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CAPITOLO IV – RELIGIONE

4.1 Il monoteismo pagano di Pallada

4.1.1 Tyche

A partire dall’età arcaica fino al IV secolo d.C. il concetto di Tyche subisce una profonda evoluzione che porterà da un lato alla scomparsa del significato religioso di tale concetto327, dall’altro alla grande diffusione del culto della divinità dapprima in età ellenistica quando la fede negli dei tradizionali s’indebolisce e gli uomini si aprono a esperienze religiose diverse come i culti misterici, la magia e le religioni orientali328, successivamente in età imperiale e tardo-antica. In età imperiale la Tyche ha perso ormai da tempo le caratteristiche di una divinità tradizionale anche se non rappresenta neppure un principio deterministico capace di garantire all’uomo una vita felice, essa si riduce al semplice concetto di “caso”, origine sia di grandi beni che di grandi mali per gli uomini. Sicuramente il culto della Tyche conosce una forte crescita tra III e IV secolo come

327

Come nota DIANO 1968: 237 verso la metà del V sec. a.C. “il «divino» venne per la prima volta nella

storia dell’uomo tolto dal mondo e per la prima volta emerse, nella forma che poi mantenne sempre, l’equivoco concetto del caso”. Tale mutamento investì anche la Tyche che da riflesso della volontà degli dei divenne la dea della pura casualità.

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BECCHI 2010: 36 (intr.) parla di un “potere dell’evento che, a dispetto del νοῦς e della εὐβουλία,

governa la vita umana, così che a tutto ciò che pensiamo o diciamo o facciamo si può dare il nome di Τύχη”.

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dimostrano i numerosi Tychaia citati dalle fonti329. Anche Pallada, parlando della distruzione dei templi pagani, allude ad edifici di culto dedicati alla Tyche che furono successivamente distrutti e adattati ad esigenze materiali, ad esempio trasformati in terme o in osteria (cfr. infra). In particolare l’antica fede nella Tyche conosce un profondo consolidamento nella seconda metà del IV secolo d.C.: in Egitto e in Asia Minore viene venerata come interpretatio graeca di diverse divinità locali (Iside, Cibele, Atargatis, Astarte e Gad). All’interno dei circoli pagani sorse un vero e proprio culto religioso di questa divinità, forse in contrapposizione all’affermarsi del Cristianesimo, anche se continuarono ad esistere correnti di pensiero e sette religiose che, seguendo i cinici, negavano ad essa qualsiasi valore o importanza330. Il culto della dea si diffuse in modo particolare nel IV secolo, assumendo i tratti di un monoteismo pagano, alternativo a quello cristiano, come dimostrano figure quali Giuliano o Libanio. Per l’imperatore, ad esempio, la realtà è fondata su due principi basilari che vengono definiti θεός/τύχη e καιρός/ τέχνη331; in particolare in una lettera del 361 sull’esito della guerra contro Costanzo scriverà (vd. ep. 28.12) τῇ Τύχῃ τὰ πάντα καὶ τοῖς θεοῖς ἐπιτρέψας περιμένειν, mostrando un affidamento totale alla Tyche da cui dipendono tutte le azioni umane. Il senso di venerazione che Libanio nutre nei riguardi della dea emerge chiaramente nell’orazione 1 (περὶ τῆς ἑαυτοῦ τύχης) in cui la Tyche viene presentata come una forza protettrice onnipresente nella vita del sofista. Come nota BOWRA332alla fine del IV secolo nel mondo pagano si diffuse un crescente scetticismo e senso di futilità, in contrapposizione alla forte vitalità del Cristianesimo, cui si accompagnarono diversi tentativi di trattare figure mitologiche (in questo caso la Tyche) come manifestazioni di un potere astratto e cosmico. Anche in Pallada possiamo riconoscere un tale processo: “In his rejection of the Olympian system and of any

