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La struttura duale della cittadinanza europea

3.5 L’IDENTITÀ RELAZIONALE DEL CITTADINO EUROPEO

3.5.1 La struttura duale della cittadinanza europea

La struttura formale della cittadinanza europea produce un cambiamento radicale rispetto al moderno nesso tra cittadinanza e stato-nazione. Quel forte legame identitario di appartenenza che lega un popolo alla sua nazione e individua nell’etnos la radice propria della cittadinanza, con l’introduzione della cittadinanza sovrastatale, perde il suo carattere di necessità. La cittadinanza europea, pur non negando l’originaria appartenenza nazionale, rappresenta ad un livello superiore (in senso prospettico ma non valoriale) un differente modello di appartenenza, che destruttura l’endiadi cittadinanza-stato. Da un lato, la cittadinanza nazionale si riduce ad una forma particolare e non universale di appartenenza, in buona parte vincolata dalle contingenze storiche. Dall’altro, essa non viene negata, ma ricollocata in un contesto più ampio.

La relativizzazione e la successiva ricontestualizzazione dell’appartenenza nazionale designano due imprescindibili premesse alla comprensione della cittadinanza europea: individuando nella nazione una forma particolare e non esclusiva di appartenenza, si stabilisce un nesso tra le diversità nazionali che problematizzandole le situa in un contesto condiviso di appartenenza sovrastatale. Il rapporto tra cittadinanza europea e cittadinanza nazionale è regolato dai trattati secondo la doppia dimensione dell’inclusione e dell’autonomia. «Sono cittadini dell’Unione tutti i cittadini degli stati membri» (TM, art. 8). Dalla sua prima formulazione appare chiara la diretta derivazione della cittadinanza europea dalla cittadinanza nazionale; con il successivo Trattato di Lisbona si specifica invece l’autonomia della cittadinanza europea rispetto alla sua radice nazionale: «la cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce» (art. 8).

La cittadinanza europea, non solo non coincide con la tradizionale cittadinanza nazionale, ma si differenzia anche dalle forme di cittadinanza federale e plurinazionali. Nel primo caso, lo status federale prevale su quello locale, riassumendolo in sé; diversamente, la cittadinanza dell’Unione dipende ontologicamente dalla cittadinanza nazionale, dalla quale non può perdere il continuo contatto, pena l’inesistenza. La cittadinanza plurinazionale, invece, per

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quanto si avvicini alla forma sovrastatale europea, nell’intento di difendere l’«unità nella diversità», differisce da quest’ultima per il suo carattere marcatamente post-colonialistico.

Circoscritta la cittadinanza europea in termini negativi, avendo individuato le diverse forme di appartenenza ad essa alternative. Si tenterà ora di definire qual è la struttura della cittadinanza europea e a quale genere distintivo di appartenenza è correlata. La cittadinanza europea presenta una natura duale [Lippolis, 1994; Faist, 2007] che in buona sostanza rispecchia la forma stessa dell’Unione. Intendendo la cittadinanza nei termini romani della civis, è possibile interpretare la dualità in senso positivo. Il termine civis piuttosto che proporre una designazione oggettivante, rimanda ad una relazione di reciprocità tra individui: «è civis per me colui del quale io sono civis» [Crifò, 2005]. Così intesa la civis europea può superare sia le tendenze riduttivistiche che quelle dualistiche. La strutturale compresenza della sfera nazionale e di quella europea nella nuova forma di cittadinanza, viene comunemente intesa nei termini di un’opposizione destinata a ridurre una delle due sfere all’altra (riduzionismo) o, nella migliore delle ipotesi, a mantenere questi due ordini di realtà separati e tra loro inconciliabili (dualismo). La natura duale della cittadinanza europea, intesa in termini relazionali, potrebbe risolvere l’impasse nel quale sono venute a trovarsi l’appartenenza statale e quella europea, rendendo la cittadinanza uno status emergente dalla reciproca relazione tra le due appartenenze.

A sostegno di tale ipotesi concorrono almeno due fattori: il primo interno alla struttura istituzionale della cittadinanza, mentre il secondo costitutivo del sentimento di appartenenza.

