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Antologie e sillogi epigrammatiche: ipotesi di ricostruzione

CAPITOLO VI – TRADIZIONE MANOSCRITTA

6.3 Antologie e sillogi epigrammatiche: ipotesi di ricostruzione

Come già notato vi sono tre epigrammi palladiani, tutti appartenenti al gruppo degli gnomici e filosofici, tramandati non solo da P e Pl, ma anche da altre fonti: AP 10.87 su una latrina ad Efeso (SGO 03.02.46), AP 10.58 come iscrizione funeraria di età bizantina in Licia (SGO 17.12.02), AP *9.379 sul papiro P. CtYBR inv. 4000, peraltro in una versione più corretta. Queste attestazioni, almeno le prime due, inducono a pensare che Pallada fosse un poeta noto visto che i suoi versi erano conosciuti perfino ad Efeso e in Licia, d’altra parte non si deve dimenticare che questi epigrammi, come in generale tutto il gruppo degli gnomici e filosofici, affrontano tematiche molto comuni e non specificatamente palladiane. In casi del genere, dunque, è lecito chiedersi se si tratti di epigrammi autentici oppure giunti anonimi e successivamente attribuiti a Pallada proprio per il contenuto etico-moralizzante, affine al modus scribendi del poeta, che li caratterizza e quindi facilmente assimilabili al vasto corpus palladiano in cui potevano trovare spazio epigrammi di diverso genere. Purtroppo il processo di formazione del

corpus palladiano è difficilmente ricostruibile ed è giusto essere cauti nell’avanzare

qualunque ipotesi, in ogni caso credo sia verisimile pensare che non tutti i 168 epigrammi attribuiti al poeta siano autentici, che esistesse un nucleo o più nuclei originali (ad esempio gli gnomici e filosofici), oppure che siano esistite una o più sillogi palladiane (corrispondenti ad esempio alle tre categorie individuabili nel corpus), circolanti nel IV secolo e note sia Oriente che in Occidente come dimostra il legame con gli Epigrammata Bobiensia e Ausonio432. Potevano essere queste le sillogi cui Cefala ebbe accesso nella composizione della sua Antologia (cfr. supra). Importanti e assolutamente plausibili mi sembrano anche le proposte di CAMERON433 e

LAUXTERMANN434: il primo pensava ad un’antologia epigrammatica databile al 380

contenente epigrammi selezionati da varie fonti quali Diogeniano, Rufino, Meleagro, Filippo e soprattutto “a combinated edition of Lucian and Palladas” la cui esistenza sarebbe deducibile, secondo lo sudioso, dal lemma di J ad AP 7.339 (ἄδηλον ἐπὶ τίνι τοῦτο γέγραπται, πλὴν ὅτι ἐν τοῖς τοῦ Παλλαδᾶ ἐπιγράμμασιν εὑρέθη κείμενον·μήποτε δὲ Λουκιανοῦ ἐστιν)435

; è da questa antologia del IV secolo che i poeti latini (Ausonio, Naucellio etc.) avrebbero ricavato i loro modelli epigrammatici. Cameron, inoltre, non esclude che questa antologia circolasse ancora nel X secolo e quindi che fosse stata utilizzata sia da Cefala che, un secolo dopo, da J. Partendo dallo stesso lemma ad AP 7.399 Lauxtermann intende invece dimostrare l’esistenza di una silloge di Pallada databile al VII secolo e contenente, oltre a Pallada, molti altri poeti, soprattutto tardo-

