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Lingua e letteratura latina

CAPITOLO II POETICA

2.3 Altre influenze e suggestioni letterarie

2.3.3 Lingua e letteratura latina

Fra i numerosi aspetti di questo poeta tardo-antico che attendono ancora di essere accuratamente studiati e compresi vi è anche il rapporto con il mondo latino. Non si è ancora in grado di dare un’adeguata risposta alla domanda se Pallada conoscesse il latino e avesse letto direttamente in originale quegli autori con cui sono emerse numerose analogie lessicali e concettuali. E’ chiaro che siamo di fronte a dinamiche e problemi molto complessi per sviscerare i quali sarebbe necessario uno studio mirato e

262

LUCK 1958:458.

263

BOWRA 1970A:257contra CAMERON1965B: 17 sgg.

264 CAMERON 1965B. 265 CAMERON1965B:20. 266 LUCK 1958. 267 CAMERON1965B. 268 FOGAZZA 1980.

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relativo a questo specifico aspetto della poesia palladiana, studio che in parte esula dal commento filologico-letterario ma che in parte anche lo presuppone. L’analisi linguistico-letteraria degli epigrammi gnomici e filosofici ha permesso di ottenere alcuni risultati anche in merito a questo aspetto, risultati che, però, sono lontani dal fornire delle risposte definitive alle domande poste sopra e si limitano invece a mettere in luce o confermare certi elementi fino a questo momento passati inosservati o trascurati proprio perché ricavabili solo da un lavoro di commento parola per parola. Premetto, dunque, che la presente trattazione non fornirà nessuna risposta esaustiva sul tema del rapporto di Pallada con il mondo letterario latino, ché anzi alcuni dei dati ricavati dal commento, sotto certi aspetti, hanno reso la questione ulteriormente complicata.

Un primo risultato importante è il fatto che un cospicuo numero di tematiche affrontate da Pallada negli epigrammi gnomici e filosofici trovano riscontro diretto in alcuni autori latini, in particolare Seneca e Lucrezio. In ogni caso il collegamento tra le due letterature si realizza attraverso immagini e nozioni ampiamente attestate e quindi non permette di postulare un legame diretto fra di esse.

In AP 10.72, Pallada propone la metafora della vita come teatro/finzione attestata, come dimostra ZERWES269, fra gli altri (cfr. ad loc.) anche in molti autori latini quali Terenz.

Adelph. 739, Svet. Vit. Aug. 99, Hor. ep. 2.1.197-99, Juv. 14.264, Petr. Satyr. 80, 117.4,

Cic. Cat. Maior. 10.70, ma soprattutto in Seneca (ep. 80.7) dove compare l’espressione

vitae humanae mimus paragonabile a σκηνὴ πᾶς ὁ βίος καὶ παίγνιον di Pallada. Ancora,

l’insistenza sul tema del pianto che caratterizza la vita umana dalla nascita fino alla fine della vita con la sottolineatura di espressioni derivanti dalla radice δακρ- (δακρυχέω, δακρύω, δάκρυσι, πολυδάκρυτον) è presente anche in una lettera consolatoria di Seneca, molto vicina, proprio per la ripetizione del termine lacrima, fletum, fleo all’epigramma di Pallada cfr. cons. ad Polyb. 4.1 e 4.3; in questo stesso epigramma al v. 4 la lezione συρόμενον (dubbia) sarebbe confermata da un uso simile attestato in un’epistola senecana (cfr. ep. 58.23) dove il verbo praeterveho, così come σύρω, sta ad indicare l’idea che il tempo, passando, si trascina dietro tutto, anche la vita dell’uomo ed è interessante sottolineare che si tratta di un verbo coniato da Seneca.

In AP 10.65 Pallada introduce l’immagine molto comune della vita come viaggio in mare che trova ampia attestazione nella letteratura latina (cfr. ad loc.) vd. Catull. 68.13

merser fortunae fluctibus; Sen. controv. I.1.10 incertae fortunae fluctus cfr. anche ep.70

per l’uso del verbo “praenavigare” (gli uomini che “costeggiano la vita”); Apul. Met. 10.13 talibus fatorum fluctibus volutabar etc. Questo stesso epigramma si chiude con la pessimistica riflessione sul fatto che la morte costituisce l’inevitabile porto del viaggio in mare rappresentato dalla vita; alla medesima conclusione giunge anche Seneca (cfr.

consol. ad Polyb. 9.6) dove emerge la stessa tragica riflessione presente in Pallada per

cui l’uomo, dopo la fatica di un lungo viaggio in mare, non ha altro porto in cui approdare se non la morte. La metafora porto-morte è presente anche in altri autori latini

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quali Cicerone (cfr. cat. mai. 19.71; Tusc. 1.118) e Quintiliano (12.11.4). In AP 9.172, invece, la metafora del porto sta indicare la condizione psicologica di pace che Pallada ha raggiunto cessando di illudersi; in questa stessa accezione la metafora è attestata anche in Terenzio (Andr. 480).

