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Nascita della Comunità europea

2.2 EVOLUZIONE STORICA DELL’UNIONE EUROPEA

2.2.1 Nascita della Comunità europea

La costruzione della Comunità europea avviene nel solco di due grandi fenomeni storici che realizzano ad un tempo il contesto e la causa del suo sviluppo: il superamento della politica di Versailles e la contrapposizione Est-Ovest. Da un lato, lo scoppio della Seconda guerra mondiale ha posto in essere la necessità di adottare politiche differenti rispetto a quelle sostenute sul finire del primo conflitto. Dall’altro, la guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica si è giocata in gran parte sugli equilibri geopolitici del vecchio continente contribuendo all’affermarsi di un’unione più forte tra i popoli e gli stati europei.

Verranno qui brevemente analizzati i due eventi che hanno dato avvio al processo di integrazione europea, evidenziando le implicazioni che questi hanno avuto nella formazione e definizione della sua struttura e delle sue funzioni.

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2.2.1.1 Il superamento del Trattato di pace di Versailles

Una tra le principali premesse storiche che ha contribuito al riorientamento degli equilibri nei rapporti tra gli Stati europei sul finire del secondo conflitto, può essere identificata nella presa d’atto del fallimento della politica di Versailles [Renouvin 1970]. La conferenza di pace di Parigi, che ha preso avvio il 18 gennaio 1919, ha segnato un inizio poco favorevole del periodo interbellico, non essendo riuscita a stabilire un ordine internazionale riconosciuto come legittimo da tutti gli stati contraenti. Le clausole del trattato di Versailles che vennero formulate, rispecchiavano di fatto gli interessi di un gruppo ristretto di vincitori ed erano orientate a conservare lo status quo. La filosofia di Versailles mirava a mettere il nemico ai piedi dei vincitori, impedendogli con la forza di svilupparsi militarmente ed economicamente, mediante il disarmo forzato e sanzioni punitive [Weiler, Cartabia 2000]. Il movimento nazista sorto in Germania ha trovato nell’articolazione del Trattato uno tra i suoi principali motivi ispiratori. Il governo di Weimar presentò immediatamente una forte resistenza all'accettazione del

Diktat di Versailles. Il giorno seguente alla pubblicazione delle condizioni del

Trattato, l’allora presidente provvisorio della Germania affermò pubblicamente che tale risoluzione era irrealizzabile e intollerabile. Alla posizione assunta dal governo faceva seguito l’opposizione della maggior parte dei cittadini tedeschi che si mobilitarono in manifestazioni popolari di protesta volte a reclamare il rifiuto della firma del Trattato ad opera della Germania. Tuttavia, le possibilità offerte dagli Alleati al governo tedesco erano due: o l’accettazione incondizionata del Trattato o il suo respingimento, ed era chiaro che se la Germania avesse adottato la seconda posizione si sarebbe per questo fatta promotrice di un’inevitabile ripresa del conflitto. Poco prima dello scadere dell’ultimatum, in seguito al parere dei capi militari, l'Assemblea Nazionale tedesca approvò il Trattato. La firma avvenne quattro giorni dopo, il 28 giugno 1919, nella Sala degli Specchi del castello di Versailles. La Germania fu sottoposta a considerevoli perdite territoriali a favore dei paesi confinanti. Inoltre, a prescindere dalle riparazioni, il cui importo sarebbe stato definito in un secondo tempo, tra il 1919 e il 1921, ciò che maggiormente indignò i tedeschi furono da un lato, il disarmo virtuale della Germania, dall’altro, l’attribuzione della piena responsabilità storica

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della guerra. Ciò nonostante, il Trattato lasciava in gran parte intatto il Reich, sia geograficamente sia economicamente, rispettando la sua unità politica e il suo potenziale di grande nazione [Shirer 1962]. Venne così a crearsi un binomio pericoloso che rese particolarmente instabile il ripristino degli equilibri tra i Paesi europei: da una lato, un’intera popolazione soffriva per il risentimento di una risoluzione giudicata illegittima e oltraggiosa; dall’altro, quella stessa popolazione poteva contare sulla presenza di uno Stato ancora forte, che avrebbe a breve termine potuto riconquistare una posizione egemonica all’interno del continente. A causa di questa ambivalenza il sistema interbellico non è riuscito, da principio, a fondare una base stabile per l’instaurazione di una pace permanente. Sono numerose, infatti, le correnti di pensiero che hanno riconosciuto nelle modalità di risoluzione del primo conflitto le principali cause dell’insorgere della successiva guerra mondiale [Schirer 1962; Weiler Cartabia 2000].