432 Cfr. § 2.3.3. 433 CAMERON 1993: 90-96. 434 LAUXTERMANN 1997:329-335. 435 Cfr. CAMERON 1993:95.

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antichi, quali Luciano, Giuliano, Claudiano etc.436 e altro materiale eterogeneo. Lo studioso sostiene questa ipotesi partendo dalla presenza nell’Anthologia Palatina di lunghe sequenze caratterizzate dalla mescolanza di molti epigrammi palladiani e altri epigrammi tardo-antichi437 e in particolare di numerose sequenze palladiane in cui si inseriscono epigrammi di Luciano e viceversa, basti pensare al libro X dell’Anthologia: “the best example of the common origin of Palladas’ and Lucian’s epigrams”438. In particolare secondo Lauxtermann l’esistenza di questa antologia troverebbe conferma nel metodo compilativo utilizzato da J nelle ultime pagine del manoscritto P (pp. 664- 68): oltre alla pagina 668 che presenta solo epigrammi di Pallada, le pagine restanti contengono tutti epigrammi di epoca tardo-antica derivanti, così come Pallada, da una medesima fonte, quell’antologia di epigrammisti tardo-antichi di cui Lauxtermann ipotizza l’esistenza e che faceva risalire al VI secolo sulla base della datazione dei lemmi palladiani alla seconda metà del VI secolo e in particolare dell’epiteto μετέωρος proposta da MANGO439.

Data l’assenza di testimonianze e l’incertezza della situazione credo che nessuna ipotesi possa essere esclusa: nell’antologia del IV secolo sarebbero potute confluire parti della silloge o delle sillogi palladiane ipotizzate cui in seguito, prima dell’inserimento nell’Antologia supposta da Cameron, fu aggiunto anche Luciano; perché non pensare che questa stessa antologia del IV secolo abbia in qualche modo contribuito essa stessa alla formazione dell’Antologia del VII secolo, almeno per quanto riguarda Pallada e Luciano. Purtroppo non è dato sapere come andarono veramente le cose e quelle proposte sono destinate a rimanere pure speculazioni, in ogni caso quel che è certo è che sillogi o antologie epigrammatiche circolarono e che questo dovette essere il canale privilegiato attraverso cui Pallada fu tramandato prima di confluire nell’Antologia di Cefala; che poi siano state antologie o sillogi essenzialmente “palladiane”, o tardo-antiche ovvero contenenti Pallada insieme ad altri poeti a lui contemporanei oppure antologie epigrammatiche molto più ampie caratterizzate da poeti di epoche diverse fra cui anche lo stesso Pallada, è destinato a rimanere dubbio, ma si deve comunque tenere presente quanto già affermato: 1) il corpus palladiano è il più vasto dell’intera Anthologia; 2) nel corpus sono prefettamente riconoscibili alcuni nuclei tematici (almeno tre) ciascuno dei quali è formato da un un grosso numero di epigrammi; 3) in alcuni libri dell’Anthologia Palatina (IX, X, XI) si possono rinvenire vere e proprie «sequenze palladiane», lunghe serie di epigrammi attribuiti a Pallada e relativi alle stesse tematiche; 4) all’interno delle «sequenze palladiane» ricorrono spesso blocchi di epigrammi attribuiti a Luciano (libro X), per cui si suppone che gli

436

Vd. LAUXTERMANN 1997:333peruna ricostruzione precisa dell’Antologia Palladiana da lui ipotizzata.

437

Questa tendenza presente nell’Anthologia Palatina era già stata notata da FRANKE 1899: 47-72che

giunge alla stessa conclusione di Lauxtermann circa l’esistenza di una silloge palladiana e da WIFSTRAND

1933:155-177che intendeva dimostrare il graduale passaggio da componimenti brevi in distici elegiaci a

testi esametrici piuttosto lunghi (quasi dei piccoli poemetti) nella poesia epigrammatica tardoantica.

438

Cfr. LAUXTERMANN 1997:330.

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epigrammi di Pallada e Luciano in origine circolassero uniti o raccolti nella medesima silloge o antologia Secondo LAUXTERMANN440 la circolazione di queste sillogi epigrammatiche ebbe un forte incremento a partire dalla seconda metà del VI secolo (550-560) in contemporanea all’improvvisa rinascita d’interesse per l’epigramma ed è proprio a queste sillogi, in cui fra gli altri era contenuto anche Pallada, che Agazia e i poeti del suo Ciclo attinsero tanto che Lauxtermann parla di un vero e proprio “mercato” di raccolte epigrammatiche di poeti anteriori.