La struttura istituzionale della cittadinanza europea, oltre ad intrattenere una relazione di dipendenza dall’appartenenza nazionale, rimanda alla più generale

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appartenenza europea, che attraverso un dialogo costante con la sfera nazionale concorre alla formazione di tale status. La sfera nazionale non si riduce quindi ad una semplice «porta d’ingesso» per l’Unione, ma rappresenta un vero e proprio istituto posto di fronte a quello europeo. Ed è dal dialogo tra le due parti – nazionale ed europea – che emergono i tratti più peculiari di questa nuova forma di cittadinanza. Se la cittadinanza nazionale non può essere intesa come un diritto soggettivo, ma rappresenta una condizione stabilita dalla legge posta a discrezione degli stati, sussitono tuttavia dei limiti imposti dall’Ue all’arbitrio nazionale. Un limite imposto dal Parlamento europeo alla discrezionalità incondizionata degli stati nel conferimento della cittadinanza si è palesato nel caso maltese. Il governo aveva messo in vendita la cittadinanza del paese alla cifra di 650mila euro. Con una risoluzione votata nel gennaio del 2014 il Parlamento, affermando la non negoziabilità della cittadinanza, invita Malta ad allineare il suo programma di cittadinanza ai valori dell’Ue [2013/2995 RSP]79

. È altresì noto l’effetto che la cittadinanza europea ha avuto nella regolazione interna dei sistemi di acquisizione della cittadinanza nazionale.Il caso Chen del 2004 ha mostrato come il sistema di acquisizione della cittadinanza irlandese è stato modificato per le ricadute che questo aveva nell’accesso preferenziale e diretto alla cittadinanza europea. L’Irlanda era infatti l’unico Paese ad avere mantenuto un sistema di ius domicilii puro, favorendo le migrazioni indirizzate a trattamenti sociali favorevoli, che hanno dato vita a quello che è stato denominato il “turismo sociale” [Margiotta, 2014].

Dalla sua istituzionalizzazione infatti si è verificata una convergenza e ibridazione delle tradizioni europee verso lo ius soli con diversi gradi di limitazioni80.

Il sentimento di appartenenza del cittadino europeo è ontogeneticamente legato alla relazione tra i due fulcri: nazionale ed europeo. Da un lato, l’individuo si riconosce membro di una nazione alla quale è legato per tradizione e cultura. Tale sentimento, in linea con il nazionalismo liberale, non vincola a forme di appartenenza familiare, etnica o razziale, ma produce un’imprescindibile matrice identitaria collettiva. D’altra parte, l’europeità si esprime con l’appartenenza del proprio popolo ad una Comunità più vasta, alla quale si è legati per elezione e non

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80 Un’eccezione nel contesto europeo è data dalla legislazione italiana ancora strettamente legata

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per nascita. L’Unione si presenta come una comunità di valori relazionali emergente dal rapporto tra le diverse radici locali. Nel reciproco rimando tra particolare (nazionale) ed universale (europea) le due polarità, affermando le loro specificità, generano quella peculiare forma di cittadinanza transnazionale che non può essere ridotta né a mero epifenomeno dell’una o dell’altra, nè a loro sintesi. Essa infatti presenta un’ulteriorità che può essere interpretata solo relazionalmente.

Nel tentativo di chiarire in quale accezione la cittadinanza europea configuri un modello di appartenenza relazionale, verranno ora proposte due analisi analoghe per contenuto ma afferenti a diversi ambiti disciplinari: lo sguardo del filosofo Brague incontra l’analisi del sociologo Namer, sostanziando l’idea di una cittadinanza europea relazionale, in senso formale e identitario.

3.5.2 “Un nido di memorie”

«L’Europa deve restare, o ridiventare, il luogo della separazione tra temporale e spirituale, e ancor più, della pace fra questi, dove ognuno riconosce all’altro la legittimità nel proprio campo. Deve restare, o ridiventare, il luogo in cui si riconosce un legame intimo dell’uomo con Dio, un’alleanza che arriva fino alle dimensioni più carnali dell’umanità, che devono essere oggetto di un rispetto assoluto. Deve restare, o ridiventare, il luogo in cui l’unità fra gli uomini non può essere costruita intorno a un’ideologia, ma nei rapporti tra persone e gruppi concreti» [Brague 1998].

3.5.2.1 Una prospettiva filosofica

L’opera del filosofo Rémi Brague81, La voie Romaine, riproposta in traduzione italiana con il titolo Il futuro dell’Occidente: nel modello romano: la salvezza

81 Rémi Brague, nato l’8 settembre del 1947 a Parigi è professore emerito di Filosofia Medievale e

Araba presso l'Université de Paris I Panthéon-Sorbonne, è inoltre Titolare dalla Cattedra Romano Guardini alla Ludwig-Maximilian Universität di Monaco. Una biografia completa ed aggiornata è disponibile all’indirizzo: <http://remibrague.com/>. Brague è risultato vincitore, insieme al Padre Brian Daley, della seconda edizione del Premio Ratzinger (la premiazione è avvenuta a Roma il 20