Particolarmente significativo è il gruppo di epigrammi (10.59, *11.282, **9.500) in cui Pallada, recuperando riflessioni proprie dell’epicureismo e dello stoicismo, afferma l’assoluta inutilità del timore della morte. Si tratta senz’altro di una riflessione comune, ma è importante soffermarsi sull’analogia delle espressioni usate da Pallada e Seneca. Al v. 1 di 10.59 Pallada scrive che la vera sofferenza non è la morte ma il tempo che ci divide da essa nel quale gli uomini tendono a sviluppare pensieri tremendi su ciò che li attende, allo stesso modo in Seneca si legge (ep. 30. 17): si distinguere voluerimus

causas metus nostri, inveniemus alias esse, alias videri. Non mortem timemus, sed cogitationem mortis (cfr. Epit. Ench. 5, vd. ad loc.). Ma più generalmente, Pallada

doveva avere ricavato l’idea che la morte non è un male da Epicuro (ratae sent. 2= Sex. Emp. Pyrr. Hyp. 3.229) e quindi anche da Lucrezio (de rer. nat. 3) dove viene presentata come una forma di quies/somnus (cfr. Lucr. 3.211 leti secura quies). E’ ragionevole supporre che Pallada potesse avere in mente anche Lucrezio (oltre ad Epicuro), poiché nel dettato poetico di entrambi emergono delle formulazioni molto simili come ad esempio l’insistenza così forte sui termini negativi: sul fatto che la morte

non è dolorosa o che non è niente vd. AP 10.59.4 οὐδὲν γὰρ θανάτου δεύτερόν ἐστι

πάθος cfr. Lucr. 3.830 nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum.

Ancora, se in AP 10.87 Pallada propone il riso come strumento catartico per non soccombere al male della vita (v.1 ἂν μὴ γελῶμεν τὸν βίον τὸν δραπέτην), anche per Seneca il riso deve essere preferito al pianto in quanto indice della stabilità emotiva ed interiore del saggio (cfr. de tranqu. anim. 15.2 humanius est deridere vitam quam

deplorare). Reminiscenze latine ricorrono con una certa frequenza anche nei cosiddetti

“epigrammi simposiali” in cui Pallada introduce alcune riflessioni sulla necessità di vivere a pieno ogni momento della vita, poiché del futuro non è dato sapere niente vd.

AP *5.72 etc. cfr. Hor. carm. 1.11.8, Mart. 1.15.11-12 etc.; in questi epigrammi Pallada

inserisce gli elementi tipici della poesia erotica (vino, danza e amore) che, sebbene presenti anche nella poesia simposiale latina, sono comunque molto topici.

Un discorso a parte deve essere dedicato all’ipotetico contatto fra Pallada ed uno specifico settore di poesia latina per lo più contemporaneo al poeta: gli epigrammi di Ausonio e la raccolta degli Epigrammata Bobiensia. Lasciando da parte le implicazioni cronologiche di tale ipotetico contatto (vd. § 1.3 e 1.4), in questa sede mi limiterò a presentare i dati alla luce dei quali è stata formulata tale ipotesi. Per quanto riguarda la raccolta nota come Epigrammata Bobiensia, si tratta di 71 epigrammi, molti dei quali tradotti dal greco o per lo più tratti dall’Anthologia Palatina cui, però, non si fa mai esplicito riferimento tranne in due casi (45 e 71) in cui, però, compare semplicemente il lemma ex Graeco, senza ulteriori precisazioni. Nell’ultima edizione commentata della

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raccolta, CANALI e NOCCHI270 menzionano anche Pallada fra gli autori più ripresi della

Palatina. In effetti, per limitarsi alle analogie tematiche e concettuali, la raccolta

contiene numerosi epigrammi gnomici e protreptici: sul matrimonio (22-24), sulla varietà della fortuna (27-29; 42), sulle ricchezze (59-60, 69); cospicuo è anche il numero degli scoptici fra cui emergono, per l’analogia con Pallada, quelli contro i

grammatici (46, 47, 50, 61, 64 cfr. infra) accusati di pedanteria, ignoranza e ambizione.

