ella/essi, già sentiti come libreschi nell‟Italia di metà Ottocento – lo spirito innovativo del suo progetto non viene in realtà raccolto, né dagli epigoni immediati, né dagli scrittori italiani che operano a cavallo tra i due secoli. La via verso la lingua media indicata da Manzoni verrà esclusa di fatto dalla norma letteraria dominante, e continuerà ad essere per lo più ignorata anche dai traduttori dei classici della narrativa inglese (cfr. capp. 3, 4 e 5).

Con una specie di regresso rispetto allo stile dei Promessi Sposi, la prosa degli scrittori post- manzoniani ripercorre sentieri già battuti, e torna a proporre immutate le forme auliche che Manzoni aveva eliminato. Paradossalmente, l‟unico tratto ripreso in modo costante dai suoi più diretti seguaci e dagli scrittori della generazione successiva è quello tutto sommato meno felice dei

37 Per un raffronto dettagliato delle due versioni e dei cambiamenti intercorsi, cfr. l‟edizione interlineare de I Promessi

Sposi a cura di L. Caretti (1971), e Mengaldo (2008) per l‟inserimento di elementi toscani vivi e per il processo

correttivo che sfronda i termini preziosi, arcaici o regionali (lombardismi) a favore di moduli semplici e scorrevoli più vicini alla normalità.

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moduli fiorentineggianti. “La lezione di Manzoni”, scrive Coletti (1993: 274) “non divenne operante né subito né integralmente”, e al di là del ricorso al fiorentino, autori a lui molto vicini come Tommaso Grossi o Giuseppe Carcano non si discostano dalla tradizione aulica. “Più della ricerca sistematica della medietà e uniformità linguistica, che Manzoni aveva intrapreso”, continua Coletti (1993: 274), “si impose nella narrativa dei seguaci la sua ricostruzione espressiva, affidata spesso all‟aspetto più vistoso e caduco dei Promessi Sposi del ‟40, al toscanismo”. Come mostrano

Fede e Bellezza di Niccolò Tommaseo (1840), Giacinta di Luigi Capuana (1879), Angelo di bontà

di Ippolito Nievo (1855), o persino i romanzi “continentali” di Verga, i testi narrativi prodotti nella seconda metà dell‟Ottocento accolgono da un lato toscanismi come uscio e punto, ma mantengono inalterati moduli arcaicizzanti come egli o ella. Tra la metà e la fine del XIX secolo, malgrado la lezione manzoniana, la lingua letteraria italiana non è ancora in grado di seguire il modello della leggibilità e della verosimiglianza.

In questo panorama, neppure il verismo linguistico de I Malavoglia (1881) riesce a fare breccia. Per un verso, il romanzo verghiano appare ispirato ai criteri dello stile semplice. Lo dimostrano, ancorché affiancati a “congegni grammaticali dall‟alto tenore formale” (Testa 1997: 136), le dislocazioni, la presenza del che polivalente, la scomparsa della tradizionale separazione tra mimesi e diegesi nel discorso indiretto libero, e l‟uso di una lingua in cui Testa (1997: 126) rileva “un‟alta concentrazione di elementi ascrivibili alla dimensione parlata”. Quella di Verga è insomma una prosa dal sapore siciliano che risulta però al tempo stesso “superregionale” e intelligibile a tutti. Eppure, nonostante sia credibile sul piano artistico e narrativo, la lingua media – ma unica e fortemente individuale – usata da Verga non diventa modello generativo, e resta senza epigoni. Come osserva Coletti:

Verga riuscì a fabbricare un italiano colloquiale, capace di reggere tanto la parte del narratore quanto quella dei personaggi “umili”, creando una lingua [...] non suscettibile di imitazione, men che mai di riuso nella società. [...] In verità si tratta, credo, di una lingua immaginaria, costruita di materiali diversi, in gran parte prelevati dal dominio dell‟oralità (dialettale siciliano e pan dialettale) e immessi in una sintassi originale [...] inconcepibile fuori della dimensione della scrittura letteraria. (Coletti 1993: 295)

Pur nell‟intento di perseguire la medietà, anche la lingua modellata da Verga resta una lingua “immaginaria”, circoscritta alla sfera artistica, “non suscettibile di imitazione” sul piano narrativo né di riutilizzo sul piano sociale.