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Per il Tychaion di Alessandria possediamo la descrizione fornita da Libanio (descr. 25.529). Le iscrizioni, inoltre, hanno permesso l’identificazione di numerosi Tychaia che non si trovavano citati altrove: sappiamo dell’esistenza a Delo di un tempio ellenistico dell’ “Agathe Tyche”; ad Olba in Cilicia conosciamo un piccolo tempio esastilo del I sec. d.C.; ad Is-Sanamen, vicino a Damasco, si è completamente conservato un Tychaion dell’anno 192 d.C. In genere, tuttavia, i santuari di Tyche non si sono conservati, ma talvolta possiamo conoscerli grazie alla testimonianza degli autori antichi: Argo (vd. Paus. 2.20.3), Sidone (vd. Paus. 2.7.5); fanno eccezione in questo senso il Tychaion di Corinto (vd. Paus. 2.2.8) e un tempio della Tyche che si trovava nei pressi dello stadio ad Atene (cfr. Philostr Vit. Soph. 2.1.5 Civiletti). Per quanto riguarda il III e IV secolo, sappiamo dell’esistenza in questo periodo di non pochi templi di Tyche, in particolare si devono ricordare quello di Cesarea (Sozom. 5.4.2), di Alessandria (progymn. 12.25.6) e di Costantinopoli (Lib. Or. 30.51).

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BOWRA 1960A: 118 che cita alcuni esempi di questa svalutazione della Tyche, in controtendenza rispetto alle scelte dei contemporanei: un testo ermetico citato da Stobeo (vd. fr. 11.75.2 cfr. Stob. 1.41.1) in cui la Tyche viene definita φορὰ ἄτακτος, ἐνεργείας εἴδωλον, δόξα ψευδής, ancora adesp. AP 9.135 Ἀτρεκέως μάλα πᾶσι πλάνη Τύχη ἐστὶ ροτοῖσιν·/ἔστι γὰρ ἀδρανέη, τὸ δ' ἐπὶ πλέον οὐδὲ πέλουσα che a detta di Bowra “look as if it came from the last years of Paganism”, infine Proclo (in Plat. Tim. 61b) che afferma τὸ σπουδαῖον οὐδέν... δεῖσθαι τῆς Τύχης.

331

Vd. ATHANASSIADI-FOWDEN 1981: 90-91; per la concezione della Tyche come una fora cosmica vd.

157-8 e 200.

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coherent philosophy he believes in irrational universe, and for this he finds his symbol in Tyche”333.

Il “monoteismo pagano” cui si fa riferimento nel titolo allude all’onnipresenza che diviene quasi un’ossessione del poeta nei riguardi della Tyche. Non è vero che Pallada non crede in niente, Pallada può essere definito uno spirito religioso nella misura in cui crede che la Tyche determini, negativamente, gli eventi della realtà. ZERWES334 ritiene

invece che non si possa parlare di nessun monoteismo in Pallada né fondato su un’entità divina generica né tantomeno sulla Tyche, tuttavia ammette che il problema debba essere affrontato, poiché di “monoteismo” ha parlato non solo WALTZ335(cfr. infra) ma anche FRANKE336:summum quidem deum agnoscit (sc. Palladas) quem θεόν appellat vel

δαίμονα.

Pur allineandosi alla tradizione, Pallada mostra di avere una visione molto personale della Tyche: si tratta di una forza negativa, irrazionale, illogica che agisce in vista solo del male. Concordo con BOWRA337 sul fatto che per Pallada la Tyche rappresenta un qualcosa di assolutamente reale, non si tratta né di un simbolo né di un’immagine né tantomeno di un’entità astratta, Pallada fornisce una dettagliatissima descrizione della dea ed è sorprendente come la Tyche palladiana, per dirlo con le parole di BOWRA338,

assuma sempre più i tratti di una “forza attiva e viva che incarna tutto ciò che Pallada odia e di cui la ritiene responsabile”. Siamo lontani dall’indeterminatezza con cui sono presentate le altre divinità pagane per le quali, come si vedrà, il poeta nutre al massimo un sentimento di simpatia/rispetto di natura solo culturale (sicuramente non religiosa), un modo meno diretto per dichiarare la sua sostanziale indifferenza nei loro riguardi. L’azione della Tyche, invece, ha delle conseguenze dirette sulla vita degli uomini, poiché Pallada vede in essa la causa originaria da cui scaturiscono tutti i mali del mondo, in altre parole essa è incarnazione e personificazione del male insito nella realtà umana. Da qui la polemica frequente contro l’ingiustizia, contro la prepotenza, la sopraffazione e la prevaricazione che dominano i rapporti umani, questi atteggiamenti sono tutti imputabili alla Tyche che, in quanto forza illogica e irrazionale (cfr. 10.62.1-2 οὐ λόγον, οὐ νόμον οἶδε Τύχη, μερόπων δὲ τυραννεῖ,/ τοῖς ἰδίοις ἀλόγως ῥεύμασι συρομένη), indirizza e influenza negativamente la volontà degli uomini.