Volendo soffermarsi sugli epigrammi più “palladiani” si devono il menzionare il 42 (cfr. e.g. *5.72) per il tema dell’incertezza del futuro e il dominio della sorte sugli eventi (v.2-3 fors est incerta futura (…) varia vice cuncta feruntur) e il 43 per l’insistenza sulla nullità della vita umana (vd. 10.118). Le analogie con AP 10.118 sono molto forti (v.1 πῶς γενόμην; πόθεν εἰμί; τίνος χάριν ἦλθον cfr. v.1 non nomen, non quo genitus,

non unde, quid egi, v.3 οὐδὲν καὶ μηδὲν τῶν μερόπων τὸ γένος cfr. v.2-3 mutus in aeternum sum, cinis, ossa, nihil./ Nec sum nec fueram, genitus tamen e nihilo sum), ma

non si deve tralasciare il fatto che 10.118 è di attribuzione incerta271 e la chiusa finale presenta un invito a bere vino del tutto assente nella versione latina. In particolare, si devono citare gli epigrammi contro i grammatici: il 46 con l’incipit dell’Eneide che corrisponde all’incipit dell’Iliade di 9.168 etc., il 47 per l’equivalenza moglie/grammatica come i mali peggiori che possano capitare ad un uomo. Ma è forse l’epigramma 50 a seguire più da vicino il modello palladiano: sursum peior eras,

escendens sed mage peior./ Scade deorsum interum, descendisti qui‹a› sursum cfr.

11.292.2-3 ἦσθά ποτε κρείσσων, αὖθις δ' ἐγένου πολὺ χείρων./ δεῦρ' ἀνάβηθι κάτω, νῦν γὰρ ἄνω κατέβης. Anche se il contesto dei due componimenti è completamente diverso (vd. CANALI-NOCCHI272ad loc.), la somiglianza stilistico-lessicale fra i due testi è molto

chiara.

Per quanto riguarda Ausonio, gli epigrammi per i quali è stato supposta la dipendenza da Pallada sono il 52 e 50 Green (52: Rhetoris haec Rufi statua est? – si saxea Rufi -./ -

Cur id ais?- Semper saxeus ipse fuit-.; 50 Rufus vocatus rhetor olim ad nuptias/ celebri ut fit in convivio,/ grammaticae ut artis se peritum ostenderet/ haec vota dixit nuptiis:/ - Et masculini et feminini gignite/ generisque neutri filios-) i cui presunti modelli

sarebbero rispettivamente Pall. APl 317 (κωφὸν ἄναυδον ὁρῶν τὸν Γέσσιον, εἰ λίθος ἐστί,/Δήλιε, μαντεύου, τίς τίνος ἐστὶ λίθος) e 9.489 (γραμματικοῦ θυγάτηρ ἔτεκεν φιλότητι μιγεῖσα/ παιδίον ἀρσενικόν, θηλυκόν, οὐδέτερον). Lasciando da parte il problema cronologico (cfr. § 1.3, 1.4), BENEDETTI273 dimostra con plausibili argomentazioni che le somiglianze fra gli epigrammi menzionati non sono “così cogenti da non poter essere spiegate se non ricorrendo ad una derivazione diretta”274 e ritiene invece più probabile che entrambi i poeti risalgano indipendentemente l’uno dall’altro

270

CANALI e NOCCHI 2011:14cfr. MUNARI-SPEYER 1955.

271

GUICHARD 2014A non lo accetta.