Interessante in questo senso il caso del già menzionato Capuana. In una recensione del 1881 ai Malavoglia, Capuana loda il tentativo di Verga di sottrarsi alla “diabolica lingua italiana”, con le sue “tradizioni impastate, anziché no, di pedanteria” (cfr. Testa 1997: 116); quattro anni dopo, in un

101 saggio intitolato Per l‟arte, lo stesso Capuana mette a fuoco quello che Testa (1997: 115) definisce il “problema capitale di una scrittura narrativa mossa da intendimenti realistici”, ovvero la necessità di approdare a una lingua viva ed efficace, in grado di costruire “un dialogo” che sia “spigliato, vigoroso e drammatico”. Eppure, a questo linguaggio nuovo di cui auspica l‟avvento in veste di critico e recensore, il Capuana narratore non attinge. Nei suoi romanzi compare piuttosto, come osserva Testa (1997: 119-22), una “dizione artificiosa” intessuta di “reperti libreschi” che non aderisce in alcun modo alle strutture del parlato, una “enunciazione [...] ibrida e colta, letteraria e artificiosa” che richiama il “codice convenzionale del parlato-recitato di stampo melodrammatico”. Usando una definizione sintetica – in parte applicabile anche alla scarsa verosimiglianza di certi dialoghi che caratterizzano le versioni italiane dei classici moderni39 – Testa (1997: 119) parla di “sublime da salotto”. Dunque, la necessità invocata da Capuana di pervenire a una lingua media e verosimile ne implica di fatto l‟assenza nel panorama letterario italiano tra Ottocento e Novecento: in questo periodo, “una lingua di tal genere, funzionale alla mimesis del parlato e alla resa del comportamento verbale delle classi borghesi come di quelle popolari, non era ancora pienamente disponibile nella realtà” (Testa 1997: 115).

Dopo Manzoni e dopo l‟esperienza verista, l‟italiano letterario continua così a restare fedele, come scrive Coletti (1993: 275), a una “fonomorfologia più tradizionale”, mostrandosi soprattutto refrattario “ai costrutti più „orali‟”, persino nella costruzione dei dialoghi. L‟opera di Nievo fornisce una possibile esemplificazione di questa norma letteraria dominante. Nel già citato Angelo di bontà, Nievo mescola lessico ricercato, sintassi lontana dal parlato e dialettalismi, inseriti più che altro per dare alla narrazione un po‟ di “colore locale”. Di fatto, quello che manca è un vero contatto con la lingua reale. Nel suo fare “esattamente (a volte davvero alla lettera) il contrario del Manzoni che corregge la ventisettana” (Coletti 1993: 283), Nievo usa un linguaggio in cui le forme dialettali “convivono con un italiano colto e spesso ipercorretto (ad esempio nell‟uso toscaneggiante dei passati remoti)”. E persino nelle più mature Confessioni (1867) non è difficile ravvisare la medesima tendenza. Ancora una volta l‟oralità si rivela come la dimensione più spinosa per la lingua del romanzo in Italia. Se la lingua della narrazione può forse tollerare un certo grado di preziosità, le “ragioni oratorie dal forte tenore retorico” e i “lunghi inserti solenni” (Testa 1997: 61) che segnano i discorsi diretti delle Confessioni risultano poco plausibili. Questo aspetto è sottolineato anche da Coletti (1993: 285), che osserva come i dialoghi di Nievo siano gravati da un “eccesso di nobiltà linguistica” più consono a un “libretto verdiano” che a un romanzo. Nell‟insieme, come riassume Testa (1997: 74), la dimensione “colta e tradizionale, in cui è difficile distinguere tra aulicismo marcato, semplice forma letteraria, elemento di koinè della scripta

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ottocentesca e toscanismo” marca “tutti i livelli della lingua delle Confessioni”. Nievo (e con lui altri romanzieri ottocenteschi come Faldella, Dossi, o Imbriani) approda così a quella giustapposizione di alto e basso cui Testa (1997: 59) dà il nome di “narrare mescidato”, ovvero a una lingua narrativa ibrida in cui aulico e popolare si mescolano senza fondersi realmente.

