• Non ci sono risultati.

1.2 DUE LINEE PARALLELE O PERPENDICOLARI?

1.2.2 Antropologia

Uno dei capi saldi del paradigma relazionale è rinvenibile dall’attenzione posta nella relazione tra l’essere umano e la società, da cui emerge esplicitamente la riabilitazione del soggetto umano, quale fonte normativa della relazione fondante il sociale. La dimensione dell’umano, precedentemente espunta dalle teorie della tarda modernità, ritrova la sua centralità nel concetto di persona. L’interpretazione offerta da Bellardinelli [2005] sugli aspetti antropologici del pensiero relazionale, evidenzia una netta presa di distanza per un verso, da quelle forme di antropologia deboli o relativistiche che ignorano ogni domanda di senso sull’umano; per l’altro, dalle dichiarazioni di morte dell’uomo9

. La teoria relazionale assume esplicitamente un’antropologia di stampo aristotelico-tomista che, declinata in chiave relazionale, può essere così sintetizzata: «la vita umana è relazione»; essa trae il suo significato dalla «relazione vitale»10, nella quale è rinvenibile la commistione tra immanenza e trascendenza, quale carattere distintivo dell’umano e allo stesso tempo indefettibile «enigma della relazione» [Donati 2015].

«Nella filosofia aristotelica […] si assume che l’uomo sia animale politico per natura, cioè che non possa realizzarsi se non nelle relazioni con gli altri (e invero nel bene comune della città), ma le modalità relazionali sono viste come derivate dalla sua natura sostanziale […] Il fatto è che Aristotele non possiede la nozione di effetto emergente e quindi non può chiarire la natura della relazione. […] È a cavallo fra il XII e il XIII secolo, nel quadro di quel complesso mutamento sociale che segna gli albori dell’epoca moderna, che inizia a svilupparsi una dottrina delle relazioni, specialmente per opera di Tommaso d’Aquino e Duns Scoto» [Donati, 2013, 53-54].

Nell’Introduzione alla sociologia relazionale, Donati raffronta tre modelli antropologici distinti. Il primo, in linea con le posizioni materialiste, interpreta l’uomo come un essere animale determinato completamente dalla riproduzione bio-sociale, che non contempla alcuna possibilità di trascendimento dei rapporti sociali dati. Il secondo, direttamente correlato al liberalismo radicale, riconosce

9 Girard 10

Con il termine relazione vitale l’Autore intende quelle relazioni in grado di sopportare la trascendenza-trascendente insita nelle relazioni che legano ogni soggetto al contesto e allo stesso tempo lo riportano nella propria vita. «La relazione vitale è quella che dà la vita perché genera dei beni relazionali, diversamente da quelle relazioni che generano dei mali relazionali. Generare dei beni relazionali presuppone una riflessività che porta la vita sociale a interrogarsi sui suoi presupposti trascendenti. La relazione vitale di cui si parla è allo stesso tempo immanente e trascendente, ma ovviamente non nello stesso tempo e nello stesso modo. Immanenza e trascendenza si intrecciano nella relazione vitale in modi che sono tuttora misteriosi e che attendono qualche luce in più per essere compresi» [Donati 2015, 65].

35

nell’essere umano la capacità soggettiva di trascendere il dato, pur rimanendo imprigionato da energie e impulsi privi di alcun centro di identità o finalità determinate. Infine, l’antropologia filosofica di stampo aristotelico tomista che intende l’uomo come «un essere condizionato ma capace di trascendere le relazioni sociali date, attraverso un principio attivo (spirituale) che ne costituisce l’identità entro il comune genere di animale politico» [Donati 2003, 107]. Donati motiva l’estraneità dell’approccio relazionale rispetto ai primi due orientamenti antropologici in quanto: il primo non riesce a rendere conto né dell’intenzionalità propria dell’attore sociale, né tanto meno della trascendenza spirituale individuale; il secondo, invece, pur affermando la trascendenza umana la relega ai ranghi dell’irrazionalità. L’approccio relazionale si pone quindi in continuità rispetto al terzo modello antropologico, riconosciuto come l’unico in linea con il «realismo critico»11 assunto dalla teoria; esso «rende conto dello specifico umano in quanto diverso e superiore rispetto all’essere puramente animale, pur avendo tutti i condizionamenti che sono insiti anche negli altri esseri viventi non razionali e non politici» [Donati 2003, 107]. L’individuo, al centro della teoria relazionale, è quindi un essere sociale e naturalmente razionale (dotato di logos) che eccede il materiale meramente biologico. È propriamente a partire da questa connotazione dell’umano che lo sguardo del sociologo interpreta e legge le relazioni sociali: «l’uomo, in quanto persona, è l’essere in relazione per eccellenza e, in quanto tale, animale sociale» [Terenzi 2012, 93].

A differenza della teoria relazionale, la teoria delle rappresentazioni elaborata da Moscovici non riconosce esplicitamente alcun debito rispetto ad una particolare visione dell’umano. Ciò nonostante, anch’essa, offrendo in definitiva una specifica weltanschauung, è portatrice di un implicito orientamento antropologico. Un primo segnale, che consente di delimitare i caratteri dell’umano presupposti dalla teoria, proviene da quelle visioni teoriche contestate radicalmente in virtù del paradigma antropologico proposto. Sia il comportamentismo (behaviorismo) che le teorie critiche del novecento vengono

11 Il realismo critico relazionale compare dalla prima formulazione della sociologia relazionale

come un orientamento sia epistemologico che ontologico. Esso viene inteso da un lato, come un atteggiamento conoscitivo rispetto alla realtà esterna assunta come esistente indipendentemente dal pensiero ma allo stesso tempo intelligibile; dall’altro, attribuisce alla relazione sociale una realtà sui generis senza reificarla. Quest’ultima assunzione incide sull’idea di un’ontologia del sociale che, per un verso, dipende dall’azione ed emerge dalle interazioni con proprietà peculiari irriducibili agli individui o alle forze che la mettono in atto.