Il tratto forse più peculiare nel comportamento della Tyche è la sua instabilità e incostanza che il poeta indica con la concretezza del termine ῥεῦμα (cfr. 9.182.3, 10.62.2, 10.87.1) o con la definizione ἄστατε δαίμων (cfr. 9.183.5): si tratta di un tema topico che copre trasversalmente quasi tutta la produzione letteraria greca, anche se ha trovato nella commedia nuova, in particolare in Menandro, la sua espressione più

333 BOWRA 1960A:125. 334 ZERWES 1956:361. 335 WALTZ 1946/7:198sgg. 336 FRANKE 1899:46. 337 BOWRA 1960A:125. 338 BOWRA 1960A:125.

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compiuta. E’ quasi sicuro che Pallada si sia ispirato al frammento menandreo (fr. 2.5 Sandbach), ma laddove il comico si limita a riconoscere la casualità insita nel modo di procedere degli eventi, una casualità «neutra» di cui Menandro prende atto senza indignazione, per Pallada i ῥεύματα della Tyche si fondano su un criterio di ingiustizia poiché tendono a favorire gli ingiusti piuttosto che i giusti ed è per questo che l’atteggiamento di Pallada è perennemente indignato, talmente indignato da non risparmiarsi un linguaggio talvolta osceno: in 10.87.2 i ῥεύματα della Tyche vengono paragonati ai movimenti di una prostituta (Τύχην τε πόρνης ῥεύμασιν κινουμένην)339 e l’associazione Tyche-πόρνη viene poi ribadita in 10.96.10 (πόρνης γυναικὸς τοὺς τρόπους κεκτημένης). Come nota BOWRA340 “Whereas Menander is concerned with the

instability of existence, Palladas is obsessed by its fundamental injustice”. Ciò è confermato dal fatto che in tutti gli epigrammi in cui si parla dei ῥεύματα della Tyche, essi sono presentati sia come la causa delle inevitabili sfortune degli uomini sia come espressione della ἀλογία della Tyche. In 9.182.3-4 il poeta invita la Tyche a sperimentare “personalmente” gli sfortunati casi (τὰς ἀτυχεῖς πτώσεις) che suole infliggere agli altri; in 10.62.3-4 la potenza irrazionale della Tyche consiste nel favorire gli ingiusti e nell’odiare i giusti (μᾶλλον τοῖς ἀδίκοισι ῥέπει, μισεῖ δὲ δικαίους); in 10.87.3-4 Pallada invita a “ridere” della Tyche anziché soffrire osservando che gli indegni hanno sempre più successo (ἀναξίους ὁρῶντες εὐτυχεστέρους).

L’instabilità va di pari passo con la ἀλογία e la ἀνομία di Tyche che Pallada definisce δέσποινα (cfr. 9.182 καὶ σύ, Τύχη δέσποινα) e considera unica vera causa dell’ingiustizia operante nel mondo e di cui egli stesso è vittima, in primo luogo per la propria povertà considerata “un inciampo della Fortuna” (cfr. 11.303 πταῖσμα Τύχης) non imputabile quindi ad altre cause. D’altra parte gli uomini non sono universalmente immersi in questo meccanismo indistinto conseguente all’azione della Tyche, ciascuno possiede un proprio destino personale e quindi una propria Tyche personale che sarà positiva o negativa a seconda del destinatario. A questa Tyche personale (cfr. 10.77 σὴν δὲ τύχην στέργων) – il concetto riguarda anche la sfera animale (cfr. 11.383 ἦν ἄρα καὶ κάνθωσι Τύχη χαλεπή τε καὶ ἐσθλή) e la Tyche stessa (cfr. 9.183.5-6 ἄστατε δαῖμον/ τὴν σὴν ὡς μερόπων νῦν μετάγουσα τύχην) – al fatto che la vita consista in un “gioco della

