CAPITOLO II POETICA
2.3 Altre influenze e suggestioni letterarie
2.3.2 Citazioni bibliche
Un’altra tendenza importante del poetare palladiano è l’inserzione di citazioni, immagini, formulazioni e concetti collegabili, più o meno direttamente, alla tradizione biblica, vetero e neo- testamentaria. Non si deve mai trascurare il fatto che Pallada vive ad Alessandria probabilmente nel IV secolo, la città e il periodo in cui il sincretismo religioso raggiunse forse il punto più elevato, sia a livello qualitativo che in termini di diffusione demografica246. Pallada vive in un contesto in cui la cultura e tradizione pagana convive con quella giudaico-cristiana: Alessandria, infatti, accoglie una delle comunità ebraiche più importanti del tempo247. Inutile dire che in un ambiente di questo tipo, culturalmente ricco e vivace, la circolazione dei testi letterari, e in particolare di quelli biblici, fu intensa e Pallada ebbe modo sicuramente di leggerli. Conferma di ciò è la presenza di alcune citazioni letterali o comunque di allusioni più o meno esplicite a precisi passi sia vetero che neo- testamentari presenti almeno nel gruppo di epigrammi che è stato esaminato, ma presumibilmente ricavabili da tutto il corpus palladiano.
Indiscutibile, ad esempio, è l’ascendenza biblica di Pall. AP 10.58 (come già è stato notato in precedenza vd. supra e ad loc.). Benché l’immagine della vita come venuta sulla terra e della morte come ritorno ad essa sia topica e attestata in numerose tradizioni culturali (cfr. luoghi citati ad loc.), ritengo che il riferimento alla tradizione giudaico-cristiana (cfr. e.g. Sap. 15.8, Job. 10.9) e in particolare a due specifici passi
Job. 21 ed Eccles. 5.14, sia evidente. La dipendenza di 10.58 dal passo di Giobbe,
invece, è stata messa in dubbio da alcuni studiosi in virtù del carattere gnomico dell’espressione248. Se non si può escludere, ad esempio, quanto afferma RODIGHIERO249
ovvero che “frasi gnomiche di questo tipo possono godere di una loro diffusione anche al di fuori dell’ambito in cui sono state prodotte, assumendo valore ‘sovra-culturale’ di sentenza, e la fisionomia di un simile testo è accomunabile a un’intera famiglia di
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Se nella sua terra di origine (Fenicia e Siria) il Cristianesimo era ormai nel IV secolo d.C. la religione dominante, ad Alessandria, accanto al giudaismo e a numerosi gruppi cristiani, continuarono ad essere presenti i culti pagani, questo generò la convivenza di diverse fedi religiose nella città. Dei 2500 templi presenti ad Alessandria conosciamo il nome soltanto di pochi, tra questi emerge soprattutto il tempio di Serapide a Rakotis il cui culto, che ebbe una grandissima diffusione nei primi secoli di età imperiale, rappresenta una delle tante modalità in cui si espresse il sincretismo religioso alessandrino, poiché Serapide (così come Mitra) fu concepita come una divinità salvifica e taumaturgica in corrispondenza con la dottrina cristiana della salvezza.
247 E’ interessante notare che in un epigramma (AP 11.383.4) Pallada introduce il termine ἀλαβαρχείη,
una parola di origine ebraica indicante un funzionario sovraintendente alla dogana che raccoglieva le tasse per gli ebrei di Alessandria (vd. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, 18. 159).
248
Cfr. ZERWES 1956:111,STELLA 1949:353.