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AP 10.45 = 49G (A)

441 Ἂν μνήμην, ἄνθρωπε, λάβῃς, ὁ πατήρ σε τί ποιῶν ἔσπειρεν, παύσῃ τῇς μεγαλοφροσύνης. Ἀλλ᾽ὁ Πλάτων σοὶ τῦφον ὀνειρώσσων ἐνέφυσεν ἀθάνατόν σε λέγων καὶ φυτὸν οὐράνιον. Ἐκ πηλοῦ γέγονας. Τί φρονεῖς μέγα; τοῦτο μὲν οὕτως εἶπ᾽ἄν τις κοσμῶν πλάσματι σεμνοτέρῳ. εἰ δὲ λόγον ζητεῖς τὸν ἀληθινόν, ἐξ ἀκολάστου λαγνείας γέγονας καὶ μιαρᾶς ῥανίδος. Se ti rammenti, uomo, che cosa fece tuo padre nel seminarti, metterai un limite alla tua superbia. Ma Platone, sognando, ti infuse la boria

chiamandoti immortale e pianta celeste.

Dal fango sei nato. Perché ti vanti? Questo così

direbbe chi volesse abbellire la cosa con un’immagine più nobile. Ma se cerchi la parola vera, da smodata

lascivia sei nato e da impura goccia.

L’epigramma ha una struttura circolare: il primo distico è correlato all’ultimo mentre i versi centrali in cui viene chiamato in causa Platone costituiscono una sorta di inciso con valore avversativo che non influisce sulla struttura logica del ragionamento. E’ come se Pallada dicesse: “Uomo se sapessi come sei nato, non saresti superbo. Sei nato da smodata lascivia e da un’impura goccia”. Il poeta cita, per negarne la validità, il passo platonico relativo alla natura di derivazione divina dell’anima umana vd. Tim. 90a ὄντας φυτὸν οὐκ ἔγγειον ἀλλ'οὐράνιον cui Pallada esplicitamente si riferisce al v. 4. Come nota giustamente HENDERSON442 “both views are organically connected by the

metaphor of planting”: l’uomo è stato seminato da padre (ἔσπειρεν) e Platone gli instillò (ἐνέφυσεν) l’illusione dell’immortalità. Il poeta nega l’idea platonica dell’anima immortale e con un intento quasi ironico e derisorio, riconduce l’origine della vita umana alla semplice procreazione e nega ogni possibile rapporto dell’uomo con il divino. L’ironia è accentuata dalla scelta di un lessico che rimanda ad una realtà bassa e volgare (ἀκόλαστος, λαγνεία, μιαρός, ῥανίς) che si contrappone all’alta e nobile concezione dell’uomo da parte di Platone443. I versi finali del componimento sono

441

Nel commento ciascun epigramma è indicato secondo la numerazione dell’Anthologia Palatina; è indicata altresì la nuova numerazione proposta da Guichard nell’edizione di Pallada. Inoltre viene indicata anche la classe di appartenenza dell’epigramma (A,B,C) secondo la suddivisione stabilita dall’editore (cfr. Premessa e § 6.2) con relativo asterisco a seconda del grado di autenticità.

442

HENDERSON 2011: 120.

443

RODIGHIERO 2003-4:185 “Pallada oppone una supposta tensione verso l’alto – la parte più alta dell’anima che ha sede all’apice del soma, il cielo come “luogo d’origine” – al basso più volgare, costruendo due poli opposti che stanno come su una verticale. Le parti basse del corpo e il fango come

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caratterizzati da un tono quasi sentenzioso poiché Pallada fornisce quella che, dal suo punto di vista, costituisce l’unica verità possibile: la vita umana è il risultato di un mero processo biologico a cui il divino non partecipa.

1 Ἂν μνήμην, ἄνθρωπε, λάβῃς: per quanto riguarda il misterioso ἄνθρωπε,

destinatario dell’epigramma, RODIGHIERO444 ritiene si tratti del retore Temistio contro cui il poeta si scaglia nell’epigramma 11.292445 accusandolo di avere preferito l’ἄντυξ ἀργύρεα all’ἄντυξ οὐρανίη; un indizio di ciò è il rimando all’opposizione platonica ἄνω/κάτω446

