• Non ci sono risultati.

La cittadinanza, un marchio di fabbrica europeo I profili della

3.4 Processo istitutivo della cittadinanza europea

3.4.2 La cittadinanza, un marchio di fabbrica europeo I profili della

È ormai da tempo invalsa l’espressione «modello sociale europeo» [Crouch 1999; Hay et al. 1999; Streeck 1995; Espring-Andersen 1999; Scharpf 2002], con la quale non si intende in alcun modo affermare l’esistenza di una società europea69,

69 Benché sia chiaro, in termini negativi, a cosa non alluda il «modello sociale europeo» (ESM) a

145

quanto piuttosto la convergenza dei diversi Paesi nell’adozione di misure, più o meno simili, volte a regolare le economie di mercato, al fine di garantire una maggiore coesione sociale. Nel contesto europeo un tale approccio ha accomunato ideologie politiche contrapposte – come quelle socialdemocratiche o cristianodemocratiche – nel ritenere che lo Stato dovesse garantire maggiore equità e giustizia, di contro ai meccanicismi autopoietici del mercato. Benché il modello sociale europeo abbia raggiunto la sua massima espressione alla fine degli anni Settanta per poi decostruirsi progressivamente a partire dagli anni Ottanta del Novecento, la sua formazione è radicata in un lungo percorso storico che ha visto l’Europa detenere una posizione di avanguardia nel contesto mondiale. Lo Stato sociale rappresenta infatti una delle massime conquiste europee del XX secolo, tanto da essere identificato come uno dei tratti distintivi della realtà politico-sociale europea rispetto alle altre identità mondiali. La propensione assistenzialistica fa capo alla più antica tradizione europea che, guidata da forme famigliari, religiose e comunitarie, era orientata caritatevolmente a garantire un minimo di tutela ai soggetti colpiti da evenienze negative. Tuttavia, è solo attraverso il passaggio dalle prestazioni di aiuto informali e private a quelle pubblico-statuali che la cittadinanza sociale ha potuto realizzare la sua forma più compiuta. Si è sostenuta infatti la necessità del passaggio dalla componente motivazionale compassionevole a quella solidaristica, quale presupposizione per l’affermazione di un diritto universale proprio dei cittadini:

«Gli appelli alla solidarietà pongono in risalto la condivisione di una precisa identità sociale nell’atto di rispondere ai bisogni, e quindi viene spesso sancito il concetto del mutuo rispetto dei diritti derivante dal principio dell’appartenenza alla società. […] è solamente nell’ipotesi dell’esistenza di questi diritti, connessi all’appartenenza, al godimento di vari tipi di benefici sociali che si può parlare di cittadinanza sociale» [Crouch 1999, 462].

La fase prodromica del modello solidaristico può essere fatta risalire alle prime assicurazioni sociali pubbliche (destinate a compensare gli infortuni per i lavoratori, le malattie e l’indigenza degli anziani) costituite in Germania, Austria e

differenti chiavi interpretative che possono essere ricondotte a tre indirizzi fondamentali. Il primo ritiene che l’ESM rappresenti la convergenza di caratteristiche comuni tra gli Stati dell’Unione europea. Un secondo approccio più normativo lo interpreta come la definizione di buone pratiche custodite da alcuni Paesi. Infine, sempre a un livello piuttosto normativo, viene utilizzato come compendio di progettazione per il processo di integrazione sociale e politica dell’Unione europea configurandosi pertanto come uno strumento di coesione [Jespen, Pascual 2005, 234]

146

Ungheria tra il 1880 e il 1890 [Kaelble 2003, 82]. Alle soglie della prima guerra mondiale, quasi tutti i Paesi europei avevano posto le basi legislative di un’assicurazione sociale pubblica. Benché l’efficacia e il funzionamento di queste formule embrionali di previdenza non raggiungessero alti livelli prestazionali e interessassero di fatto solo un’esigua minoranza di cittadini70

, il sorgere di tali contributi ha consentito di predisporre le fondamenta istituzionali del moderno stato assistenziale. A riprova della peculiarità europea, è bene ricordare che al di fuori di tale contesto le prime forme di assicurazioni sociali pubbliche iniziarono ad essere impostate solamente a partire dagli anni Trenta del Novecento [Kaelble, 83]71.