Tyche” (cfr. 10.80 παίγνιόν ἐστι Τύχης μερόπων βίος) o in un viaggio in cui la Tyche è

il timoniere della nave (cfr. 10.65 πλοῦς σφαλερὸς τὸ ζῆν […] τὴν δὲ Τύχην βιότοιο κυβερνήτειραν ἔχοντες), Pallada reagisce con la ribellione attraverso una sorta di congedo dalla dea per cui il poeta sembra essersi liberato, almeno a livello psicologico e interiore, del senso di dipendenza da essa. Questa presa di posizione è dichiarata sia in 9.172 (Ἐλπίδος οὐδὲ Τύχης ἔτι μοι μέλει) che in **9.134 (Ἐλπὶς καὶ σύ, Τύχη, μέγα χαίρετε· τὴν ὁδὸν εὗρον), anche se talvolta la rassegnazione e il cedimento prevalgono

339 Per il valore osceno e il cripto-significato erotico del nesso ῥεύμασιν κινουμένην vd. ad loc.

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sullo slancio titanico e combattivo e il poeta afferma tristemente di voler lasciar fare tutto alla Tyche (cfr. 10.62 τἆλλα δὲ πάντα Τύχῃ πράγματα δὸς διέπειν).

4.1.2 Altre divinità

Se dunque tutto è determinato dalla Tyche, viene da chiedersi quale ruolo o significato abbiano le altre entità divine che il poeta chiama genericamente θεός, δαίμων, μοίρα, κλήρος e talvolta con specifici nomi come Serapide (9.174 e *9.378), Iside (6.60), Eracle (9.441), Zeus (10.53 e 11.302), Efesto (11.307), Crono (11.383).

Il confronto fra gli epigrammi dedicati alla Tyche da un lato e quelli dedicati alle altre divinità dall’altro, permette di riconoscere subito la sostanziale differenza che intercorre fra queste due categorie. Rispetto alla Tyche le altre divinità restano essenzialmente nel vago, il poeta non fornisce nessuna informazione sul loro comportamento, sul loro potere e soprattutto sul loro atteggiamento nei riguardi degli uomini. Emerge una sorta di estraneità e di freddezza nel modo di rapportarsi ad esse, come se non avessero nessuna ingerenza né in negativo né in positivo sulla vita del poeta. In questo senso condivido la posizione di BOWRA341nell’affermare che gli dei Olimpici, anche laddove

il poeta ne fa menzione, sono molto meno reali nella vita e nella mente di Pallada di quanto invece sia la Tyche (cfr. infra). Pallada menziona Zeus o Iside piuttosto che Serapide o Eracle per evocare o conformarsi alla tradizione antica ma sicuramente non

crede più in queste divinità o, se ancora vi crede, si tratta di una fede sfumata, vuota,

staccata dalla vita concreta342. Lo dimostra il fatto che nei suoi epigrammi Pallada si rivolge direttamente alla Tyche, magari per offenderla o per prendere congedo definitivo da lei, ma in ogni caso emerge un dialogo e quindi un rapporto – seppur negativo – tra i due. Nel caso degli dei olimpici il poeta non si espone: compiange le loro statue e i loro templi distrutti dall’avanzata del Cristianesimo (cfr. 9.441, *9.378 etc.) ma senza una partecipazione emotiva personale, talvolta li ricorda soltanto per creare un’ “occasione letteraria”, ad esempio per ricercare un effetto ironico come in 10.53343 dove si afferma che anche Zeus sarebbe un parricida se suo padre fosse stato mortale, o una tirata moraleggiante come in 11.302 dove la povertà è presentata come qualcosa di staccato dall’individuo quindi anche Zeus sarebbe oltraggiato se fosse povero, o un attacco misogino come in 11.307 dove Efesto è definito “giustamente” zoppo poiché padre di Eros e sposato con Afrodite.

Importante, in questo senso, è il diverso trattamento riservato alla descrizione della distruzione dei templi di Tyche da un lato e di tutti gli altri templi pagani dall’altro; nel

341

BOWRA 1960A:125.

342

Cfr. WALTZ 1946/47:200riguardo alla menzione degli dei olimpici sostiene che hanno essenzialmente

un significato metaforico nell’universo religioso del poeta e che il poeta si sta semplicemente conformando a delle regole di stile molto antiche.