che Pallada introduce nell’ultimo verso di 11.292 e che compare anche nell’orazione 34 con cui Temistio si difendeva dall’accusa di avere preferito la carriera politica ad una vita dedita alla speculazione filosofica. In realtà non sappiamo quale sia la priorità da assegnare alle due opere, ma non possiamo escludere, in effetti, una polemica indiretta tra i due personaggi. Secondo Rodighiero sono soprattutto due i testi che farebbero pensare a Temistio come destinatario dell’epigramma 10.45 per la presenza in entrambi i casi del nesso φυτὸν οὐκ ἔγγειον ἀλλ' οὐράνιον che ricorre sia in Pallada che nel Timeo vd. Or.13.170a.7b καὶ ὅστις ἐκείνῳ παραπλήσιος ἐν τῇ γῇ, οὗτος φυτὸν οὐκ ἔγγειον, ἀλλ' οὐράνιον. Or.27.339d.4-7 ἄλλο αὖ σοι φυτὸν ζητητέον οὐκ ἔγγειον, ἀλλ' οὐράνιον. ZERWES447lascia aperte due possibilità: il vocativo ἄνθρωπε è

generico ed indica l’umanità in generale oppure il poeta si rivolge ad un personaggio specifico e, in tal caso, questi sarebbe sicuramente un platonico. Anche se l’ipotesi di Rodighiero è molto interessante e sicuramente plausibile, sarebbe forse preferibile dare all’epigramma un tono più universale togliendo ad ἄνθρωπε una qualsiasi valenza specifica e interpretando, come destinatario della parenesi, l’umanità intera. Pallada sembra scagliarsi contro l’illusione, propria della maggior parte degli uomini, di godere almeno in parte di una natura divina o comunque di derivarne. A sostegno di questa ipotesi si possono citare alcuni epigrammi, dal contenuto gnomico e filosofico, in cui Pallada, come in questo caso, vuol dare all’uomo un avvertimento vd. AP 10.77.1 Τίπτε μάτην, ἄνθρωπε, πονεῖς καὶ πάντα ταράσσεις, 11.62.3 τοῦτο σαφῶς, ἄνθρωπε, μαθὼν εὔφραινε σεαυτόν, 11.300.1 πολλὰ λαλεῖς, ἄνθρωπε, χαμαὶ δὲ τίθῃ μετὰ μικρόν nei quali il “tu” è generico e non avrebbe senso ricostruire l’identità di ἄνθρωπε. Gli esempi citati, dunque, inducono pensare che anche l’epigramma 10.45 rappresenti una Anrede rivolta all’umanità intera e che anzi quel vocativo costituisca una sorta stilema palladiano per questo tipo di epigrammi; in generale per l’uso di questo vocativo nelle

sostanza “pesante” vengono contrapposti all’ οὐρανός con il quale, a detta di Platone, il genere umano sarebbe imparentato”. 444 RODIGHIERO 2003-4: 86 sgg. 445 Cfr. § 1.2. 446

Plat. Phaedr. 246a sgg; Plot. Enn. 4.8.1 che cita per lo stesso concetto Eraclito, Empedocle e Platone.

447

ZERWES 1956: 257 ammette la possibililità che l’uomo possa essere il misterioso Πλατωνικός destinatario dell’epigramma 11.305 sebbene Pallada lo accusi di non essere né un vero Platonico né grammatico cfr. ad loc.

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allocuzioni vd. e.g. adesp. AP 12.40.1 μὴ κδύσῃς, ἄνθρωπε, τὸ χλαινίον, Theocr. 7.534.1 Ἄνθρωπε, ζωῆς περιφείδεο, vd. anche Greg. Naz. Or. Funebr. PG 9.40.1 ὦ ἄνθρωπε, πᾶς ὁ μετέχων τῆς φύσεως, πρόσεχε σεαυτῷ, De Ist. Christ. PG 8.1.55 ἄνθρωπε, πάσῃ φυλακῇ τήρει τὴν σὴν καρδίαν etc. Theogn. 453-4 ὤνθρωπ', εἰ γνώμης ἔλαχες, vd. anche 1.595-6 ἄνθρωπ', ἀλλήλοισιν ἀπόπροθεν ὦμεν ἑταῖροι.

Quanto al nesso μνήμην λάβῃς, oltre a questo passo, è attestato soltanto in Lisia (2.3.1 μνήμην παρὰ τῆς φήμης λαβών), ma in questo caso forse la forma perifrastica serve a rafforzare il complemento di provenienza παρὰ τῆς φήμης. Per la perifrasi μνήμη + λαμβάνω vd. anche Plat. Tim. 26b οὐκ ἂν οἶδ' εἰ δυναίμην ἅπαντα ἐν μνήμῃ πάλιν λαβεῖν.