All’entrata in vigore del Trattato, nel gennaio del 1920, fece seguito l'istituzione della Società delle Nazioni (SDN), un’organizzazione intergovernativa deputata all’accrescimento del benessere e della qualità della vita sociale, il cui principale obbiettivo era la prevenzione dei conflitti attraverso la gestione diplomatica e il controllo degli armamenti. In linea con le disposizioni del Trattato uno dei maggiori limiti della Società risiedeva nell’esclusione della Germania, ritenuta immeritevole di tale riconoscimento politico, nonché considerata deficitaria delle capacità diplomatiche necessarie per prendere parte all’organizzazione. Il Trattato da un lato e la Società delle Nazioni dall’altro hanno contribuito ad accrescere uno rapporto di diseguaglianza tra gli Stati, che ha impedito l’effettiva realizzazione di quanto gli accordi internazionali stessi si proponevano. Da un punto di vista programmatico, molti elementi dell’accordo di pace e della Società erano orientati al passato: essa era stata progettata per impedire lo scoppio della prima guerra mondiale e l’accordo di pace era volto a perpetuare lo specifico status quo stabilito alla fine della guerra. Inoltre, nessuno di questi obbiettivi dava vita a istituzioni capaci di prevedere o di dare risposta a una guerra futura [Clark 1997, 144]. Infine, i vincoli e gli obblighi imposti dal Trattato non seguivano dinamicamente l’evoluzione del tempo, ma si configuravano come «staticamente immobili».

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«Al termine della Prima guerra mondiale, e come diretto risultato del conflitto, il Trattato stabilì una serie di obblighi destinati a durare per interi decenni, senza alcun meccanismo per adattarli ai cambiamenti delle circostanze» [Weiler, Cartabia 2000, 18].

L’eredità più importante che il primo conflitto aveva lasciato alla coscienza politica europea in materia di sicurezza internazionale era la necessità di evitare la guerra, considerandola non solo inaccettabile ma altresì inconcepibile. Sebbene questa autocensura cognitiva fosse pienamente comprensibile e condivisibile all’indomani di un conflitto mondiale, la difficoltà nel concettualizzare la guerra portava con sé un forte limite per la costruzione di un’efficace sicurezza collettiva.

«Molti fautori della Società delle Nazioni odiavano così tanto la guerra che non volevano mai più combatterne un’altra, neppure una guerra della Società, e dunque alimentavano l’illusione che ciò che era impensabile fosse stato per questo stesso motivo eliminato» [Clark 1997, 144-145].

Le debolezze insite alla determinazione diplomatica del primo conflitto e la loro inefficacia, storicamente attestata, per la costruzione di una pace futura, non solo hanno posto le basi di una differente ricostruzione degli equilibri tra gli Stati, sul finire del secondo conflitto, ma hanno altresì indicato quali strade non erano più percorribili. Il progetto di integrazione europea, che venne elaborato e sostenuto per la prima volta il 9 maggio 1950 con la dichiarazione dell’allora ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, si poneva in linea con il superamento dei tradizionali rapporti diplomatici, per abbracciare una forma nuova e inedita di

comunitarizzazione sovranazionale. Il discorso si apre con una precisa

dichiarazione d’intenti:

«La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un'Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche» [Schuman 1950] 41.

Dall’incipit della dichiarazione, emerge con grande chiarezza l’esigenza di conferire all’Europa un profilo politico originale rispetto al passato, tramite sforzi creativi in grado di rompere i moderni schemi di pace interstatale, in favore di un

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Il presente testo è stato estrapolato dal Discorso integrale di Schuman del 9 maggio 1950 riportato sul sito: http://europa.eu/about-eu/basic-information/symbols/europe-day/schuman- declaration/index_it.htm (09/06/2017). In questa citazioni e nelle seguenti l’utilizzo del corsivo è di chi scrive.