272 CANALI-NOCCHI 2011:117. 273 BENEDETTI 1980:125sgg. 274 BENEDETTI 1980:129.

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ad una tradizione anteriore ampiamente attestata275. Lo studioso, infatti, propone un’ampia documentazione che, complessivamente, avvalora l’ipotesi dell’esistenza di motivi, in questo caso quello della strettissima somiglianza fra un retore e la sua statua e quello dei tre generi grammaticali, ampiamente attestati e sfruttati dalla letteratura greca, “di cui non fu certo iniziatore Pallada”276. Concordo con BENEDETTI277 sul fatto

che “la critica ha insistito troppo sull’aspetto di Ausonio come semplice traduttore (…) identità di motivi non comporta necessariamente derivazione di un autore da un altro, bensì può essere spiegata anche come ripresa di una tematica comune”278. In questo modo si risolverebbe anche la difficoltà cronologica che impedisce o comunque rende complicato considerare Ausonio, il cui teminus ante quem è il 383, imitatore di Pallada la cui cronologia, secondo una parte della critica, è da collocarsi fra il 350 e il 420 d.C. (cfr. § 1.1). In ogni caso è giusto tenere presenti le strette analogie che collegano i due maggiori epigrammisti del IV secolo, benché attivi in contesti geografici diversi. Ammesso e non concesso, data la notorietà dei temi, che Pallada avesse in mente i testi latini citati, è lecito chiedersi a questo punto se Pallada conoscesse la lingua in cui erano scritti o se li leggesse in traduzione. CAMERON279riteneva che Pallada non conoscesse

quasi per nulla il latino (“the few words of Latin Palladas may have known”), ZERWES280 non esprime nessuna opinione in merito e in anni più recenti PONTANI281ha

lamentato la totale assenza di studi di questo aspetto del poeta282. Rimando a ROCHETTE283 e alla ricca bibliografia da lui menzionata284 per una descrizione del

275

Per un’interpretazione generale di APl 317 vd. FLORIDI 2013B :99sgg.; anche la studiosa si mostra

dubbiosa sull’ipotesi di un rapporto diretto fra Pallada e Ausonio in questo caso “Il Bordolese potrebbe aver conosciuto Pallada, specie se coglie nel segno la proposta di retrodatazione dell’Alessandrinoall’età di Costantino, ma le affinità tra i due testi sono in questo caso estremamente generiche (così anche Kay 2001 ad loc.) e più facilmente spiegabili con il comune impiego di un repertorio di motivi ben consolidato (per un gioco simile, cfr. anche Juv. 8.52-5 at tu / nil nisi Cecropides truncoque simillimus Hermae. /

nullo quippe alio vincis discrimine quam quod / illi marmoreum caput est, tua vivit imago)”. Inoltre la

studiosa ammette che, qualora Ausonio dipenda da Pallada, “il fatto che fatto che egli utilizzi nequivocabilmente il paragone con la pietra a proposito di un retore potrebbe significare che già nel IV sec. APl 317 circolava in un contesto che suggeriva un’interpretazione di questo tipo”.

276

BENEDETTI 1980:130.

277

BENEDETTI 1980:131.

278

BENEDETTI 1980:126-7,inoltre,sottolinea anche il dato cronologico, la quasi contemporaneità dei due

poeti, a supporto dell’impossibilità di un legame diretto fra Pallada e Ausonio contra KAY 2001:174-5.

Sul rapporto di Ausonio con l’epigramma greco vd. FLORIDI 2013C. Attraverso l’analisi di alcuni

epigrammi ausoniani la studiosa dimostra come l’epigrammatica greca offra al Bordolese non solo dei modelli letterari per una semplice traduzione o riscrittura, ma anche delle vere e proprie tecniche compositive attuate autonomamente dall’epigrammista. In particolare, per quanto riguarda l’ipotetica dipendenza di 52 Green da APl 317, ritiene che non si sia gunti a dei risultati sicuri e che anzi “les affinités entre les teste, par ailleurs, ne sont pas telles, peut-être, qu’on doive nécessairement penser à un

rapport direct de filiation” (vd. FLORIDI 2013C:100).

279 Cfr. CAMERON1965B:17sgg. 280 ZERWES 1956:382. 281 PONTANI 2006/7. 282

Il lamento della studiosa appare più che legittimo, poiché si tratta di un problema totalmente inesplorato cui varrebbe la pena dedicare degli studi.

283

ROCHETTE 2010:290sgg.