Oltre alla tradizione culturale presente nel tessuto sociale europeo, Kaelble avanza l’ipotesi di ulteriori cause sociali sottese all’espansione della pubblica assistenza. Le motivazioni soggiacenti alla «via europea», o al «modello sociale europeo», sono state classificate dall’Autore in tre macro-categorie:

1. La forma famigliare. I fattori che hanno esposto le famiglie europee alla necessità di ricorre all’aiuto dell’amministrazione pubblica risiedono in parte nella particolarità della costruzione famigliare composta di pochi membri, restia ad accogliere anziani o parenti e tendente a formarsi tardivamente.

2. L’industrializzazione. La struttura prevalentemente industriale dell’occupazione ha richiesto un intervento per rispondere alle paure dei lavoratori che in virtù della facilità con la quale avrebbero potuto accorpare i loro interessi sarebbero potute sfociare in proteste violente. Inoltre l’omogeneità della struttura lavorativa consentiva un alto grado di standardizzazioni dei servizi previdenziali, che sono stati così facilmente operazionalizzabili.

70

Si stima che nel 1914 la media europea dei soggetti aventi diritto all’assicurazione pubblica fosse del 10% sul totale della popolazione attiva [Flora e Heidenheimer 1983].

71 Gli Stati Uniti applicarono le prime forme di assistenza solo alla fine degli anni Trenta con il

Social Security Act. Il Giappone attuò l’assistenza sanitaria statale a partire dal 1938, a cui fece seguito qualche anno più tardi il sistema pensionistico. Il Canada invece approntò nel 1927 l’assistenza sanitaria generalizzata, mentre altri tipi di assistenza vennero organizzati solo dopo la seconda guerra mondiale [Kaelble, 83].

147

3. I movimenti operai. I conflitti e le proteste del lavoro sono stati, oltre a una peculiarità del mondo europeo, uno dei principali motivi di avanzamento dello sviluppo dello Stato sociale.

Benché si possa parlare di una tendenza di fondo del continente europeo verso una gestione pubblica dell’assistenza, le formulazioni adottate dai diversi Paesi e il grado di efficienza dell’intervento statale non hanno mai raggiunto una concreta omogeneità. Le principali differenze erano già ravvisabili nelle prestazioni dei sistemi assicurativi prima del 1914, quando la presenza di differenti sistemi politici (liberali o autoritari) condizionava significativamente l’intervento statale. Tuttavia anche in seguito alla progressiva convergenza verso ordinamenti democratici, i Paesi europei non hanno realizzato un modello univoco di stato sociale. Seppur nelle diversità interne, che possono essere ricomprese in una più generale tendenza a un certo grado di sperimentazione, il tratto inconfondibilmente europeo risiede nella scelta, diffusa uniformemente, a favore dell’assistenza sociale statale.

«L’assistenza sociale statale non è stata solo creata prima in Europa, ma nelle società europee essa è sempre stata ed è tutt’ora più fortemente strutturata che altrove. Nessuno dei paesi extraeuropei giunti in ritardo ha mai recuperato terreno sul vantaggio iniziale detenuto dall’assicurazione sociale statale europea» [Kaelble, 86].

Sia in termini operativi (ovvero l’estensione del numero di cittadini coperti dalle assicurazioni sociali), sia in termini economici (di spesa assistenziale in rapporto alle potenzialità del sistema finanziario nazionale), l’Europa ha raggiunto dei livelli nettamente superiori rispetto a quelli dei paesi extraeuropei. Il ruolo esemplare dei suoi sistemi assistenziali hanno così esercitato una continua forza di attrazione e di interesse da parte dei policy maker internazionali72. Oltre al carattere operativo, si nota che il modello sociale europeo è sostanziato da un orizzonte di valori e di senso del tutto peculiari che comprendono: la sicurezza, la solidarietà e la coesione sociale. È interessante a tal proposito notare le differenze di massima (necessariamente schematiche) tra il modello europeo e quello americano. Poiché non sono mancate voci che hanno proposto una configurazione europea in linea con l’evoluzione sociale e politica statunitense, un confronto tra

72 In particolare sono emerse le peculiarità del modello tedesco che poi ha lasciato spazio dopo il

148

le fonti normative e le rispettive operazionalizzazioni appare quanto più significativo.