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modello analogo a quello che tradizionalmente si sarebbe potuto interpretare come un’alleanza tra Stati42

.

L’approccio strategico, mediante il quale Schuman si propone di costruire la Comunità europea, rimarca i connotati del funzionalismo. Nelle intenzioni del ministro, mediante l’attuazione di interventi puntuali nella sfera economica, sarebbe seguita, per via estensiva, attraverso progressivi approfondimenti, un’integrazione materiale che avrebbe fatto da battistrada all’unione politica,:

« L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto» [Schuman 1950].

Il primo interesse della nuova costruzione sovranazionale è la stretta collaborazione tra Francia e Germania, mediante la messa in comune della produzione di carbone e acciaio, al fine di realizzare un rapporto di interdipendenza tale per cui qualsiasi guerra tra le due potenze non sia solo impensabile, come lo era per i fautori della Società delle Nazioni, ma anche e soprattutto materialmente irrealizzabile:

42 L’orientamento di pensiero che ispirava lo sforzo creativo di Schuman sembra accogliere il

pensiero espresso dal filosofo tedesco Immanuel Kant, in Zum ewigen Frieden. Il quale, sulla scia della grande tradizione del pensiero giusnaturalistico moderno, propone, per il rapporto tra gli Stati, l’istituzione di un diritto cosmopolitico analogo al diritto positivo stabilito tra gli individui mediante il «contratto originario», attraverso il quale si dà per i singoli la possibilità di uscita dallo «stato di natura», al fine di fare il proprio ingresso nella «società civile». Tale passaggio «rappresenta un’esigenza della ragione e non risponde a un criterio utilitaristico» costituisce infatti un «vero e proprio obbligo morale» [Maglio 2011]. Più precisamente, «dal diritto privato nello stato naturale scaturisce il postulato di diritto pubblico: nella situazione di inevitabile coesistenza con tutti gli altri uomini, si deve uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato giuridico, ossia nello stato di giustizia distributiva» [Maglio 2011, 38]. Allo stesso modo, «i popoli, in quanto Stati, possono essere giudicati come singoli uomini che si fanno reciprocamente ingiustizia già solo per il fatto di essere l’uno vicino all’altro nel loro stato di natura (ossia nell’indipendenza da leggi esterne); e ciascuno di essi può e deve esigere dall’altro di entrare con lui in una costituzione simile a quella civile, nella quale a ciascuno sia garantito il suo diritto. Così si costituirebbe una federazione di popoli, che tuttavia non dovrebbe essere uno Stato di popoli» [Kant 1795, 59-60]. Kant nel sesto articolo preliminare fa un esplicito riferimento agli orrori di una «guerra di sterminio (bellum internecinum)» a cui avrebbero condotto «ostilità tali da rendere necessariamente impossibile la reciproca fiducia in una pace futura» [Kant 49]. Le devastazioni prodotte dalla violenza e dall’imbarbarimento dei costumi, «non concederebbero altro posto alla pace perpetua che non il grande cimitero del genere umano» [Kant, 50]. Al fine di evitare una tale devastazione il filosofo propone una rilettura dei trattati di pace sostenendo che «un trattato di pace non può valere come tale se viene fatto con la segreta riserva di materia per una futura guerra» [Kant, 45] e d’altro canto «l’assenza di ostilità non rappresenta alcuna garanzia di pace, e se questa garanzia non viene fornita a un vicino dall’altro (la qual cosa può avvenire solo in uno stato di legalità) il primo può trattare il secondo, a cui abbia richiesto questa garanzia, come un nemico» [Kant, 53].

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«L'unione delle nazioni esige l'eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l'azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania. A tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l'azione su un punto limitato ma decisivo. Il governo francese propone di mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un'organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei. La fusione della produzione di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime. La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile» [Schuman 1950].