284

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fenomeno della latinizzazione linguistica e culturale dell’Oriente greco tra II e IV secolo d.C. e mi limito a sottolineare che l’incremento dell’uso del latino fu principalmente legato a ragioni politico-sociali, in primo luogo lo spostamento della capitale dell’Impero ad Oriente, dapprima a Nicomedia e in seguito a Costantinopoli, per cui il latino divenne la lingua dei funzionari e dell’amministrazione centrale dell’impero. Ancora, la conoscenza della legge romana, e quindi della lingua latina, divenne un fattore importante per la carriera politica e militare e quindi per un’ascesa sociale. E’ proprio per questa ragione che si diffusero molte università di diritto dove veniva insegnata la legge romana e veniva favorito l’apprendimento del latino, basti pensare alla famosa università di Berito285 che rappresentò un’isola di cultura e lingua latina in un mondo di parlanti greco (cfr. Svet. Gram. 24). In effetti il latino fu principalmente la lingua della legge come attestano gli scolii di molti papiri giuridici che forniscono la traduzione del testo di legge dal latino al greco286. E’ nota, ad esempio, l’esistenza di specifici manuali per l’apprendimento del latino (Hermeneumata Pseudodositheana)287 e del resto vi furono anche autori madre-lingua greci, come Claudiano e Ammiano Marcellino, che scrissero in latino. I prestiti linguistici che penetrarono il greco riguardarono essenzialmente la sfera della vita pubblica288, in particolare l’amministrazione politica e militare, la vita sociale (commercio, artigianato etc.), vita privata (casa, cibo, vestiario etc.) non quindi l’ambito letterario e filosofico dove il greco continuò ad essere la lingua della cultura.

Date queste premesse, veniamo ora ad analizzare le forme latine presenti negli epigrammi di Pallada nel tentativo di fornire un inizio di risposta al problema se Pallada conoscesse o meno la lingua latina. Le forme in questione sono quattro: κονδῖτον (AP 9.502), δόμινε φράτερ (AP 10.44), κελλίον (11.351), φόλλις (9.528.). Si tratta in tutti e quattro i casi di termini non letterari e afferenti invece alla vita comune, tutti non attestati altrove in greco ad eccezione di κελλίον che, oltre a questo luogo palladiano, ricorre anche in un papiro del V-VI sec. d.C. (P.Amh. 2.152.16), ma soprattutto sono tutti e quattro traslitterazioni del corrispondente latino, secondo una modalità di penetrazione/osmosi linguistica ampiamente attestata289. Per quanto riguarda κονδῖτον, traslitterazione o calco del latino vinum conditum o pupatum, era una miscela di vino, miele e pepe efficace contro le malattie gastriche (Plin. Nat. Hist. 14.108): l’epigramma ha un significato ironico poiché il “condito”, l’amara medicina che Pallada è costretto a «digerire», è non solo un parola latina ma indica la lingua latina tout court ovvero quel

285 Cfr. HALL 2006:195. 286 MCNAMEE 1998:280-82. 287 ROCHETTE 2010:291. 288

ROCHETTE 2010:292, riportando i risultati di DACKEY 2003:che ha analizzato la frequenza di prestiti lessicali latini presenti nei papiri greci, nota come il quarto secolo fu il periodo in cui se ne contano di più.

289

Cfr. ROCHETTE 2010:291secondo cui la lingua latina penetrò quella greca essenzialmente attraverso

tre canali: per trascriptionem ovvero come nel caso di Pallada traslitterando in greco parole latine; per

traslationem ovvero creando calchi grechi dal latino; per comparationem ovvero semplicemente

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processo di latinizzazione del mondo greco che Pallada, come molti intellettuali greci del tempo (vd. Lib. Or. 1.234 cfr. CRIBIORE290), mal tollerava e contro cui cercava di opporsi291. Se questo è vero, possiamo collocare Pallada nella schiera di quegli elleni radicali contrari alla diffusione del latino nell’impero e all’affermazione di una cultura specialistica, opposta alla cultura generale (paideia), che si afferma parallelamente alla diffusione del latino nel IV sec. Per fare soltanto un esempio, GARZYA292 nota che

“mentre per il passato il requisito di base per l’ingresso nella pubblica amministrazione era stato la cultura classica, nel IV sec. si trovava più utile e più opportuna una qualificazione fondata sulla conoscenza del diritto e della lingua latina, discipline che si apprendevano di per sé alla svelta, unicamente a scopo utilitaristico, al di fuori di un contesto culturale generale”. Pallada è più vicino ad un Libanio e ad un Giuliano, per la loro intransigenza di elleni, piuttosto che ad un Temistio o ad un Sinesio, che tendono invece a cercare compromessi tra filosofia e retorica, cultura specialistica e paideia293. In questo epigramma, dunque, Pallada mostra di non avere una buona conoscenza del latino (cosa del resto normale per un greco del IV secolo non appartenente alla classe militare o giuridica), ma ciò era dovuto, soprattutto, al suo personale disprezzo per essa (cfr. 9.502.4 Ῥωμαικώτατος in rilievo metrico, gioco di parole su “Romanus”, romano di nome e di fatto cfr. BECKBY294) anche se è molto probabile che nelle scuole egizie del