343

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primo caso il poeta fornisce dettagli molto particolari come il riutilizzo dell’edificio religioso per altre funzioni, decisamente più vili, come quello di osteria (cfr. 9.180), il poeta parla di Τύχη-δυστυχούσα (cfr. 9.181) ed è interessante come non si limiti a descrivere asetticamente la trasformazione in atto ma partecipi con accenti personali al degrado di cui la Tyche è vittima. Il poeta comprende che la distruzione dei templi di

Tyche o la loro risemantizzazione è segno di un capovolgimento epocale che coinvolge

non solo la dea ma anche la sua stessa persona. Come nota BOWRA344 “When he sees her temple turned into a tavern, he feels that somehow he has scored off her, and though these poems are built on ingenious tropes and have their full measure of verbal ambiguities, they reflect something entirely human and real in Palladas. He treated the crisis seriously and saw in it more than an imaginary humiliation of Tyche”. Verrebbe da chiedersi per quale ragione la crisi relativa alla fede nella Tyche tocchi il poeta più profondamente di quella che investe le altre divinità pagane. La risposta risiede nel fatto che la fede nella Tyche è per Pallada una realtà tangibile, effettiva, concreta, mentre gli dei olimpici hanno perso il loro significato nell’orizzonte del poeta già da molto tempo.

Il degrado delle statue pagane in ogni caso non lascia il poeta indifferente, sicuramente lo interroga e lo lascia per così dire spiazzato poiché riconosce in esso il realizzarsi di un passaggio storico decisivo. Emerge un senso di profonda amarezza, velata di una certa ironia, nella descrizione palladiana dello smantellamento del paganesimo: in 9.773 il poeta descrive la triste fine di una statuetta bronzea di Eros che un fabbro ha fuso e trasformato in tegame e commenta “non senza ragione perché anch’esso brucia”; giocando sul duplice significato del fuoco, letterale e simbolico, il poeta ha creato un effetto parodico che anziché ridurre accentua ulteriormente l’amarezza della situazione. Ancora in 9.441 il poeta dice di avere visto la statua del dio Eracle stesa a terra presso un trivio e che il dio stesso gli sia apparso di notte per dirgli

ridendo di avere imparato, benché dio, a servire la circostanza. Lasciando da parte per

adesso il problema se Pallada stia citando o meno l’Epistola ai Romani 12.11345, è importante notare la presenza del participio μεδιόων: Eracle ride nonostante la sconfitta, ma si tratta chiaramente di un sorriso amaro proprio di chi sa di essere immerso in un tracollo inarrestabile.

Ben diversa è la reazione di Pallada di fronte al palesarsi della scomparsa del potere della Tyche: secondo BOWRA346 oltre ad un partecipazione emotiva più forte dettata dalle ragioni esposte sopra e al senso di rivincita e compiacimento (cfr. 9.183), è possibile rintracciare il segno di una speranza nutrita dal poeta, tale segno risiede nella presenza dell’avverbio ὁσίως di 9.183. Il poeta invita la Tyche a piangere “giustamente” sulla propria disgrazia avendo cambiato anch’essa finalmente la propria sorte come fino ad ora faceva accadere ai mortali. Nell’uso dell’avverbio ὁσίως Bowra rintraccia il

344

BOWRA 1960A:125.

345

E’ questa l’opinione di BOWRA 1970A:257e LUCK 1958:459; diversa è la posizione di CAMERON

1965B:17sgg.

346

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riferimento ad un mutamento di sistema nella direzione di un maggiore giustizia e lealtà rispetto ai soprusi fino ad ora permessi dall’egemonia della Tyche. Quel potere fondato sulla giustizia che è andato a sostituire la Tyche è senza dubbio il Cristianesimo, ma il silenzio di Pallada non permette di avanzare ipotesi certe in questo senso, sicuramente non la conversione alla nuova religione. Il poeta si limita ad affermare l’esistenza di un nuovo sistema degno di maggiore venerazione rispetto al quello della Tyche, come afferma BOWRA347 “and when he tells her to accept her lot ὁσίως he means, in plain language, that the old scheme of an irrational universe which called for abuse must give place to another scheme which calls for respect”. Non è possibile e neppure lecito andare oltre questa supposizione, ma è certo che Pallada guardava con speranza alla scomparsa del potere della Tyche pur vivendo la fine del paganesimo come un evento tragico e assolutamente incomprensibile ai suoi occhi.