La stessa Unione si è fatta portatrice di questo patrimonio storico europeo, in particolare, attraverso l’agenda di Lisbona [2000] ha cercato di formalizzare un modello sociale non solo congiunturale, ma più strutturale e istituzionalizzato. Posti alcuni importanti obiettivi strategici – tra cui il potenziamento dell’economia basata sulla conoscenza, la crescita economica sostenibile, nuovi e migliori occupazioni lavorative e una maggiore coesione sociale – il Consiglio ha stabilito la necessità di modernizzare il modello sociale europeo, investendo nella formazione delle persone e combattendo l’esclusione sociale. Attraverso il metodo di coordinamento aperto, le policy nazionali pur mantenendo un ruolo attivo nella definizione degli obiettivi specifici e degli strumenti attuativi, recepiscono le linee guida comunitarie che da un punto di vista transnazionale hanno la funzione non solo di stabilire obiettivi condivisi, ma anche di facilitare il coordinamento e l’apprendimento reciproco tra i diversi Paesi. In definitiva, il modello sociale europeo ridefinito dalle istituzioni comunitarie ha di fatto azionato «processi asincronici di convergenza» [Prandini 2006] tesi a una regolazione morbida a

EU (stato inteventista) USA (stato minimo) solidarietà sicurezza coesione sociale individualismo competitività rischio responsabilità collettiva regolamentazione giustizia sociale efficienza economica deregolamentazione responsabilità individuale

149

livello sovranazionale delle politiche per l’occupazione, dell’inclusione sociale e pensionistiche. Le principali convergenze realizzate dai diversi paesi si sono concentrate nella privatizzazione o nel ritiro del welfare state, o in alternativa nella ridefinizione delle politiche di attivazione delle risorse attraverso una struttura organizzativa maggiormente attenta alla frammentazione sociale e temporale. Infine, il processo morfogenetico del welfare state si è compiuto, in seguito alla massima realizzazione di quel modello europeo di «welfare state keynesiano», nella sua destrutturazione a fronte di un’economia sempre più globalizzata e di modelli sociali cangianti difficilmente sottoponibili ad interventi altamente standardizzati.

3.4.3 Il sentimento di appartenenza dei cittadini europei tra opinioni e simboli

3.4.3.1 Cosa pensano i cittadini europei dell’Unione?

Con l’istituzione della cittadinanza si è compiuto un importante passo in avanti verso l’avvicinamento del potere decisionale alla società e l’armonizzazione dei rapporti tra i molteplici demoi. La figura del cittadino europeo si pone come la principale forma di tutela della democraticità del processo governativo dell’Unione. Oltre alla sua connotazione giuridico-formale, la cittadinanza ha un carattere più marcatamente politico-identitario legato al senso di appartenenza a una comunità materiale e spirituale di con-cittadini. Ed è proprio a partire da questa forma politico-identitaria che la cittadinanza si fa necessaria premessa di un orientamento governativo democratico, in quanto consente di sviluppare oltre alle potenzialità della cittadinanza negativa, incentrata sulla fruizione di diritti o servizi, anche l’attualità della cittadinanza positiva, orientata alla libertà dei singoli di cooperare per la costruzione politica e sociale europea. La distinzione tra le due forme di cittadinanza prende spunto dal saggio di Isaiah Berlin [2000] del 1958, Due concetti di libertà. Nel testo l’Autore definisce due diversi modelli di libertà: la libertà da (freedom from), ovvero la libertà negativa e la libertà di (freedom to), che corrisponde alla libertà positiva. Mentre la prima riguarda l’assenza di impedimento o di costrizione, l’altra si riferisce alla possibilità di

150

autonomia e di autoderminazione. In particolare, la libertà negativa viene fatta coincidere con il soggetto individuale (individualisticamente inteso) o il borghese, mentre la libertà positiva abbraccia il soggetto in quanto membro di una società o di un ente collettivo e pertanto assume quale figura privilegiata quella del

cittadino. L’applicazione delle due formulazioni di libertà alla cittadinanza

consente di tradurre i suoi aspetti costitutivi giuridici e sociali, conferendo maggiore risalto alla relazionalità insita alle due categorie singolarmente intese e al loro rapporto reciproco. La cittadinanza negativa (intesa come libertà da) esprime quelle garanzie e quei diritti fondamentali del cittadino, in quanto individuo razionale; mentre la cittadinanza positiva (intesa come libertà di) include la logica partecipativa del soggetto alla vita politica e civile nel contesto sociale. L’utilità euristica dell’assunzione concettuale berliniana in riferimento alla cittadinanza, oltre a consentire una lettura più comprensiva della costituzione interna dello status di cittadino, esplicita la fondamentale differenza, insita a entrambe le sfere di libertà, tra volontà (o potenzialità) e azione. Entrambe le formulazioni di libertà, così come gli aspetti della cittadinanza a cui si riferiscono, rientrano nella sfera del possibile, ma non per questo sono necessitate alla loro attuazione:

«la libertà di cui parlo io non è l’azione in se stessa, ma la possibilità dell’azione. Se pur avendo avendo il diritto di varcare delle porte aperte io preferisco non farlo e starmene invece seduto a vegetare, questo non mi rende meno libero. Libertà è avere la facoltà di agire, non l’azione in sé; è la possibilità dell’azione e non necessariamente quella realizzazione dinamica con cui la identificano si Fromm si Crick» [Berlin 2005, 36].