IV secolo si leggessero anche tesi in lingua latina295 e quindi i grammatici avrebbero dovuto, almeno, saper leggere e capire la lingua latina. Per quanto riguarda l’espressione δόμινε φράτερ (AP 10.44) è chiaramente un calco del corrispondente latino, ma sottende anche in questo caso un significato ironico. Pallada lamenta implicitamente la propria povertà affermando che nessuno gli si rivolgerà mai con le parole “δόμινε φράτερ”, ma al massimo dirà semplicemente “φράτερ”, poiché Pallada è un uomo povero e quindi non potrà mai fare dono a nessuno di alcunché. In questo senso, è interessante notare il gioco di parole δόμινε/δόμεναι (v.4 οὐκ ἐθέλω “δόμινε”, οὐ γὰρ ἔχω δόμεναι) con cui il poeta crea l’effetto ironico. BACKWELL296nota come il vocativo κύριε, molto frequente nei papiri greci di età imperiale, possa essere una traduzione del latino domine, in questo senso Pallada avrebbe preferito traslitterare direttamente la parola latina piuttosto che tradurla, forse per creare l’effetto ironico di cui sopra. Quanto a κέλλιον e φόλλις sono anch’essi traslitterazioni greche rispettivamente delle parole latine cella, -ae (di cui κέλλιον è il diminutivo) e follis, -is;

290

CRIBIORE 2007:206-212.

291 Degno di nota, in questo senso, al v.2 l’aggettivo ἀλλότριος

292 G

ARZYA 1968: 301 sgg.

293

Nell’Or. 62.11 Libanio si scaglia contro Costanzo poiché ha favorito l’avanzata massiccia di schiere di notai, ὑπογραφεῖς,incolti e di bassa estrazione.

294

BECKBY 19672 III:802contra PONTANI III1980:705.

295

Conosciamo ad esempio un codice di pergamena del V-VI sec. contenente il frammento Antinoense, si tratta dei vv. 7.149-98 di Giovenale con commenti e glosse marginali in latino e greco e segni critici. Questo testo confermerebbe l’ipotesi che nelle scuole egizie si leggeva anche poesia latina, quindi i grammatici come Pallada dovevano almeno saper leggere e comprendere il latino.

296

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quest’ultima è una parola latina indicante originariamente una borsa e poi per metonimia il denaro in essa contenuto, il termine mantenne questo significato fino alla fine del IV secolo, mentre a partire dal V secolo d.C. indicò il “40-nummus piece bearing the mark of value M (=40). This remained the normal meaning of the word until the end of the 11th”297. Riferimenti al mondo latino si possono rinvenire anche in altri epigrammi quali AP 11.378.6 (Αὐσόνιος ovvero la legge “ausonia” che regolamentava il divorzio cfr. § 1.4) e AP 11.306.2 (Ἰταλία) così come di origine latina e appartenenti a personaggi romani appaiono i nomi Σέξστ-ιος (?) (Sextus, AP 10.99), Γέσσιος (Gessius,

AP 7.681-88, 16.317), Πατρίκιος (Patricius, AP 11.386), Παύλος (Paulus, AP 11.263).

E’ giunto il momento di tirare delle conclusioni. Prima di tutto le poche parole latine attestate nel corpus palladiano non sono in grado né di smentire né di dimostrare la conoscenza del latino da parte del poeta. Personalmente, non credo si possa raggiungere nessuna conclusione definitiva in merito. Se è vero che in AP 9.502 Pallada si mostra ostile alla diffusione del latino che definisce ἀλλότριος ovvero una lingua totalmente estranea al greco soprattutto a livello culturale e ciò porterebbe a supporre che Pallada non conoscesse il latino, anche per una presa di posizione volontaria, è molto probabile che nelle scuole egizie fossero letti anche testi letterari latini (cfr. supra), che quindi un γραμματικός avrebbe dovuto capire e spiegare. D’altra parte i rari termini latini usati da Pallada non appartengono assolutamente ad un lessico letterario o filosofico né, in