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Pallada e l’età costantiniana: difficoltà di una retrodatazione

Come accennato sopra, negli ultimi anni è stata proposta l’ipotesi di retrodatare Pallada all’età costantiniana, più precisamente, WILKINSON100 ha ipotizzato che il poeta

sia nato tra 252 e il 265 d.C. e morto circa settanta anni dopo ovvero fra il 324 e il 337. Lo studioso, inoltre, intende spostare la vita del poeta da Alessandria a Costantinopoli, rintracciando negli epigrammi palladiani riferimenti alla capitale e all’imperatore Costantino. Sebbene le argomentazioni di Wilkinson a supporto di questa nuova interpretazione storica e cronologica siano abbastanza valide, presentano a mio avviso alcune contraddizioni e incongruenze, ma soprattutto non sembrano più plausibili di quelle addotte per la dimostrazione della cronologia tradizionale del poeta. Retrodatare Pallada di quasi un secolo e soprattutto spostare la sua vita da Alessandria a Costantinopoli implica delle forzature e delle esagerazioni talvolta inaccettabili o comunque, in questo modo, l’interpretazione proposta per gli epigrammi generalmente considerati più ostici ed enigmatici non diviene più semplice né più plausibile di quelle tentate fino ad ora.

Non è mia intenzione criticare aprioristicamente le proposte di Wilkinson che saranno invece debitamente valorizzate laddove risultino davvero persuasive, ma nello stesso tempo, viste le implicazioni decisive della sua proposta, credo valga la pena discutere quelle non facilmente accettabili mettendo in evidenza le eventuali incongruenze.

- La prima argomentazione discutibile riguarda gli epigrammi AP 10.90 e 91 che, a

partire da REISKE101,sono stati collegati all’età teodosiana (379-395) o comunque dopo l’editto di Tessalonica (27 febbraio 380) e dopo il 391 (distruzione del Serapeo). In questi anni (380-395) vi fu un forte inasprimento delle misure restrittive contro i culti pagani attraverso i cosiddetti “decreti teodosiani” che prevedevano gravi punizioni contro ogni forma di manifestazione del paganesimo102. A differenza di quanto afferma WILKINSON103 gli anni 391-2 furono un periodo di svolta nei rapporti fra i pagani, che

100 Cfr. WILKINSON 2009,2010,2012. 101 REISKE ad loc. 102

Cod. theod. 16.10.10 sancì il divieto di ogni sacrificio; Cod. theod. 16.7.4 stabilì delle pene pecuniarie per i convertiti ricaduti nel paganesimo; cod. theod. 16.10.11 riaffermò il divieto assoluto dei culti pagani;

Cod. theod. 16.10.12 sancì il divieto dei culti pagani privati con perdita dei diritti civili per chi fosse stato

trovato a praticarli.

103

WILKINSON 2009:48“The year 391 did not represent a sudden shift in the balance of power; it was only another step (albeit an important one) in the decline of pagan influence that had begun much earlier and would not conclude until much later”.

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con gli editti di Teodosio videro sempre più limitata la loro libertà, e i cristiani, che volevano cogliere l’occasione per eliminare definitivamente il paganesimo. Non è un caso che le lotte più violente avvennero proprio ad Alessandria con la distruzione del Serapeo nel 391 cui seguì anche quella di altri templi (cfr. supra). Pallada allude a questi eventi e ai provvedimenti antipagani in tutta una serie di epigrammi in cui afferma che la realtà è capovolta (10.90.7 vd. ad loc.), che non c’è più distinzione tra vita e morte o tra vita e sogno (10.82 vd. ad loc.), che “i morti” (gli dei pagani) hanno lasciato la città (9.501) etc. ma soprattutto negli epigrammi 10.90 e 91 il poeta introduce l’enigmatica espressione ὃν θεὸς φιλεῖ in cui da sempre si è riconosciuto104 un gioco di parole sul nome Teofilo, vescovo di Alessandria tra 384 e il 412 e principale fautore della lotta antipagana. L’epigramma avrebbe un significato ironico, secondo un espediente sfruttato spesso da Pallada, ovvero il poeta inciterebbe a sforzarsi di “amare” Teofilo in quanto unica possibilità di sopravvivenza per i pagani che non vogliano soccombere agli eventi. La spiegazione è più che plausibile se si tiene conto anche del fatto che la stessa ironia sul nome Teofilo è presente in AP 9.175 (cfr. supra). Diversa è l’interpretazione proposta da WILKINSON105 per gli epigrammi 10.90 e 91: lo studioso