1-2 ὁ πατήρ σε τί ποιῶν ἔσπειρεν: il verbo σπείρω non richiama soltanto la

metafora vegetale che domina tutto l’epigramma (cfr. ἔσπειρεν, ἐνέφυσεν, φυτόν), ma evoca tutta una serie di termini metaforici che ruotano attorno al concetto di ἄρουρα “terra” come donna/madre (= terra fecondata)448 vd. Theogn. 582, Pi. Pyth. 4.254-6, Soph. OT 1211 e 1496-7, Nonn. Dion. 12.46 attestata anche in ambito latino vd. Lucr. 4.1272, Verg. G. 3.136 etc. Se questo è vero, c’è comunque da notare che il verbo σπείρω è usato regolarmente nel significato traslato di “seminare (figli)” e quindi “generare” (e.g. Soph. Ai 1293, Tr. 31-3, Eur. fr. 539a Kannicht, Ion. 49-50 etc.) o “procreare” (e.g. Aesch. Th. 753 ὅστε ματρὸς ἁγvὰv/ σπείρας ἄρoυραv, Eur. Ph. 18 μὴ σπεῖρε τέκvωv ἄλoκα δαιμόvωv βίαι, Ion. 64 χρόνια δὲ σπείρας λέχη/ ἄτεκvός ἐστι, Lib. Or. 37.9 ἤν ἔσπειρε [sc. moglie], IG 3.1339 οἱ σπείραντες [sc. i genitori]). Pallada ha creato un ponte sia concettuale che lessicale tra questo primo verso e l’ultimo: se il verbo indica di per sé la procreazione, tale processo viene ulteriormente chiarito nell’ultimo verso; d’altra parte, termini come σπείρω, λαγνεία, ῥανίς riflettono un livello concettuale basso e stanno in contrapposizione alla μεγαλοφροσύνη umana e al πλάσμα σεμνότερον con cui si è cercato di descrivere la nascita dell’uomo.

2 παύσῃ τῆς μεγαλοφρσύνης: il termine μεγαλοφροσύνη è molto raro: conta

soltanto tre attestazioni in poesia epigrammatica, di cui due nella stessa sede metrica vd. Noss. AP 6.354.2 = 2824 HE ἅδ' εἰκὼν μορφᾷ καὶ μεγαλοφροσύνᾳ, Jul. Aegypt. 7.582.4 καὶ μεγαλοφροσύνης κρύψε θάλασσα χάριν, Agath. AP 5.299.2 ὡς καλός, ἠέρθην ταῖς μεγαλοφροσύναις. Tra i passi citati, tuttavia, soltanto in Agazia il termine ricorre con valore negativo come in Pallada, è possibile in effetti che Agazia avesse in mente Pallada poiché il primo verso di questo stesso epigramma (“Μηδὲν ἄγαν” σοφὸς εἶπεν· ἐγὼ δέ τις ὡς ἐπέραστος) richiama quasi letteralmente il primo verso di un epigramma palladiano vd. AP 7.683.1 “Μηδὲν ἄγαν” τῶν ἑπτὰ σοφῶν ὁ σοφώτατος εἶπεν e si tratta degli unici due luoghi in poesia in cui il termine è attestato col significato di “superbia/arroganza” negli altri due casi infatti indica la grandezza d’animo. Non solo

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conta poche attestazioni in poesia, ma in generale il termine ricorre raramente in senso negativo vd. Hdt. 7.24.1, Antipho. 4.3. Tale rarità, dunque, esprime una scelta sicuramente non casuale. La magniloquenza del vocabolo concorre ad irridere Platone (e con lui un suo ipotetico seguace) che ha presentato invece la nascita dell’uomo come un processo nobile ed insigne (πλάσμα σεμνότερον).