Con il Piano Schuman e la successiva costituzione della CECA ha origine l’Europa dei Sei (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo) che, mettendo in comune le produzioni siderurgiche e istituendo un’Alta Autorità sovranazionale, realizza «il primo nucleo concreto di una federazione europea indispensabile al mantenimento della pace» [Schuman 1950].

L’alternativa offerta dal progetto di integrazione europea, rispetto alla strategia di Versailles, appare in tutta la sua evidenza: gli Stati sono trattati egualmente, nel rispetto della dignità sociale e umana dei vinti; lo storico conflitto tra Francia e Germania viene sanato, non più in senso difensivo o negativo, mediante una politica di occupazione, bensì in senso offensivo o positivo, per mezzo dell’Unione mineraria; infine, il progetto non si presenta come un’acquisizione conclusa e cristallizzata, ma permane in esso un intrinseco dinamismo e una sostanziale flessibilità. La Ceca, per la sua stessa costituzione interna, dà vita ad un assetto istituzionale in grado di modellarsi in relazione alle diverse circostanze storiche, i meccanismi per la sua attuazione e gli strumenti per garantire agli Stati membri l’effettivo adempimento degli obblighi previsti dal Trattato, seguono una linea politica in netta discontinuità rispetto ai tradizionali accordi intergovernativi.

83 Trattato di Versailles Progetto di integrazione europea A Uso della forza Organismo

sovranazionale G

Diseguaglianza delle condizioni

tra gli stati

Eguaglianza delle condizioni tra gli stati I Clausole del Trattato Istituzione dell’Alta Autorità L Sottomissione del nemico Collaborazione con il nemico

Analizzando i modelli proposti dal Trattato di Versailles e dal progetto di integrazione europea attraverso lo strumento euristico AGIL, è possibile sia individuare i fattori che stanno alla base dei differenti ed opposti esiti socio- politici sia osservare da un punto di vista genetico la costituzione dell’attuale sistema europeo.

Nel caso del Trattato, l’uso della forza, mediante una politica di occupazione volta a stabilire e difendere i confini tra i diversi stati (A), è congruente rispetto all’orientamento al valore di sottomissione del nemico (L) e allo scopo di mantenere una disparità di condizioni tra i diversi Stati (G). Il nodo problematico che genera meccanismi disfunzionali trova in I e in L i suoi fuochi principali. Da un lato, l’integrazione del sistema è garantita in parte dalle clausole del Trattato e in parte dalla interdipendenza di ogni funzione dell’asse con le altre. Tuttavia, le clausole del trattato precedentemente esposte - diseguaglianza delle parti e staticità dell’accordo - generano, in virtù del loro contenuto, un sistema triviale che non consente alcun tipo di evoluzione nel tempo. Dall’altro, l’orientamento al valore determina una discrepanza sistemica: la volontà di sottomettere il nemico, impedisce la relazionalità tra gli attori (uno dei quali viene ad essere di fatto annichilito), causando un’implosione dell’intero costrutto diplomatico. I due meccanismi (I-L) convergono nel limitare le possibilità che, attraverso un sistema così composto, si instauri una pace duratura.

Il progetto di integrazione europeo istituisce un organismo sovranazionale di unione delle risorse minerarie (A), conforme alle esigenze di collaborazione tra le due grandi potenze Francia e Germania (L) poste sullo stesso piano e alle quali vengono riconosciute le rispettive esigenze di pace, sicurezza e prosperità (G). L’Alta Autorità, come organo esecutivo della CECA, indipendente rispetto ai

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singoli governi nazionali (I), risulta essere il tertium quid emergente dal rapporto di collaborazione tra gli Stati (L) che regola e governa la loro relazione reciproca. Il livello di integrazione del sistema così costituito è alto e consente di rispondere all’esigenza del rispetto dell’eguale dignità di tutti i Paesi coinvolti. Inoltre, l’apertura di un fronte relazionale multilaterale consente di generare effetti emergenti non previsti e non inclusi nelle condizioni del sistema stesso. In questo senso, si comprende l’affermazione che vede nel progetto di integrazione europea un’operazione di natura prevalentemente economica avente, allo stesso tempo, finalità politiche. «L’Unione europea è stata sin dalle origini un progetto politico che ha fatto ricorso a strumenti economici» [Weiler, Cartabia 2000, 18].