ritiene che le espressioni ὃν θεὸς φιλεῖ (così come Θεῷ φίλε di 9.175) non si riferiscano a Teofilo ma all’imperatore Costantino. Wilkinson cita una serie di fonti, in particolare Eusebio, che attestano l’uso dell’aggettivo θεοφιλής o θεοφιλέστατος, a partire da Costantino, in riferimento agli imperatori cristiani106. L’idea potrebbe sembrare interessante ed anche ammissibile, ma in realtà è solo un’inutile complicazione di un testo altrimenti chiaro. Wilkinson dubita che gli epigrammi 10.90 e 91 possano presentare un significato ironico né tantomeno un gioco di parole (per altro molto frequenti in Pallada) sul nome di Teofilo e ritiene più semplice pensare che Pallada si stia servendo di espressioni comunemente usate in riferimento all’imperatore: dunque nessuna ambiguità, nessuna enigmaticità, nessun doppio senso. A parte il fatto che l’espressione chiara e diretta è quanto di più lontano possa esistere dal modo di poetare di Pallada che tende a prediligere i doppi sensi, i giochi di parole, le espressioni contorte e non immediate, ma non si deve neppure dimenticare che Pallada era in qualche modo costretto ad usare una perifrasi al posto del nome del celebre vescovo per evitare di cadere nei guai. A prescindere da questo, WILKINSON107 ritiene che non gli anni 391-2

rappresentarono il momento di svolta nei rapporti fra pagani e cristiani, ma il 324 con la vittoria di Costantino su Licinio: gli epigrammi 10.90 e 91 (e tutti altri sulla fusione delle statue e dei templi) si riferirebbero dunque agli anni successivi al 324 e alla guerra civile che portò alla vittoria di Costantino. L’ipotesi è difficilmente accettabile poiché è

104 Cfr. LACOMBRADE 1953:23, KEIDELL 1957:1. 105 WILKINSON 2009:43-8. 106

WILKINSON 2009:43-8cita numerosi passi in cui Eusebio chiama l’imperatore Costantino θεοφιλής / θεοφιλέστατος βασιλεύς, o soltanto θεοφιλής / θεοφιλέστατος, o anche ὁ τῷ θεῷ φίλος vd. Eus. HE 10. 9. 2, LC 1. 6; 2. 1; 5. 4 etc.

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universalmente nota la politica favorevole al Cristianesimo ma tollerante verso il paganesimo (e tutte le altre religioni) attuata da Costantino con il quale i cristiani ottennero solo la libertà di culto in seguito alla promulgazione dell’ “Editto di Tolleranza” (313 d.C.); siamo molto lontani da una politica antipagana o che comunque limitasse drasticamente (come fecero invece gli editti teodosiani) l’esistenza fisica del paganesimo. La stessa lettera ἐπαρχιώταις ἀνατολικοῖς (Eus. VC 2.48-60) non contiene alcun divieto di celebrare i culti, ma solo l’augurio e la preghiera a Dio che i cittadini romani decidano spontaneamente di abbracciare la fede cristiana. La politica teodosiana, invece, non prevedeva nessuna decisione spontanea, la conversione fu infatti imposta brutalmente e violentemente, inoltre con l’editto di Tessalonica del 380 il Cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’impero romano e da quel momento tutte le altre espressioni religiose furono considerate eretiche. Ancora, Wilkinson sostiene che Pallada si stia adeguando alla “propaganda” costantiniana, così come aveva fatto Eusebio, utilizzando espressioni quali θεοφιλής che assimilavano Costantino ad un Dio. Ammesso e non concesso che il pagano Pallada possa avere accettato di favorire la propaganda del primo imperatore cristiano, lo stesso WILKINSON108 ammette che sono

solo fonti cristiane a definire Costantino θεοφιλής, θεοφιλέστατος o ὃν θεὸς φιλεῖ, non vi è invece nessuna fonte pagana (a parte Temistio109) che chiami Costantino o gli imperatori cristiani successivi “amati da Dio”. Questo è un dato importante se si considera il fatto che Pallada era pagano o comunque, sicuramente, che non era cristiano. E’ poco verisimile, a mio avviso, che un non cristiano come Pallada utilizzasse in modo sincero un’espressione carica di valore religioso quale l’aggettivo θεοφιλής per adeguarsi alla propaganda costantiniana. Ancora, WILKINSON110 sottolinea

tutta una serie di somiglianze lessicali tra gli epigrammi 10.90 e 91 e l’Orazione davanti

all’assemblea dei Santi dove Costantino descrive il paganesimo come πλάνη παρὰ τοῖς