3 ἀλλʹ ὁ Πλάτων….ὀνειρώσσων: insieme all’epigramma 11.305, questo rappresenta

l’unico caso in cui Pallada menziona esplicitamente il nome di Platone per screditarne i contenuti filosofici, ma la distanza del poeta dalla filosofia platonica ed un’indiretta polemica contro di essa emerge a più riprese in moltissimi epigrammi449. Il verbo è

hapax in poesia poiché nel semplice significato di “sognare” è attestato soltanto in prosa

e, forse non a caso, con questo significato ricorre spesso in Platone vd. e.g. Tht. 158b,

Crat. 439c 6-7, Lg. 656b 3-4 etc. vd. anche Rep. 476c dove è usato nel significato di

“sperare”. Nel caso di Pallada indica chiaramente una folle speranza come nel proverbio ὀνείρατα μοι λέγεις dove il termine significa “cose incredibili” cfr. Apostol. 12.88 =

CPG II.565. Per altre attestazioni in prosa vd. Arist. GC 335b 7-10 (Δεῖ δὲ προσεῖναι

καὶ τὴν τρίτην, ἣν ἅπαντες μὲν ὀνειρώττουσι, λέγει δ' οὐδείς, ἀλλ' οἱ μὲν ἱκανὴν ᾠήθησαν αἰτίαν εἶναι πρὸς τὸ γίνεσθαι τὴν τῶν εἰδῶν φύσιν, ὥσπερ ὁ ἐν Φαίδωνι Σωκράτης) e Luc. Gall. 6.17 (Ἐπειδὰν σύ, ὦ Μίκυλλε, παύσῃ ὀνειρώττων καὶ ἀποψήσῃ ἀπὸ τῶν βλεφάρων τὸ μέλι· νῦν δὲ πρότερος εἰπέ, ὡς μάθω εἴτε διὰ τῶν ἐλεφαντίνων πυλῶν εἴτε διὰ τῶν κερατίνων σοι ὁ ὄνειρος ἧκε πετόμενος). Ι due passi sono significativi poiché nel primo caso si tratta di un’operetta che Aristotele dedica alla spiegazione del processo di generazione e di corruzione, dunque un tema affine a quello del nostro epigramma; nel secondo si tratta di un dialogo la cui sostanza di pensiero rimanda all’elogio della povertà di matrice cinica: un gallo ha svegliato il padrone Micillo proprio mentre stava “sognando” di vivere una vita agiata e ricca. In entrambi i casi si allude al sogno con lo stesso participio ὀνειρώττων, al cinismo è legato anche il termine τῦφον (vd. infra), inoltre degna di nota è l’espressione lucianea παύσῃ ὀνειρώττων che è simile a παύσῃ τῆς μεγαλοφροσύνης del verso precedente.

3 τῦφον…..ἐνέφυσεν: il termine τῦφος è interessante per il collegamento al cinismo

in cui rappresenta una sorta di termine tecnico per indicare la speculazione filosofica come qualcosa di “vuoto”, “illusorio” e “inconsistente” (fumo o nebbia) cfr. HENDERSON450che è stato il primo a proporre l’idea. In effetti il termine τῦφος, ma in realtà anche ὄνειρος (e non a caso Pallada ha accostato i due termini) ricorre spesso nella dottrina cinica con il significato di “delusione/sogno” vd. Sext. Emp. adv. Math. 8.5-6 τάχα δὲ καὶ Μόνιμος ὁ κύων, τῦφον εἰπὼν τὰ πάντα, ὅπερ οἴησίς ἐστι τῶν οὐκ ὄντων ὡς ὄντων dove il pensiero di Monimo il cinico per il quale tutto è illusione viene

449

Cfr. § 3.2.

450

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contrapposto a quello di Platone per il quale invece l’uguaglianza τῦφον τὰ πάντα non è vera.

L’immagine τῦφος/ὄνειρος in relazione all’anima si trova anche in una meditazione dell’imperatore Marco Aurelio vd. 2.17 πάντα τὰ μὲν τοῦ σώματος ποταμός, τὰ δὲ τῆς ψυχῆς ὄνειρος καὶ τῦφος cfr. Men. Ippoc. fr. 193.7 K-A; il τῦφος è spesso associato all’opinione dei filosofi vd. Plut. 2.81f, Arr. Epict. 1.8.6, Iamb. Myst. 2.4 e all’inutilità delle loro speculazioni vd. Plut. 2.580b τὸν δὲ τῦφον ὥσπερ τινὰ καπνὸν φιλοσοφίας εἰς τοὺς σοφιστὰς ἀποσκεδάσας [Σωκράτης]. Sappiamo che il termine era usato con il valore di “fandonia”, “insensatezza” nelle parodie dei cinici cfr. Crat. Theb. AP 7.326.2 τὰ δὲ πολλὰ καὶ ὄλβια τῦφος451 ἔμαρψεν cfr. Jul. or. 6.202c ed è attestato anche nel significato di “vanità” tout court vd. Zeno. Stoic. Testim. 17.1-2.

