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CAPITOLO III FIILOSOFIA

3.2. Elementi filosofici

3.2.1 Epicureismo

L’esempio forse più chiaro della tendenza all’assimilazione è AP 10.45 (cfr. ad loc.). Il senso profondo dell’epigramma è una tirata polemica nei riguardi del platonismo che ha infuso nell’uomo un’illusoria speranza di eternità (vv.3-4). La polemica antiplatonica rappresenta soltanto un espediente per poter dare libero sfogo alle proprie reali sicurezze: Pallada demolisce la teoria platonica dell’immortalità dell’anima e riconduce il processo vitale ad un puro meccanismo materialistico che esclude radicalmente la dimensione ultraterrena ed una sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Nell’ultimo distico, poi, il processo della nascita viene ridotto alla materialità dell’atto sessuale senza alcuna partecipazione divina. Inutile dire che il sostrato filosofico di 10.45 è palesemente epicureo, in particolare l’idea che anche l’anima abbia una consistenza materiale ed un’essenza corporea319. Su questo impianto epicureo si innestano però dichiarazioni riconducibili ad altre dottrine che il poeta inserisce per corroborare la propria idea materialista. In primo luogo la menzione del τῦφος (v.3), un termine accuratamente selezionato poiché non solo consente il gioco di parole con φυτόν (v.4), ma soprattutto costituisce un termine tecnico del cinismo per indicare l’illusorietà e l’inconsistenza della speculazione filosofica. L’idea è stata proposta per la prima volta da HENDERSON320secondo il quale “it therefore seems very likely that Palladas has here

incorporated Cynic doctrine into his critique of Plato”321. Pallada si serve dunque di un lessico proprio della filosofia cinica nel sostenere però una tesi epicurea; è vero che anche i cinici credevano nella mortalità dell’anima, ma questo principio occupava una

318

Cfr. ATTISANI-BONANNO 1958:133

319

Il materialismo epicureo cui Pallada mostra di uniformarsi si fonda chiaramente sulla teoria atomistica

di Democrito (cfr. e.g. Arist. De anim. A2.404a27 ἐκεῖνος (sc. Democritus) μὲν γὰρ ἀπλῶς ταὐτόν ψυχήν

καὶ νοῦν) per cui l’anima è considerata mortale come tutti gli altri enti in virtù della sua struttura atomica.

320

Cfr. HENDERSON 2011:121.

321

Sesto Empirico (adv. Math. 8.5-6) riporta il pensiero di Monimo il cinico per il quale, al contrario di Platone, l’uguaglianza τῦφον τὰ πάντα è vera: Μόνιμος ὁ κύων, τῦφον εἰπὼν τὰ πάντα, ὅπερ οἴησις ἐστι τῶν οὐκ ὄντων ὡς ὄντων.

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posizione marginale nella loro speculazione filosofica rispetto all’importanza che invece aveva nell’epicureismo. Lo stesso procedimento è applicabile al nesso φυτὸν οὐράνιον che non solo richiama il noto passo di Timeo 90a, ma possiede un sostrato culturale pienamente platonico: ricorre infatti in due orazioni di Temistio322 (or. 13 e 27) di cui è noto non solo l’“eclettismo platonico-aristotelico323” ma anche la propensione alla citazione diretta di Platone324, nel neoplatonico Sinesio (Provid. 1.10.61) e nel neoplatonico e cristiano Gregorio di Nazianzo (carm. de se ipso 1369.3-4 = carm. 2.1.45.221-222). Pallada ha applicato dunque un procedimento analogo ovvero l’utilizzo di espressioni platoniche in un contesto epicureo. Chiaramente in questo caso la citazione dovrà essere interpretata anche come volontà di chiamare in causa il bersaglio dell’accusa, ma comunque non è trascurabile la presenza di un lessico platonico in un testo dichiaratamente antiplatonico. Ma l’espressione che forse, più di ogni altra, denota la capacità palladiana di fondere tendenze culturali differenti su un impianto sostanzialmente unico, in questo caso epicureo, è l’idea che la razza umana sia stata plasmata con acqua e terra o con acqua e fango (cfr. v.5 ἐκ πηλοῦ γέγονας). Per una trattazione generale del tema si veda il commento ad loc., nel ragionamento che stiamo portando avanti è sufficiente rilevare la compresenza della tradizione pagana e giudaico-cristiana. Dovendo riflettere sull’antropogonia arcaica il primo pensiero va senz’altro a Prometeo la cui opera plasmatrice dell’uomo è tema topico (cfr. e.g. Call. fr.192.3 Pfeiffer ὁ πηλὸς Προμήθειος) o alla nascita di Pandora dal fango (Hes. Op. 61- 82), ma anche alla Genesi in cui Dio plasma Adamo dal fango (Gen. 2.7) o lo ammonisce che tornerà alla terra da cui è nato (Gen. 3.19). Un dato interessante, a mio avviso, è la compresenza nel medesimo testo di nozioni che smentiscono la teoria platonica affermando invece una posizione affine a quella epicurea e nello stesso tempo alludono ad immagini che, almeno per affinità culturale, rimandano alla tradizione giudaico-cristiana, una tradizione sostanzialmente più vicina all’idealismo platonico che al materialismo epicureo. L’“impasto” terminologico creato da Pallada non implica una presa di posizione del poeta a favore delle dottrine cui si fa riferimento, in altre parole Pallada conferma il proprio epicureismo in 10.45, ma cita altre fonti letterarie e filosofiche perfino opposte all’epicureismo, poiché ne subisce il fascino lessicale da un lato e dall'altro per creare una commistione di tradizioni diverse. Tornando alle allusioni veterotestamentarie di 10.45, si deve notare che in Gen. 2.7 Dio plasma il corpo dell’uomo dalla terra ma con un soffio gli infonde l’anima e ancora più chiaramente in