Il carattere non necessariamente attivo della cittadinanza positiva (così come di quella negativa) si è palesato dalla discrepanza tra un impulso politico- istituzionale, in senso partecipativo-democratico e la risposta dei soggetti coinvolti, i quali si sono mostrati sempre meno interessati al processo di integrazione europea. Detto in altri termini, le potenzialità aperte dalla formulazione istituzionalizzata della cittadinanza europea, nel momento stesso in cui sono state affermate, hanno visto diminuire il desiderio o la volontà da parte dei soggetti di una loro operazionalizzazione. La ratifica del Trattato di Maastricht, congiuntamente ai dibattiti parlamentari e ai referendum che hanno interessato alcuni Paesi, determinano un momento di svolta nella percezione

151

pubblica dell’Ue. Se prima del 1993, la Comunità rappresentava un’entità burocratica, lontana e sconosciuta agli individui, alla quale questi avevano dato il loro assenso sulla base dei risultati economici ottenuti; dopo tale data è possibile parlare di una nascente consapevolezza dei neo-cittadini europei sull’Unione, che ha decretato la fine del loro «consenso permissivo» [Lindberg, Scheingold 1970]. Sei mesi dopo la firma del Trattato73, grazie all’intenso dibattito pubblico da esso scaturito, si è raggiunto un livello di conoscenza delle tematiche europee mai registrato prima, che ha raggiunto il 94% della popolazione.

«In the Spring of 1992 only just over four in ten persons had read or heard about the Treaty in the media, but as the public debate intensified with the ratification process, in six months we see a dramatic rise with more than four out of five people (85%) having heard or read about the Treaty. By Spring of 1993 we find awareness at its all time high of 94%. This was undoubtedly due to the lively debates in national parliaments, together with the much publicised referenda in France, Ireland and two in Denmark; but by the time of the of the final ratification, October 1993, it had fallen back to 74% and dropped a further seven percentage points (67%) by the end of 1994 (EB 42). There appears to be some increase in the recent months and the current survey shows a figure of 71%, possibly as the debate on the 1996 Intergovernmental Conference attracts media comment this figure will rise further» [EB 43, 30].

Se precedentemente la costruzione comunitaria si era andata sviluppando lontana dai centri di dibattito pubblico, con lo stabilirsi di un dialogo informativo aperto ai cittadini si è palesato lo iato tra gli avanzamenti politico-istituzionali e la cognizione sociale dei primi anni costitutivi. Tuttavia, nonostante a livello europeo la percentuale di consapevolezza rispetto alle innovazioni apportate dal Trattato sia particolarmente elevata, l’Italia nella statistica generale si trova in coda rispetto agli altri Paesi (8 punti percentuali in meno rispetto alla media EU15) per i livelli di conoscenza del Trattato nei media. Tali dati sono confermati anche dall’informazione presentata dai media sul Parlamento europeo, che registra nel caso italiano, ancora una volta, uno dei livelli più bassi (5 punti percentuali in meno rispetto alla media EU15) rispetto agli altri Paesi.

73 Per i dati qui riportati si fa riferimento ai risultati dell’Eurobarometer public opinion surveys n.

152

Gli antecedenti giuridici, sociali e politici che avevano incalzato la formazione della cittadinanza europea, precedentemente richiamati, non erano connessi ad una generalizzata consapevolezza nel merito del diritto comunitario e del suo assetto istituzionale. Nonostante siano state le cause proposte dai cittadini, in prima battuta, il motore che ha fatto avanzare la futura cittadinanza europea, queste sono rimaste per lungo tempo circoscritte a casi specifici, facenti capo a singoli individui. D’altra parte, i movimenti migratori che sollecitarono le istituzioni a formalizzare la cittadinanza, agivano su un piano di autonomia rispetto alle direttive comunitarie. A titolo esemplificativo si ricorda il lungo iter, iniziato con il Trattato di Roma e proseguito con la Conferenza di Messina nel 1955, sulla libertà di circolazione dei lavoratori all’interno del territorio europeo. La risoluzione finale della conferenza obbligava gli stati membri alla non discriminazione dei lavoratori sulla base della nazionalità, prevedendo un periodo transitorio di 12 anni per l’applicazione di tali direttive. Tuttavia le migrazioni procedettero autonomamente rispetto al disegno istituzionale proposto, anticipando i termini di attuazione stabiliti istituzionalmente.