Questa narrazione mescidata che oscilla tra forme elevate e forme vernacolari (con una preponderanza delle prime rispetto alle seconde40), diventa la cifra principale della lingua letteraria nel polisistema italiano – non solo a fine Ottocento, ma in buona parte anche nel secolo successivo. Il giudizio critico di Coletti, esteso ad autori come Emilio De Marchi e Antonio Fogazzaro, ben riassume questo quadro:

Il tentativo manzoniano di dotare il romanzo di una lingua capace al tempo stesso del discorso vivo e diretto dei personaggi più popolari e della scrittura riflessa del narratore non ebbe dunque il successo sperato. La lingua concreta e viva degli uni e quella colta e letteraria dell‟altro continuarono a cercarsi invano, se è vero che persino narratori di fine secolo, come il De Marchi e, ancor più, il Fogazzaro, non riescono a evitare la polarizzazione degli estremi. (Coletti 1993: 294)

Se è possibile ravvisare nell‟ultimo scorcio del diciannovesimo secolo un tentativo di avvicinamento a forme meno altisonanti e più colloquiali, questa tendenza non sembra produrre se non effetti parziali (cfr. Testa 1997: 85). In Demetrio Pianelli (1890), Emilio De Marchi inserisce la componente dialettale lombarda, ma la offusca italianizzandola e unendola a moduli letterari; in modo analogo, anche Piccolo mondo antico (1895) di Fogazzaro registra la presenza di forme colloquiali o dialettali in un “costante e ibrido connubio con il patrimonio della lingua letteraria” (Testa 1997: 99). Il radicamento dello stile semplice, e della prosa mimetica che lo rappresenta, incontra dunque una certa difficoltà nel polisistema italiano, in cui sembra piuttosto predominare la “polarizzazione degli estremi”.

Tra la fine dell‟Ottocento e i primi decenni del Novecento, l‟italiano narrativo è ancora una lingua di sapore marcatamente letterario che rifiuta l‟uso medio. In questa lingua, i tentativi di aderire al parlato si risolvono immancabilmente in una contrapposizione dissonante tra forme alte e forme basse. Come si vedrà nella parte pratica dedicata all‟analisi, questa difficoltà nel riprodurre la lingua media e i diversi registri dell‟oralità torna a presentarsi anche nello stile dei traduttori italiani dei classici inglesi, con conseguenze particolarmente evidenti nella resa dei dialoghi. L‟oscillazione tra alto e basso, così come la tendenza della lingua narrativa ad eccedere in “nobiltà”, non marcano solo la letteratura autoctona tra Ottocento e Novecento, ma – più tardi e in modi diversi –

103 costituiranno egualmente il segno primario della prosa letteraria che dà forma alle versioni italiane dei Grandi Libri. Anche qui, seppure con miscelazioni diverse e più o meno coerenti di aulicismi e forme popolari41, allo stile semplice e alla soluzione mediana indicata da Manzoni tende a sostituirsi uno stile ornato in cui in cui alto e basso si giustappongono senza pervenire a una vera fusione, né a una reale mimesi del parlato. E qui, potremmo dire, avviene in larga parte l‟innesto tra il polisistema dominante, nelle sue componenti più convenzionali e “ossificate”, e il sottosistema epigonico del classici della prosa in traduzione.

Una rapida ricognizione del panorama letterario novecentesco conferma la persistenza di questa norma linguistica, di questo “narrare mescidato”, nella produzione autoctona. La prosa dotta e ricercatissima di D‟Annunzio segna probabilmente l‟apice dell‟opposizione tra stile elevato e lingua viva. “Il fondo libresco e dotto della nostra lingua, che è per molti autori di fine Ottocento impaccio e residuo inerte”, scrive Coletti (1993: 309) trova in D‟annunzio, “a cavallo dei due secoli, un autore che [...] lo rende funzionale alla propria narrativa”. L‟italiano ricchissimo e culto di D‟annunzio ha in odio l‟uso comune, rigetta in modo sistematico la medietà – sia nella narrazione sia nei dialoghi – e sfrutta invece “i mezzi più ubertosi del repertorio della lingua tradizionale” (Coletti 1993: 310). Il risultato è una lingua manierata, artificiosa e molto lontana dalla mimesi del