Eccl. 12.7 si dice che la terra tornerà alla terra da dove è venuta ma il soffio dello spirito

si ricongiungerà con Dio. Pallada omette questa parte in cui emerge la fede ebraico- cristiana nell’immortalità dell’anima assimilabile al dettato platonico e in particolare a

Tim.90a. Chiaramente si tratta di un’omissione volontaria, poiché inconciliabile con la

322

Vd. commento ad AP 10.45 e § 1.2 in riferimento a Pall. AP 11.292.

323

Cfr. MAISANO 1994:419.

324

Sulla presenza del platonismo nell’opera di Temistio vd. MAISANO 1994:415-429, MAISANO 1986:29-

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teoria palladiana in cui tutto viene ridotto a un semplice meccanismo biologico. Si potrebbe andare oltre nella ricerca delle influenze filosofiche operanti nell’epigramma e percepibili almeno a livello di scelte lessicali, ad esempio il profondo sostrato di filosofia popolare di livello basso e di stampo cinico che attraversa l’intero epigramma, a tale questione sarà dedicata a breve un’apposita trattazione ed è per questo che, per adesso, è preferibile lasciare in sospeso il problema.

Principalmente epicurea, ma non soltanto, è la triade degli epigrammi **9.500, 10.59 e *11.282 dove si affronta una tematica molto cara all’epicureismo, forse uno dei capisaldi di questa dottrina, la necessità di non temere la morte. Senza dubbio epicurea è l’idea che la morte, annullando le capacità sensoriali dell’uomo, lo liberi da ogni forma di sofferenza: la nota sentenza (ratae sent. 2) ὁ θάνατος οὐδὲν πρὸς ἡμᾶς· τὸ γὰρ διαλυθὲν ἀναισθητεῖ, τὸ δ’ἀναισθητοῦν οὐδὲν πρὸς ἡμᾶς viene riverberata in 10.59.4 οὐδὲν γὰρ θανάτου δεύτερόν ἐστι πάθος. Benché Pallada s’ispiri principalmente all’epicureismo, si deve comunque riconoscere che il tema era attestato anche in altre dottrine, in primo luogo nel cinismo (cfr. Diog. Diss. 1.24.6), nel pitagorismo (Epicharm. fr. 11 23B11 D-K) e soprattutto nello stoicismo dove si afferma l’idea che nell’uomo la paura della morte sia determinata dai δόγματα assolutamente infondati che formuliamo sopra di essa (cfr. Epict. Ench. 5, Sen. ep. 30.17). Anche questo concetto viene riproposto da Pallada in 10.59 e *11.282 dove il nesso προσδοκίη θανάτου, presente in entrambi gli epigrammi, identifica la vera condizione di dolore: non la morte, ma la sua attesa è causa di sofferenza per gli uomini. Questi epigrammi, dunque, nonostante il riferimento chiaro ad Epicuro, ripropongono una tematica che riflette un modo di pensare comune e non esclusivamente epicureo. Ancora, il loro tono è molto triste, quasi rassegnato, si percepisce una scollatura tra l’annuncio ottimistico che la morte sarà una forma di serena liberazione e la permanenza in uno stato d’animo infelice: ribadisco quanto affermato sopra, Pallada è consapevole che nessuna filosofia potrà liberarlo e tale consapevolezza si riflette nell’angoscia che pervade i suoi scritti, anche quelli in cui il poeta si sforza di dichiarare, quasi volesse autoconvincersene, che molte delle paure umane sono in realtà infondate. Da Epicuro Pallada deriva la dottrina ma non lo slancio eudemonistico né tantomeno l’ottimismo, come dimostrano anche questi epigrammi in cui il poeta invita semplicemente a non piangere i defunti, senza spendere però nessuna parola sulla necessità e possibilità di godere della vita terrena. Conferma di ciò è anche l’assenza dell’esortazione al carpe diem in quegli epigrammi dove si lamenta la rapidità dello scorrere del tempo (cfr. 10.81 ad loc.) e l’elaborazione di tale invito, molto formale e poco spontanea, negli epigrammi simposiali che nel tono, tuttavia, risultano talmente stereotipati da costituire un semplice tributo palladiano alla tradizione epigrammatica piuttosto che esprimere un ideale in cui il poeta crede e che si sente portato a seguire (cfr. *5.72 ad loc.). Il tema del tempo, poi, è sempre affrontato nella prospettiva della transitorietà delle azioni umane: il poeta indugia su questo particolare e non sul fatto che l’uomo possa riscattarsi ad esempio godendo al meglio