Per quanto riguarda le altre espressioni - θεός, δαίμων, κλήρος e μοίρα - θεός è il più frequente ma ricorre principalmente con significato generale ad indicare più che altro la categoria, ovvero il “divino”, piuttosto che un soggetto specifico. Affermazioni del tipo “nessun mortale cercherà mai di essere dio” (7.684), “odi dio il ventre e i cibi del ventre” (10.57), “c’è chi odia il fortunato che dio ama” (10.90) etc. non forniscono nessuna informazione sulle caratteristiche di questo θεός. Vi è un solo epigramma, il 10.88, in cui il poeta lascia trapelare una qualità importante di questo dio: l’immortalità. Questo epigramma ha creato non pochi problemi nella critica, poiché il poeta sembrerebbe affermare la teoria platonica dell’immortalità dell’anima smentendo quel materialismo epicureo di cui a più riprese si è fatto portavoce. Per un’analisi approfondita delle posizioni assunte dai critici in merito all’epigramma rimando al commento ad loc. e in questa sede mi limito a rilevare l’importanza di quanto affermato dal poeta nell’ultimo distico: ἀλλ' ὅταν ἐξέλθῃ τοῦ σώματος ὡς ἀπὸ δεσμῶν/ τοῦ θανάτου, φεύγει πρὸς θεὸν ἀθάνατον. Il soggetto dell’azione è l’anima dell’uomo che svincolandosi dai lacci corporei si ricongiunge con il dio definito immortale.

Il termine δαίμων ricorre in due soli epigrammi, 10.77 e 10.34, e in entrambi i casi è presentato come una volontà “altra”, attiva, superiore e ineluttabile contro cui è inutile lottare ma che l’uomo deve invece assecondare. In 10.77, oltre al termine δαίμων, il poeta introduce altre due espressioni sinonimiche, κλήρος e μοίρα: il primo è il “fato” attribuito a ciascun uomo al momento della nascita, il secondo è il “destino” come ordine prestabilito. Allo stesso modo in 10.34, attraverso un gioco di parole sul verbo μελέω, il poeta invita l’uomo ad evitare gli inutili affanni poiché “di tutto si preoccupa il δαίμων”.

347

102

4.2 Influenze religiose

4.2.1 Cristianesimo

La difficoltà di raggiungere una posizione, se non definitiva, almeno plausibile sul tema della conversione al Cristianesimo diviene chiara se andiamo a considerare le diverse conclusioni cui sono giunti i critici nell’affrontare questo problema: già più di un secolo fa FRANKE348 concludeva la sezione relativa alla vita del poeta le parole

Quibus rebus cognitis Palladam non fuisse christianum nobis putandum est, GLOVER349

invece sceglieva espressioni più neutre “He had ceased to take joy in the old, he hated the new” e WALTZ350 invece concludeva l’articolo che aveva intitolato “Palladas était-il

chrétien?” senza lasciare spazio a nessun dubbio “il est donc, non pas établi d’une manière irréfutable, mais infiniment probable, que Palladas était chrétien”.

Esaminando tutti i contributi di cui disponiamo sull’opera del poeta, soltanto Waltz giunge a tale conclusione, IRMSCHER351 parla di “Nichtchristentum” piuttosto che di “Heidentum” a proposito del poeta e sostiene che la conclusione di Waltz sia inaccettabile dato che accanto a quei tratti che egli considera di matrice cristiana se ne trovano altrettanti chiaramente non cristiani. Irmscher conclude il proprio ragionamento affermando che Pallada fu del tutto estraneo al mondo cristiano, non solo a livello psicologico-interiore ma anche come organizzazione concreta, ma non per questo si dovrà pensare ad un nuovo avvicinamento alle divinità pagane tradizionali né tantomeno al neoplatonismo352. L’indeterminatezza che caratterizza l’universo filosofico del poeta, non ha impedito, in ogni caso, di assumere posizioni nette. Anche per ZERWES353 e KEIDELL354, ad esempio, il poeta è indiscutibilmente pagano: per il