In poesia epigrammatica τῦφος conta soltanto due attestazioni, oltre all’epigramma palladiano: il distico di Cratete Tebano citato sopra (AP 7.326) e un epigramma di Luciano452 (AP 10.22) dal contenuto gnomico e dal tono pessimistico in cui tra gli sconvolgimenti prodotti dalla divinità vi è anche quello di sottrarre all’uomo ciò per cui “si vanta” (vd. vv. 1-4). In generale si tratta di un termine comune, ma il fatto che sia così ricorrente in ambiente cinico porterebbe ad avvalorare l’ipotesi proposta da Henderson.

Il verbo ἐμφύω può riferirsi, come in questo caso, anche ai sentimenti nel senso di “instillare”, “ispirare”, “infondere” vd. e.g. Hdt. 3.80 (φθόνος), Soph. OT 299 (τἀληθές), OC 1488 (τὸ πιστόν), fr. 949 (κακά) vd. anche Eur. Hipp. 967, Med. 519. Pallada ricorre a questo verbo anche in Pall. AP 10. 50.οὐχ Ἑρμοῦ, φύσεως δ' ἰδίας ἐμφύντα λογισμόν.

4 φυτὸν οὐράνιον: come già accennato nella parte introduttiva all’epigramma,

Pallada sta citando esplicitamente un celebre passo di Platone (Timeo 90a) in cui il filosofo allude alla specie più alta dell’anima umana che risiede sulla sommità del nostro corpo e, come un genio tutelare (δαίμων), ci solleva dalla materialità della terra verso la nostra parentela con il cielo poiché la nostra natura è quella di “pianta celeste” le cui radici sono poste in alto. Il passo è noto e l’idea del δαίμων che salvaguardia il rapporto dell’uomo con la sfera divina torna anche in Phaed. 107d e Resp. 10.617e. Quanto all’immagine specifica dell’uomo come φυτὸν οὐράνιον, presente soltanto nel

Timeo, doveva trattarsi di un’immagine molto nota nel IV secolo poiché menzionata da

diversi autori contemporanei di Pallada. Temistio sviluppa una simile riflessione nelle già citate orazioni 13 e 27453 (vd. supra): la prima, databile al 376, presenta numerosi riferimenti alla conoscenza erotica teorizzata nel Simposio da Platone che viene citato

451 Τῦφος è la lezione conservata da Diogene Laerzio (6.86) ed accolta dagli editori al posto dei traditi

τάφος e τύμβος.

452

Nel codice Palatino l’epigramma è attribuito a Lucillio.

453

Uno dei motivi che spingono RODIGHIERO a riconoscere Temistio nel misterioso ἄνθρωπε destinatario

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più volte nel corso dell’orazione ed è chiamato direttamente in causa in 170a dove si afferma che Dio è superiore a tutti e l’uomo che a lui si assimila “è pianta non terrestre ma celeste”. Ancora, nella seconda orazione, databile al 355 (vd. 333b), viene introdotta la metafora vegetale: anche negli studi letterari, come fra le piante, ve ne sono alcuni attraenti all’aspetto ma sterili e vuoti, così se la sapienza ricercata è qualcosa di più profondo e in grado di far migliorare interiormente, allora “devi cercare un’altra pianta non terrena ma celeste” (339d 4-7). Questa stessa definizione dell’uomo si trova anche in Eusebio vd. Prep. Ev. 8.14.66 μόνη γὰρ ἡ Ἑλλὰς ψευδῶς ἀνθρωπογονεῖ cfr. Syn.