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del poco tempo che ci è concesso. In **9.499 (cfr. ad loc.) Pallada propone il topos dell’onnipotenza del tempo che passando inesorabile oscura tutte le realtà esistenti pur restando impercettibile (μὴ φαινόμενος); anche in questo caso non solo non c’è traccia dell’invito al carpe diem, ma l’epigramma si chiude con accenti assolutamente negativi e pessimistici che non lasciano trapelare la benché minima possibilità di redenzione per l’uomo.

Un altro tema frequente nel corpus degli epigrammi gnomici e filosofici e attestato nell’epicureismo è quello del silenzio. Anche in questo caso Pallada utilizza il solito procedimento di fondere insieme tutte le tradizioni filosofiche in cui tale problema viene affrontato. L’epigramma 10.46 è un chiaro esempio di sincretismo filosofico: il poeta menziona esplicitamente il nome di Pitagora la cui pratica ascetica del silenzio era nota universalmente, ma definisce il silenzio φάρμακον ἡσυχίης ἐγχρατές (10.46.4), un nesso che allude a filosofie affini ma non uguali. La ἡσυχία rappresenta la virtù più alta cui l’epicureo, ma anche lo stoico, possano aspirare, e viene ottenuta attraverso l’esercizio pitagorico del silenzio, non estraneo all’epicureismo e allo stoicismo ma non esclusivo di queste dottrine. Allo stesso modo l’aggettivo ἐγκρατές rimanda all’ἐγκράτεια, autocontrollo e moderazione, che costituisce per la scuola pitagorica la condizione per una vita felice. L’esaltazione del silenzio torna anche in 10.98 dove viene presentato come la forma di sapienza dell’ignorante (vd. ad loc.) e soprattutto in **15.20, altro esempio di commistione filosofica sia concettuale che lessicale. Il poeta presenta il silenzio come condizione per chi ricerchi il distacco dalle preoccupazioni in una dimensione di vita appartata; il pensiero va sicuramente ad Epicuro cui si allude esplicitamente con la citazione in forma rielaborata della gnome λάθε βιώσας: λαθὼν δὲ καὶ βίωσον, εἰ δὲ μή, θανών. Aggiungendo il participio θανών Pallada esprime la propria adesione anche al dettame stoico del cotidie mori quasi che per il poeta fossero due le vie praticabili per una vita felice: quella epicurea del vivere nell’anonimato e lontano dalle preoccupazioni e quella stoica del percepire ogni giorno come un rapido avvicinamento alla morte. Pallada lascia aperte le due possibilità, alla seconda in particolare fa riferimento anche in 11.300.2 σίγα καὶ μελέτα ζῶν ἔτι τὸν θάνατον. Oltre alla suggestione epicurea e stoica, su questo epigramma agisce anche la memoria pitagorica almeno nella forma di quel rinnovato pitagorismo proposto da Apollonio di Tiana che, secondo Filostrato (cfr. 8.28) avrebbe pronunciato queste parole: πάντα τὸν χρόνον, ὃν ἐβίω, λέγεται θαμὰ ἐμισφέγγεσθαι∙ «λάθε βιώσας∙ εἰ δὲ μὴ δύναιο, λάθε ἀποβιώσας» cui Pallada chiaramente fa riferimento.