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espressioni dall’analogo profilo”, ciò non esclude, o meglio, non necessariamente esclude, il rimando a Giobbe, almeno a livello stilistico-formale, anche se a mio avviso si può dire molto di più. Credo che su 10.58 agiscano principalmente e contemporaneamente più influenze letterarie, risalenti perfino alla tradizione pagana sia greca che latina (vd. ad loc.), ma soprattutto Giobbe 21 ed Ecclesiaste 5.14 a partire dai quali il poeta ha costruito il distico 10.58 come una sorta di centone: il primo verso, infatti, dipende chiaramente da Giobbe non solo per l’anafora di γυμνός, ma anche per la corrispondenza nei due emistichi di entrambi i testi dell’immagine vita/morte (vd. γῆς ἐπέβην γυμνός/ αὐτὸς γυμνὸς ἐξῆλθον ἐκ κοιλίας μητρός μου come γυμνός θ’ὑπὸ γαῖαν ἄπειμι/ γυμνὸς καὶ ἀπελεύσομαι ἐκεῖ cfr. ad loc.); nel secondo verso, invece, come già aveva sottolineato FOGAZZA250, la domanda τί μάτην μοχθῶ; riprende senza dubbio il
nesso ἐν μόχθῳ αὐτοῦ di Eccl. 5.14 per la visione disperata che caratterizza i due passi. L’epigramma 10.58, dunque, non presuppone indipendentemente Job 21 ed Eccles. 5.14 come si è creduto fino ad ora251, ma la compresenza di entrambi testi che il poeta ha unito in un unico distico. In pratica Pallada ha operato nel modo seguente: ha seguito il modello di Giobbe fin dove ha potuto ovvero nell’affermare che l’uomo nasce e muore nudo, fragile ed inerme, ma nel momento in cui emerge la fiducia, tipicamente ebraica, nella bontà dell’operato di Dio (cfr. v.2 ὁ κύριος ἔδωκεν, ὁ κύριος ἀφείλατο·/ ὡς τῷ κυρίῳ ἔδοξεν, οὕτως καὶ ἐγένετο·) Pallada si distacca da Giobbe e sceglie di seguire un altro modello, derivatogli anche questa volta dalla tradizione biblica, ovvero Eccles. 5.14 dove l’insistenza sulla vanità di ogni fatica e sofferenza umana “rivela totale identità concettuale con l’epigramma di Pallada”252. E’ importante sottolineare il fatto che la visione disincantata propria del libro di Ecclesiaste è assimilabile a numerose espressioni della dottrina epicurea, stoica e scettica253 da cui Pallada risulta fortemente influenzato; ciò non fa che confermare il dato della compresenza di fonti filosofiche e letterarie anche molto lontane come tradizione e spirito che agiscono contemporaneamente sul dettato poetico di Pallada determinandone il carattere fortemente eterogeneo e magmatico (cfr. cap. III).
Sarebbe sufficiente, credo, l’epigramma discusso sopra per fugare qualsiasi dubbio circa la dipendenza o almeno la conoscenza palladiana dei testi vetero-testamentari. Ad eccezione del contributo, ormai datato, di FOGAZZA254 che è stata l’unica ad avere
affrontato direttamente la questione, giungendo per altro a conclusioni positive, il problema o è passato sotto silenzio oppure si è giunti alla conclusione che tale rapporto è poco probabile255. A mio avviso, invece, Pallada aveva letto e usato i testi vetero- testamentari come dimostrano, almeno, il passo citato sopra ed un altro su cui vale la
250
FOGAZZA 1980:319.
251
Cfr. ZERWES 1956:111,FOGAZZA 1980:317-319, ma già TARASCONI 1879:121n. 158.
252 FOGAZZA 1980:319. 253 Cfr. FOGAZZA 1980:319,n.5. 254 FOGAZZA 1980:317-319. 255
Cfr. ZERWES 1956:111contra RODIGHIERO 2003/4:72n.18 che ritiene non sicura, invece, la lettura
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pena soffermarsi. Negli epigrammi 10.45 e 11.349 il poeta propone l’immagine del fango come origine (10.45.5) e consistenza (11.349.5) della natura umana, rifacendosi ad una tradizione molto antica radicata sia nella cultura greca (basti pensare al mito di Prometeo vd. ad loc.) che in quella giudaico-cristiana. In generale nell’Antico
Testamento si afferma l’idea che l’uomo derivi dalla terra (Job. 34.15 etc. vd. ad loc.):
in Genesi ad esempio Dio plasma Adamo dalla terra (Gen. 2.7) e lo ammonisce che tornerà alla terra da cui è nato (Gen. 3.19). Benché questo stretto legame dell’uomo con la terra fosse un’idea circolante, attestata ad esempio anche in Teognide (vd. 878) e in generale nella letteratura arcaica greca (vd. Hes. Theog. 879 etc. cfr. ad loc.), credo che sulla memoria di Pallada abbia avuto una certa influenza anche la tradizione biblica. Del resto, perché ciò non dovrebbe essere supposto visto che ad Alessandria la circolazione di questi testi doveva essere piuttosto estesa.