ἀλογίστοις111 oppure definisce i pagani ἀνόητοι,112

, caratterizzati da μωρία e πονηρία.113

Termini ed immagini analoghe ricorrono anche nella lettera di Costantino ἐπαρχιώταις ἀνατολικοῖς (cfr. Eus. VC 2.48-60). Questi paralleli, tuttavia, non possono essere un fattore dirimente a favore della tesi di Wilkinson poiché il lessico utilizzato da Pallada in 10.90 e 91 (μωρία, ἀνόητος, πλανώμενοι) non ricorre solo e soltanto nell’orazione di Costantino, ma si tratta di un lessico comune e ampiamente diffuso nell’apologetica cristiana come già aveva dimostrato CAMERON114.

108 WILKINSON 2009:45. 109 Cfr. Or. 1.9, 5.69, 7.90 Schenkl-Downey. 110 WILKINSON 2009: 47. 111 Const. Or. 9.5. 112 Const. Or. 11. 4. 113 Const. Or. 11. 7, 1. 5, 11. 4. 114 CAMERON 1965B:23.

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In sintesi ritengo che gli epigrammi 10.90-91 e 9.175 contengano un riferimento a Teofilo e non a Costantino115, al di là delle singole espressioni letterali discutibili, soprattutto per il contesto storico che presuppongono ovvero la repressione violenta e drastica del paganesimo, che non si verificò sotto Costantino, quando continuò ad esistere un clima di tolleranza, ma sotto Teodosio.

- Un’altra argomentazione a mio avviso discutibile è il «complicato ragionamento»116 con cui WILKINSON117 intende dimostrare che l’epigramma 11.292, l’invettiva contro Temistio, non sarebbe opera di Pallada. Secondo lo studioso, infatti, Pallada sarebbe autore solo di una versione più antica dell’epigramma contenente gli ultimi due versi che in effetti sono tramandati con piccole varianti anche nella cosiddetta Silloge Laurenziana e in altre raccolte derivate da essa118 e furono tradotti in latino confluendo nella raccolta degli Epigrammata Bobiensia (ep. bob. 50). I primi due versi, invece, sarebbero stati aggiunti in seguito da un qualcuno che avrebbe notato la stretta somiglianza tra l’orazione di Temistio e il distico palladiano. Pallada, dunque, non sarebbe l’autore di AP 11.292 ma solo degli ultimi due versi, mentre l’intero epigramma sarebbe stato composto da un contemporaneo di Temistio dopo il 384. La presente ricostruzione presenta a mio avviso alcuni limiti. In primo luogo gli ultimi due versi, che Wilkinson ammette essere stati composti da Pallada, presentano comunque il gioco di parole su ἄνω/κάτω così come l’orazione 34 di Temistio e, sebbene il riferimento alla prefettura sia esplicitato solo nei primi due, i due testi presentano ugualmente molti punti in comune: ammettendo l’ipotesi di Wilkinson, Pallada potrebbe avere scelto di rimanere nel vago o comunque di alludere in modo non esplicito a Temistio (forse per tutelarsi?), in ogni caso le analogie tra 11.292 e l’orazione restano tali anche escludendo, come suppone Wilkinson, i primi due versi, un’ipotesi che però, dal mio punto di vista, complica solo inutilmente la situazione. Inoltre lo stesso gioco di parole torna anche in molti discorsi e lettere sinesiane: è vero che tale ricorrenza potrebbe essere una coincidenza oppure dipendere dall’utilizzo di espressioni comuni e diffuse, ma non possiamo escludere si tratti di una reciproca influenza, anzi, viene naturale pensarlo visto che Pallada e Sinesio vissero ad Alessandria nello stesso periodo, sempre accettando la cronologia tradizionale. Infine, si deve ammettere che il ragionamento di Wilkinson è del tutto speculativo e, senza il presupposto della retrodatazione, non avrebbe ragione di esistere. E’ questa la conclusione cui giunge anche FLORIDI119che include quella di 11.292 fra le argomentazioni “problematiche” e