Provid. 1.10.61 θεῖον οὖν οὕτως καὶ ἓν ὅλον τὸ ζῷον ὄντως τότε γίνεται, καὶ τοῦτο

ἔστιν ἐπὶ γῆς φυτὸν οὐράνιον cfr. anonim. Christ. Pat. 1019-20 γυναῖκες ἐσμεν ἀθλιώτατον φυτόν, Greg. Naz. carm. de se ipso PG 37.1369.3-4= carm. 2.1.44.221 = Eur. Med. 431 ἡ δ’ἱερῶν τοκέων ἱερὸν φυτόν.

D’altra parte il termine φυτόν indica di solito la “creatura umana ” in senso lato vd.

e.g. Aesch. Suppl. 281, Alexis fr. 145.1 K-A εἶτ' οὐ περίεργόν ἐστιν ἄνθρωπος φυτόν,

Plat. Soph. 233e εἴ τις ἐμὲ καὶ σὲ καὶ τἆλλα φυτὰ πάντα ποιήσειν φαίη cfr. Rep. 401a. Il termine ricorre in Pallada senza significato metaforico anche in AP 9.377.2 καρπὸς ὑπὲρ κεφαλῆς αὐτὸν ἔφευγε φυτῶν.

5 ἐκ πηλοῦ γέγονας: l’idea che la razza umana sia stata plasmata con acqua e terra o

con acqua e fango è presente nella mitologia e nel folklore di numerose culture454 e deve essersi sviluppata molto presto anche nella mitologia greca poiché attestato fin dall’età arcaica (Hom. Il. 7.99 ἀλλ' ὑμεῖς μὲν πάντες ὕδωρ καὶ γαῖα γένοισθε). Sebbene i greci, a differenza di altri popoli, sembrino avere nutrito scarso interesse sul problema dell’antropogonia455 e risultino scarse anche le nostre conoscenze su tale problema, possiamo ammettere che la derivazione dell’uomo dalla terra o dal fango fosse un pensiero circolante (cfr. hymn. Cer. 352, Hes. Theog. 879, Pind. Pyth. 4.98 dove gli uomini sono definiti χαμαιγενεῖς) come dimostra anche il racconto esiodeo della nascita di Pandora dal fango (Hes. Op. 61-82 vd. WEST 1978 ad loc.164 sgg. per l’origine del

nome Pandora e la sua associazione a Prometeo, cfr. Aesch. fr. 369 Radt ἐκ πηλοπλάστου σπέρματος θνητὴ γυνή, Soph. fr. 482 Radt καὶ πρῶτov ἄρχoυ πηλὸv ὀργάζειv χερoῖv) analogo a quello veterotestametario (Gen.2.21-23) della creazione della prima donna. Ancora, a conferma del fatto che il mito dell’uomo nato dal fango doveva vantare origini molto antiche, DUNBAR456 ammette l’ipotesi che fosse presente anche nell’opera di Protagora se il mito che Platone gli attribuisce nell’omonimo dialogo (Prot. 320-22d) era tratto da un’opera dell’autore stesso, come poteva essere il περὶ τῆς ἐν ἀρχῇ καταστάσεως vd. D.L. 9.55. Ancora, Aristofane definisce gli uomini

454

Vd. THOMSON 1955: A 1241 che cita numerose culture in cui l’idea era diffusa.

455

Vd. SCARPI 1996: 452 “Nella tradizione mitologica arcaica non sembra esservi traccia di

un’antropogonia, forse intenzionalmente esclusa, come sembra lasciare intendere Esiodo, Theog. 35 (il

verso è in ogni caso oscuro: cfr. WEST 1966, ad loc. 167-9), per quanto persistente in varianti locali”.

456

141

πλάσματα πηλοῦ (Av. 686 vd. DUNBAR ad loc. 429-30) senza menzionare il nome del

plasmatore e Callimaco ὁ πηλὸς Προμήθειος (fr. 192.3 Pfeiffer), per Callimaco vd. in particolare fr. 493 Pfeiffer εἴ σε Προμηθεύς/ ἔπλασε, καὶ πηλοῦ μὴ ’ξ ἑτέρου γέγονας (vd. Pfeiffer ad loc. 366) che Pallada sembra riecheggiare con il nesso ἐκ πηλοῦ γέγονας; questo medesimo concetto torna in Pall. AP 11.349.2 ἐξ ὀλίγης γαίης σῶμα