36

rigettate da Moscovici per avere concettualizzato un modello di uomo passivamente ricettore di idee provenienti dell’esterno o incapace di un pensiero autonomo rispetto all’ideologia dominante. Da questa presa di distanza, emerge con chiarezza quello che può essere individuato come il primo carattere antropologico delineato dalla teoria delle rappresentazioni: la razionalità. L’uomo, sul quale Moscovici pone la sua attenzione, prima ancora di essere un attore sociale, è un soggetto pensante, in questo senso la sua antropologia si discosta nettamente dal behaviorismo

«Lo studio delle rappresentazioni sociali prende in considerazione l’uomo per quanto egli tenta di conoscere e comprendere le cose che lo circondano e si sforza di risolvere gli enigmi banali della sua nascita, della sua esistenza corporea, delle sue umiliazioni, del cielo sopra di lui, degli umori dei suoi vicini e dei poteri che lo dominano: enigmi che lo occupano e lo preoccupano fin dalla culla, e di cui egli non smette mai di parlare» [Moscovici 1984, 35].

Tuttavia, la ragione, posta tra i caratteri costitutivi del soggetto, non è assimilabile a quella avanzata sempre in opposizione al comportamentismo dal cognitivismo riduzionista basato sulla metafora dello Human Information Process (HIP). Quest’ultima, infatti, capovolgendo completamente la prospettiva antropologica comportamentista, pone l’accento su un modello di pura ragione computazionale ed irrelata rispetto al contesto relazionale e sociale. Si comprende dunque come la razionalità proposta da Moscovici richieda ulteriori specificazioni. La componente razionale infatti non è compresa come una facoltà a sé stante, ma come il correlato della socievolezza umana.

«Un tempo si credeva che questa facoltà fosse stimolata anzitutto dal contatto con il mondo esterno. Ma siamo giunti a renderci sempre più conto che essa, effettivamente, deriva dalla comunicazione sociale. Recenti studi condotti su bambini molto piccoli, hanno mostrato che le origini e lo sviluppo del pensiero e dell’immaginazione dipendono dai rapporti sociali; come se un bambino venisse al mondo già equipaggiato per instaurare relazioni con gli altri; con sua madre, suo padre e con tutti coloro che hanno aspettative di questo tipo e che si preoccupano di lui» [Moscovici 1984, 36].

L’attributo fondamentale della socialità umana è ulteriormente deducibile dall’interpretazione del rapporto tra individuo e società proposto dalla teoria delle rappresentazioni. In controtendenza rispetto alle prospettive individualistiche o solipsistiche che intendono l’uomo come un essere impermeabile rispetto agli

37

influssi sociali, Moscovici, nel definire i connotati della società, mostra chiaramente l’identità sociale del soggetto:

«La società è una rete di relazioni costantemente ricercate da individui attivi, mutualmente legati, che comunicano tra loro, generando così rappresentazioni condivise al fine di preservare una vita ed una realtà quotidiana comune ed è chiaro, una cornice istituzionale che rimane sempre problematica» [Moscovici 1992, 140].

La visione antropologica che permea la teoria delle rappresentazioni sociali appare quindi definita dalle dimensioni della razionalità e della relazionalità, tra loro strettamente correlate, nonché coessenziali nel loro reciproco rimando. La lettura delle immagini di uomo proposte dalla teoria relazionale e delle rappresentazioni sociali non lascia dubbi circa la perfetta coincidenza degli aspetti essenziali all’essere umano. Entrambi gli approcci vedono l’uomo come un essere naturalmente socievole e razionale; dove la socialità è insieme espressa dall’essere relazionale ed espressione della ragionevolezza. In accordo con una visione strettamente filosofica di uomo, che trova in Tommaso uno dei suoi massimi esponenti. Il laquinate osserva che l’uomo, tra gli animali, è naturalmente il meno dotato degli strumenti corporei necessari per ottenere ciò di cui la sua esistenza ha elementarmente bisogno. A livello istintuale egli non potrebbe provvedere al proprio sostentamento, tuttavia, la facoltà intellettiva consente di controbilanciare tale carenza. Allo stesso modo, non potrebbe vivere isolatamente in virtù dei bisgoni primari come l’alimentazione e la cura. Le conoscenze funzionali al sostentamento dell’uomo acquisite nel tempo da individui diversi devono potere essere comunicate e trasmesse. Di qui, la prima naturale esigenza di vivere in società e di sviluppare un processo di apprendimento razionale. L’insufficienza originaria dei mezzi, dunque, trova il suo completamento nella conoscenza razionale, non astrattamente intesa, ma sviluppata nella sua relazionalità attraverso la comunicazione con l’altro. È in questo senso che Tommaso, nel Commento al I libro della Politica aristotelica, identifica nella locutio umana il principio e l’origine del sociale. Con questa breve digressione filosofico-tomista si è cercato da un lato, di esplicitare più compiutamente i presupposti antropologici insita ai due approcci sociologici; dall’altro, di aprire il varco a una riflessione sull’aspetto dialogico e comunicativo che tale impostazione contiene a partire dalle sue premesse. Il riferimento all'argomento linguistico non solo consente di superare il

38

procedimento deduttivo che parte dall'ontologia della persona, ponendo al centro dell’argomentazione l’evidenza empirica dell'operazione linguistica, ma stabilisce altresì una categoria ulteriormente analizzabile nel rapporto tra teoria relazionale e teoria delle rappresentazioni.