115

Anche FLORIDI 2014A ritiene che sia più “naturale” pensare ad un’allusione a Τeofilo: “The expression

ὄν θεὸς φιλεῖ in AP 10.90.2, 10.91.1 and 5, for instance, would refer to Constantine through an allusion to the adjective θεοφιλής, applied to him as to any other Christian emperor – but the traditional explanation, that it is a punning allusion to Theophilus, patriarch of Alexandria (385-412 A.D.), would be more natural”. 116 Cfr. FLORIDI 2014. 117 WILKINSON 2009:56-60. 118 Cfr. WILKINSON 2009:57, n.131. 119 FLORIDI 2014A.

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aggiunge “without the papyrus, these hypotheses would have probably been easily dismissed as unnecessary conjecture. Given the existence of the papyrus, one feels that further explanation is needed in order to accept the setting of several of the known poems of Palladas in the new historical framework”.

- Discutibile risulta anche la posizione di WILKINSON120 sulla cosiddetta “legge

ausonia” menzionata da Pallada in AP 11.378. Lo studioso, infatti, chiama in causa le notizie riguardo alla politica sui divorzi di Giuliano l’Apostata. Wilkinson ricorda che la legislazione costantiniana che limitava drasticamente la possibilità di divorziare era stata «riformata» da Giuliano intorno al 360. In realtà questo ragionamento non ha appigli solidissimi: la stessa norma giulianea è nota solo per una vaga testimonianza121 (ante Iuliani edictum mulieres viros suos dimittere nequibant, accepta autem potestate

coeperunt facere quod prius facere non poterant; coeperunt enim cottidie licenter viros suos dimittere), un passo molto vago che non fornisce nessun chiaro riferimento

cronologico sul periodo in cui la pratica del divorzio dopo le restrizioni di Costantino conobbe una nuova diffusione. Se alcuni autori citati dallo stesso WILKINSON122

ipotizzano che per almeno mezzo secolo dopo l’Apostata il divorzio non fu più un problema nella parte orientale dell’Impero, questa situazione non va certamente al di là dei primi decenni del V secolo quando nuove norme ripresero la legislazione costantiniana, che viene sicuramente riaffermata nel codice teodosiano (cod. Theod. 3.16.3). Norme successive a quella di Costantino emanate in tutto il corso del IV secolo probabilmente esistevano anche se il codice teodosiano non ne porta testimonianza poiché lacunoso123, mentre non si sa come i successori cristiani dell’Apostata reagissero alla sua norma dopo il suo breve regno. Come nota EVANS124non si può dire niente di

sicuro riguardo alla frequenza del divorzio in età imperiale poiché le consuetudini variavano per area geografica e classe sociale, in particolare i documenti storiografici a riguardo del divorzio per l’Egitto tra l’età di Costantino e Giustiniano sono scarsissimi. Inoltre la concessione del divorzio era in genere subordinata a determinate condizioni e non possiamo essere certi che il riferimento di Pallada sia ad un divieto assoluto di divorziare, cosa che del resto non era in vigore nemmeno durante Costantino che prevedeva alcuni casi in cui il ripudio del coniuge era legittimo. Al di là di ciò, basta dire che il riferimento al provvedimento di Giuliano come terminus ante quem potrebbe

120

Cfr. WILKINSON 2009:49-51.

121

Ambrosiaster, Lib. Quaest. 115.12 (Souter, CSEL 50.322) citata da WILKINSON 2009:50,n. 93.

122

ARJAVA 1988vd. WILKINSON 2009:50,n. 94.

123

Cfr. EVANS 2002: 203 “After Constantine’s legislation there are no extant laws on divorce in the

Theodosian Code for almost another century, but this is probably due to the fragmentary state of preservation of the Code”. La studiosa prosegue dicendo che la legge di Costantino sul divorzio in seguito

non fu applicata e sembra invece fosse stata revocata da Giuliano ma, come sottolinea EVANS 2002:204

“His (sc. Giuliano) law is not extant, but a passage in the Christian writer known as “Ambrosiaster” refers to it”. Dunque l’unico riferimento chiaro alla revoca della legge da parte di Giuliano e ad una nuova diffusione del divorzio dopo le restrizioni di Costantino è questo passo dell’Ambrosiaster.