Il Trattato non ha solo contribuito a sviluppare un dibattito bottom-up, ma ha altresì posto le fondamenta per una relazioni più diretta e informata tra le istituzioni e i cittadini attraverso la formulazione di direttive istituzionali (top-

down). Il testo prevedeva, tra i principi generali dell’ordinamento dell’Unione, S F NL UK L FIN GR DK EU15 B P A D IRL E I YES 84% 83% 78% 78% 77% 76% 73% 72% 71% 70% 68% 67% 66% 65% 64% 63% NO 14% 16% 20% 21% 19% 21% 24% 27% 24% 24% 29% 21% 25% 32% 31% 33% 0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% Ti to lo asse

153

l’applicazione del criterio di trasparenza, che includeva il diritto di accesso per i cittadini ai documenti delle istituzioni [art. 191 A, ora art. 255 TCE]. Successivamente, è emersa in forma definitiva l’esigenza da parte degli organismi comunitari di predisporre un approccio comunicativo strutturato e più diretto. Così, nel 1996 la Commissione e il Parlamento hanno avviato il primo programma di informazione, denominato PRINCE (Information programme for the European

citizens). Le finalità del PRINCE risiedevano nella definizione delle campagne di

informazione strategiche da parte delle istituzioni europee e insieme nella sollecitazione alla produzione di informazione da parte della società civile. Coniugando un doppio vettore informativo sia verticistico, dalle istituzioni ai cittadini, sia orizzontale, all’interno del corpo sociale, le campagne realizzate hanno compreso sia azioni semplicemente informative, sia progetti tesi a suscitare un più ampio e partecipato dibattito pubblico74.

Nonostante la forte attenzione della Commissione verso la percezione dei cittadini delle istituzioni europee, di fatto, il clima d’opinione scaturito dal dibattito sul Trattato ha segnato una netta inversione di tendenza rispetto ai livelli di fiducia e di consenso che lo avevano preceduto. Se l’avant Masstricht era caratterizzato da una preponderanza di opinioni positive sull’appartenenza alla Comunità, l’âpre

Maastricht ha suscitato giudizi mediamente più sfavorevole verso il processo di

integrazione. A fronte di un’informazione sulle politiche europee maggiormente estesa e più articolata, questo risultato appare ancor più significativo. Se è vero infatti che l’Europa ha sofferto in quel periodo di una congiuntura economica sfavorevole, il diffuso diniego del progetto comunitario evidenzia la natura funzionalistica del sentimento di appartenenza all’Unione. L’Unione appare, agli occhi dei suoi cittadini, come un’entità positiva solo allorquando le esternalità risultano favorevoli, mentre non è in grado di reggere il peso del fallimento. Il caso italiano presenta in questo senso una peculiarità: i cittadini italiani possono essere definiti «europeisti della prima ora», essi hanno infatti mantenuto livelli discretamente costanti di sostegno al processo di unificazione europea. Nell’estate del 1991 il 78% degli intervistati era favorevole all’introduzione della cittadinanza

74

La prima fase del programma ha realizzato tre campagne: “Cittadini d’Europa”, “Costruiamo insieme l’Europa”, e “L’euro, una moneta per l’Europa”. Successivamente sono state poste al centro dell’azione comunicativa i temi dell’allargamento, il futuro dell’Europa, il ruolo dell’Europa nel mondo e la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia [Marini 2003].

154

europea [EB 35, 19], l’anno precedente il 74% dei soggetti dichiarava di avere recepito dai mezzi di comunicazione impressioni favorevoli sul Parlamento europeo [EB 33, 48]. Nel 1989, più dell’ottanta per cento del campione riteneva di avere tratto benefici dall’appartenenza alla Comunità e che l’appartenenza alla Comunità fosse una buona cosa. Lo stesso anno, meno dell’ottanta per cento dei soggetti dichiarava di avere consapevolezza di cosa comportasse la formazione del mercato unico europeo, ciò nonostante, la percentuale di coloro che riponevano fiducia in questo sistema era nettamente superiore [EB 31]. È possibile pertanto sostenere che l’accordo riposto nelle istituzioni europee da parte degli italiani fosse non soltanto tendenzialmente stabile e profondo, ma alimentava quella che può essere definita una fiducia sostanziale, perché non suffragata da un eguale livello di conoscenza e informazione. Nel contesto italiano hanno iniziato a manifestarsi i primi dubbi e le prime perplessità sulle istituzioni