Non meno problematica è la questione se Pallada conoscesse o meno i testi del
Nuovo Testamento: se indiscutibile, infatti, è la sua “familiarità con alcuni diffusi cliché
dell’apologetica”256 e della letteratura cristiana, come hanno dimostrato sia CAMERON257
che LUCK258, l’ipotesi di un rapporto diretto con i testi evangelici o con le lettere paoline
non è mai stata dimostrata e in verità neppure studiata. Non è mia intenzione affrontare in questa sede una questione così importante e difficile, mi limiterò quindi a presentare alcuni raffronti lessicali e concettuali emersi direttamente dal commentario che, a mio avviso, porterebbero a confermare l’ipotesi suddetta.
Per quanto riguarda l’analogia con specifici nessi si deve citare l’epigramma 9.394 dove l’apostrofe all’oro definito φροντίδος υἱέ richiama formalmente espressioni bibliche quali ὁ υἱὸς τῆς ἀπωλείας (II Thess. 2.3.4) e concettualmente l’idea che il figlio sia caratterizzato da una qualità personificata nel padre come in ev. Luc. 10.6 υἱὸς εἰρήνης. D’altra parte in Men. Dysc. 88 è presente il nesso Ὀδύνης (...) ὑὸς che è stato considerato una possibile fonte per il nesso palladiano, anche se PADUANO259e GOMME- SANDBACH260 non ne sono molto convinti (vd. ad loc. per una spiegazione dettagliata della questione); molto plausibile appare l’ipotesi di BARBIERI261 secondo cui il nesso
palladiano φροντίδος υἱέ in riferimento all’oro sarebbe derivato dalla fusione di Men.
Dysc. 88 e le formule del Nuovo Testamento citate; in altre parole Pallada avrebbe
“rivestito” il testo di partenza, Menandro, con un linguaggio appartenente ad una specifica tradizione letteraria, quella cristiana. Ancora, in 9.441.6 Pallada crea un’altra situazione ironica mettendo in bocca alla statua di Eracle, stesa a terra per l’opera devastatrice dei cristiani, l’espressione cristiana καιρῷ δουλεύειν presente anche in ep.
256 RODIGHIERO 2003/4:72. 257 CAMERON 1965B. 258 LUCK 1958. 259 PADUANO 2009:60,n. 88. 260 GOMME-SANDBACH 1973:148. 261 BARBIERI 2002/3:118.
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Rom. 12.11 καιρῷ δουλεύοντες che è simmetrica in quel contesto, secondo LUCK262, a τῇ ἐλπίδι χαίροντες (il primo participio si riferisce alla situazione presente mentre il secondo al futuro); anche BOWRA263 ammette l’ipotesi di un possibile rapporto con il
passo dell’Epistola ai Romani ma ne riconosce nello stesso tempo la difficoltà a causa della tradizione manoscritta, poiché καιρῷè varia lectio nei manoscritti accanto a κυρίῳ Nonostante le difficoltà della tradizione manoscritta, è comunque importante rilevare la vicinanza dei due passi anche perché Pallada avrebbe creato un’altra situazione volutamente «ridicola» rappresentando Eracle, dio pagano e soccorritore per eccellenza, che si lamenta con le stesse parole dei discepoli di Cristo, quindi estrapolate da un contesto che è la causa stessa della penosa fine del dio. Fra i numerosi luoghi menzionati e commentati da CAMERON264 in quell’importante contributo in cui cerca di dimostrare come il rapporto di Pallada con la cultura cristiana sussista e sia essenzialmente di aperta polemica, lo studioso cita, fra gli altri, anche l’epigramma 10.85, il distico in cui il pessimismo palladiano raggiunge forse l’espressione più acuta: Pallada paragona la stirpe umana ad una mandria di maiali che sono tenuti in vita solo per essere macellati a caso. Secondo lo studioso al v.2 ὡς ἀγέλη χοίρων σφαζομένων ἀλόγως l’immagine dei maiali avrebbe un’origine cristiana (ev. Mc. 5.11, Mt. 8.30, Luc. 8.32 ἀγέλη χοίρων μεγάλη βοσκομένη·) ovvero l’episodio evangelico in cui Gesù a Geresa ordina ai demóni di entrare nella mandria di porci. Ritengo molto interessante l’ipotesi di CAMERON265anche se quest’ultimo, dopo aver rilevato l’analogia fra i due
passi, subito si mostra egli stesso molto incerto.
In questa parte introduttiva mi sono limitata a riportare solo alcuni passi a mio avviso significativi, ulteriori ragguagli potranno essere ricavati direttamente dal commento e dai già citati contributi di LUCK266,CAMERON267,FOGAZZA268.