124

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essere sì un appiglio per la datazione dell’epigramma, ma solamente vagamente indicativo: in assenza di altri elementi storici contestuali non può stare in piedi come criterio certo per via della lacunosità delle fonti documentarie sul divorzio nel periodo citato.

- Secondo WILKINSON125la nuova cronologia (252/265-324/337) potrebbe risolvere

anche il “problema” dell’imitazione da parte di Ausonio e dell’autore dei Bobiensia (cfr.

supra) e confermare l’esistenza dell’antologia epigrammatica del IV secolo da cui

secondo CAMERON126i poeti latini avrebbero derivato e tradotto Pallada. La questione è già stata descritta sopra e già è stato mostrato come la cronologia 340-412 risolva anche questa complicazione. E’ vero che la datazione di Wilkinson risolverebbe la questione, ma non so fino a che punto sia necessaria visto che una cronologia meno drastica (340- 412) rende comunque possibile il legame fra Pallada e i poeti latini. Inoltre, come già è stato rilevato e sarà ulteriormente ribadito parlando della poetica di Pallada (cfr. cap. II), l’imitazione da parte dei poeti di Bobbio è chiara, ma non altrettanto si può dire per Ausonio. Se il già citato ep. bob. 50 è una chiara imitazione o addirittura una traduzione di AP 11.292.3-4127 così come altri epigrammi come quelli sui grammatici (46, 47, 61, 64 etc. vd. § 2.3.3), diverso è il discorso per Ausonio. Già BENEDETTI128 sosteneva che

gli epigrammi di Ausonio 52 e 50 Green non fossero imitazione di Pall. APl 317 e AP 9.489 come invece è stato supposto. Rimando a § 2.3.3 per una discussione del problema e mi limito ad affermare che come Benedetti non riconosco negli epigrammi di Ausonio e Pallada chissà quali cogenti analogie che non possano essere spiegate se non con l’ipotesi di una imitazione diretta o traduzione del testo palladiano. Si deve anche rilevare che nel vasto corpus degli epigrammi di Ausonio (120) solo in due casi emergono delle somiglianze con Pallada e si tratta, a mio avviso, di somiglianze non stilistico-letterarie ma quasi la riproposizione di immagini e modi di dire diffusi alla fine del IV secolo: da un lato il tema della strettissima somiglianza tra un retore e la sua statua (Aus. ep. 52 Green cfr. Pall. APl 317) dall’altro quello della figlia di un grammatico che partorisce figli di tre generi (Aus. ep. 50 Green cfr. Pall. AP 9.489). Nel caso della raccolta dei Bobiensia la situazione è molto diversa, poiché le somiglianze con Pallada riguardano un numero molto maggiore di epigrammi e sappiamo che in generale questi epigrammi erano traduzioni dall’Anthologia Palatina, in due casi si trova addirittura il lemma ex Graeco (45 e 71)129. Per i Bobiensia, in ogni caso, il problema non si pone poiché la raccolta è datata al 400 d.C. D’altra parte, qualora si volesse affermare l’imitazione anche da parte di Ausonio, a mio avviso improbabile, la

125 WILKINSON 2009:51sgg. 126 CAMERON 1993:78-96. 127

Ep. bob. 50: sursum peior eras, escendens sed mage peior/scande deorsum iterum descendisti qui<a >

sursum cfr. Pall. AP 11.292 ἦσθά ποτε κρείσσων, αὖθις δ' ἐγένου πολὺ χείρων./ δεῦρ' ἀνάβηθι κάτω, νῦν γὰρ ἄνω κατέβης. 128 BENEDETTI 1980:125sgg. 129 Cfr. CANALI-NOCCHI 2011:128.

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cronologia 340-412 non la esclude poiché il terminus ante quem per la datazione dei suoi epigrammi è il 383 e a quella data Pallada avrebbe già potuto essere un poeta noto e i suoi epigrammi essere conosciuti anche in Occidente.