A ben vedere, sia il sistema prodotto dal Trattato di Versailles che quello promosso dal progetto di integrazione europea godono di un buon livello di coerenza interna, tuttavia nel primo caso la logica sistemica non produce delle esternalità in grado di riprodurre la sua struttura, mentre nel secondo la combinazione disposta dalla relazione tra gli attori statali e dal riconoscimento della loro eguale dignità, genera forme nuove di coesistenza che sono in grado di rigenerare la formazione originaria superando i limiti concreti stabiliti dagli attori stessi.

2.2.1.2 Il “bipolarismo” che ha guidato il sorgere della Comunità europea

La Seconda guerra mondiale ha segnato uno spartiacque storico decisivo per il futuro assetto sociale e politico europeo. Con il concludersi del conflitto, si è reso evidente il crollo del moderno modello europeo caratterizzato dall’equilibrio, più o meno instabile, di grandi potenze nazionali. Non solo la Germania sconfitta, ma anche gli stati vincitori, Francia e Gran Bretagna, risultarono fortemente indeboliti sul piano economico, politico e sociale. Gli unici attori mondiali che avrebbero potuto contribuire ad un riassestamento del continente europeo erano la Russia e gli Stati Uniti. Tuttavia, il periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale ha mostrato da subito gravi difficoltà nei rapporti reciproci tra i due Alleati.

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Nel discorso tenuto dal primo ministro del Regno Unito Winston L. S. Churchill il 15 marzo 1946 a Fulton nel Missouri, viene illustrata pubblicamente per la prima volta la geometria politica del conflitto Est-Ovest:

«Un’ombra è caduta sulle scene così recentemente illuminate dalla vittoria degli alleati. Nessuno sa ciò che la Russia sovietica e la sua organizzazione internazionale intendono fare nell’immediato futuro, o quali siano i limiti, se ce ne sono, alle loro tendenze all’espansione e al proselitismo. […] Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, è scesa sul continente europeo una cortina di ferro. Dietro quella linea ci sono tutte le capitali degli antichi Stati dell’Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia, tutte queste famose città e le popolazioni che le circondano si trovano nella sfera sovietica e sono soggette, in una forza o nell’altra, non soltanto all’influenza sovietica, ma a un’altissima e crescente misura di controllo da Mosca. Solo Atene, con le sue glorie immortali, è libera di decidere del suo futuro con un’elezione sotto l’osservazione anglo-franco-americana. [...] In questi Stati dell’Europa orientale i partiti comunisti, che erano molto piccoli, sono stati portati ad assumere posizioni di preminenza e di potere molto al di là della loro capacità numerica e dappertutto cercano di ottenere un controllo totalitario. [...] Se ora il governo sovietico tenta, con un’azione separata, di dar vita a una Germania filo-comunista nella sua zona, questo provocherà nuove serie difficoltà nelle zone inglese e americana, e darà agli sconfitti tedeschi il potere di vendersi ai sovietici o alle democrazie occidentali. [...] Non credo che la Russia sovietica desideri la guerra. Ciò che essi desiderano sono i frutti della guerra e l’indefinita espansione della loro potenza e della loro dottrina» [Morray 1975]43.

Un anno più tardi, il giornalista americano Walter Lippman, coniando l’espressione «cold war», dà espressione a quel nuovo modello di conflitto, così distante rispetto alle forme tradizionali. I modelli socio-politici americani e sovietici, distinti e antitetici, hanno innescato una lotta competitiva e dinamica, finalizzata al predominio di un sistema a discapito dell’altro [Halliday 1993], la quale non si è tuttavia tradotta in uno scontro diretto o aperto. Da questo punto di vista, il bipolarismo non pone in essere solo un’azione negativa, il cui fine si esaurisce nell’annullamento del nemico. Gli aspetti negativi e positivi del conflitto potrebbero apparire come l’uno il risvolto della medaglia rispetto all’altro, poiché l’affermazione di un modello avviene necessariamente a discapito di un altro provocando il suo annullamento di fatto. Tuttavia è cosa diversa la volontà di