- Per quanto riguarda i cosiddetti epigrammi «storici», in cui Pallada allude a quella politica distruttiva che portò all’eliminazione fisica di un qualsiasi riferimento al mondo pagano (cfr. AP 9.528, *10.82, 9.441 etc.), WILKINSON130 ritiene che questi epigrammi trovino giustificazione nell’adesione palladiana alla “propaganda” di Costantino: in altre parole Pallada non starebbe piangendo la fine del paganesimo, ma esaltando il processo di cristianizzazione dell’impero operato da Costantino. Chiaramente, secondo lo studioso, ciò non implicherebbe necessariamente la conversione di Pallada al Cristianesimo, ma semplicemente un adeguamento forzato alle circostanze che vedevano ormai Costantino e quindi il Cristianesimo prevalere sul mondo pagano. In generale WILKINSON131cerca di spostare la sfera di azione di Pallada da Alessandria a Costantinopoli ricontestualizzando epigrammi quali AP 10.56, 9.528, APl 282 nella capitale dell’Impero d’Oriente. Le interpretazioni proposte sono molto intriganti e in alcuni casi davvero plausibili come ad esempio quella di APl 282 dove l’enigmatico riferimento alle Νῖκαι γελῶσαι potrebbe essere collegato alla rappresentazione delle

victoriae laetae sulle monete coniate da Costantino per celebrare le proprie vittorie. Il

caso divenne quasi leggendario e, secondo WILKINSON132, è possibile che Pallada stesse ancora una volta partecipando alla propaganda costantiniana anche perché Gregorio di Nazianzo (Or. 42.27) definisce Costantinopoli μεγαλόπολις καὶ φιλόχριστος (cfr. APl 282.2). D’altra parte non si può scartare neppure l’interpretazione tradizionale secondo cui sono le stesse Νῖκαι, dee pagane, a rappresentare la vittoria dei cristiani. Secondo FRANKE133 l’epigramma farebbe riferimento all’anno 413 quando Teodosio II emanò un

editto in cui la religione cristiana venne riconosciuta come religione ufficiale. CAMERON134, invece, individuava nel nesso φιλοχρίστῳ πόλει un intento ironico nel senso che il dio πολιοῦχοςdi Alessandria, Serapide, era stato ormai soppiantato dal suo successore, il dio dei cristiani, nuovo protettore della città; del resto sappiamo che fu una sostituzione visibilmente concreta, poiché sul sito del Serapeo fu eretta una chiesa cristiana (cfr. Sozom. HE 7.15). Ancora, IRMSCHER135riconosceva un altro tipo di ironia

nell’epigramma: quello delle Νῖκαι sarebbe un sorriso sdegnoso e sprezzante nei riguardi della città amante di Cristo, quel Dio che lo stesso autore dell’epigramma disprezzava. Se la spiegazione di Wilkinson può avere un maggiore fondamento storico, non vedo comunque perché le altre proposte dovrebbero essere scartate, mi sembrano

130 WILKINSON 2009:59. 131 WILKINSON 2010A. 132 WILKINSON 2010A: 9sgg. 133 FRANKE 1899:39. 134 CAMERON 1964B: 61. 135 IRMSCHER 1970:115-122.

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infatti più che plausibili anche perché permetterebbero di collocare l’epigramma in ambiente alessandrino.

In ogni caso alcune proposte interpretative di Wilkison appaiono interessanti come ad esempio il collegamento di AP 9.528 alla spogliazione dei templi pagani attuata da Costantino nel 330 ca. WILKINSON136 ritiene si alluda a statue pagane non fuse, come

solitamente si faceva, per ottenere monete di bronzo, ma riutilizzate in un contesto cristiano per abbellire Costantinopoli che oltre ad essere la Nuova Roma, era anche il simbolo del Cristianesimo vincente. Questa spiegazione è più che plausibile, anche perché lo studioso cita fonti che attestano questo tipo di operazione a Costantinopoli, l’unico limite è che non viene affrontata la questione del lemma εἰς τὸν οἶκον Μαρίνης. Un’altra proposta significativa è quella fornita dallo studioso in merito a degli epigrammi altrimenti inspiegabili come ad esempio AP 9.180 e 183 in cui viene descritta la trasformazione in taverna di templi dedicati alla Tyche o AP 10.56 dove, secondo lo studioso, i vv.17-18 (ἀλλὰ μεθ' ὅρκον ζητεῖν ἔστι θεοὺς δώδεκα καινοτέρους) conterrebbero un’allusione alla chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli137. In generale, tuttavia, credo che la localizzazione di Pallada a Costantinopoli durante il periodo di fondazione della città non possa essere ammissibile