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dell’Europa, è un saggio di filosofia della storia del pensiero e della cultura

europea, che elabora un’acuta analisi sull’origine e sull’evoluzione dell’Europa. La genesi del testo si colloca nel contesto dell’ampio dibattito pubblico suscitato nel 1992 dal trattato di Maastricht, che ha stimolato l’interesse del filosofo verso l’analisi dell’essenza culturale europea. Nella postfazione Brague sintetizza il suo approccio al tema, escludendo dai suoi propositi il riferimento al contenuto culturale proprio dell’Europa, per addentrarsi, piuttosto nelle dinamiche formali attraverso le quali la cultura viene recepita e diffusa. La prospettiva entro cui Brague svolge la sua indagine storico-formale del dispiegamento culturale europeao, non è meramente didascalica, tenta al contrario di «progettare un avvenire (ri)proponendo all’Europa un modello di rapporto con ciò che le è proprio» [Brague 1998, 198]. Sostenuto dall’idea che la riflessione sulle passate fecondità europee possa conferire nuovo vigore all’attuale Unione europea, il discorso del filosofo riprende concettualmente la nota espressione burkeiana: è necessario guardare ai propri antenati se si vogliono vedere i posteri.

Alla domanda socratica: Che cos’è l’Europa?, la risposta del filosofo francese, propone due fondamentali categorie di analisi: la differenza, che consente una definizione negativa dell’essenza europea (cosa non è europeo), e l’identità, mediante la quale si giunge a comporre positivamente l’essenza dell’Europa (cosa

è europeo). Di Europa, sostiene il filosofo, non è possibile parlare in termini

geografici, se si vuole definire la specificità che la distingue rispetto alle costituzioni non-europee. Così Brague evidenzia la natura eminentemente culturale delle frontiere europee, frontiere che nel separare uniscono una civiltà in una comune coscienza di appartenenza, poiché

ottobre 2012). Durante la presentazione dei premiati, il Card. Camillo Ruini ha così presentato la figura di Rémi Brague: «è un filosofo vero e al contempo un grande storico del pensiero della cultura, che unisce alla forza speculativa e alla visione storica una fede cristiana e cattolica profonda ed esplicita, testimoniata senza complessi». Il Pontefice Benedetto XVI, ha sottolineato, in tale occasione, l’importanza di personalità come il Professor Brague e il Padre Daley «per la trasmissione di un sapere che unisce scienza e sapienza, rigore scientifico e passione per l’uomo, perché possa scoprire l’arte del vivere. Ed è proprio di persone che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio vicino e credibile all’uomo d’oggi, ciò di cui abbiamo bisogno; uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio attingendo da questa sorgente la vera umanità per aiutare chi il Signore mette sul nostro cammino a comprendere che è Cristo la strada della vita; uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio, perché possano parlare anche alla mente e al cuore degli altri. Operare nella vigna del Signore, dove ci chiama, perché gli uomini e le donne del nostro tempo possano scoprire e riscoprire la vera arte del vivere: questa è stata anche una grande passione del Concilio Vaticano II, più che mai attuale nell’impegno della nuova evangelizzazione».

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«è europeo colui che ha coscienza di appartenere a un tutto. Se non si ha questa coscienza, e se dunque non si è europei, non vuol dire per questo che si sia barbari. Ma non si è europei senza volerlo. Per citare ciò che Renan diceva della nazione, l’Europa è un plebiscito costante. Anche ciò che riposa nella coscienza storica, tutto ciò che è fonte, radice, viene rivisto a partire da una coscienza; e, in una certa misura, anche la storia viene costruita a partire da essa» [Brague 14].

L’Europa può dunque essere compresa attraverso due categorie formali: la prima è una categoria di geografia intellettuale, entro cui si delineano i confini del Continente, la seconda è contenutistica, ovvero dà sostanza a tale spazio attraverso gli eventi storici che ne hanno composto la fisionomia, definendo il significato del termine europeo.

«Impieghiamo questo aggettivo [europeo] per designare popolazioni, o evoluzioni culturali che si sono situate o si situano ancora oggi al di fuori delle frontiere dell’Europa. Ma lo impieghiamo solo per rinviare a realtà che hanno trovato la loro origine all’interno dello spazio europeo. L’Europa come luogo precede dunque l’Europa come contenuto» [Brague 28].

Il proprium dell’Europa, ciò che la distingue rispetto ad altre civiltà, è con tutta evidenza individuato dal filosofo nel suo carattere romano, «o più precisamente latino» [Brague 30]. Addentrandosi nello studio della formazione originaria della cultura europea, egli evidenzia un paradosso, che si misura con il nucleo stesso della sua identità: da un lato «Gerusalemme», dall’altro «Atene». Le tradizioni giudaico-cristiana e quella pagana in costante trazione fra loro, poiché irriducibili l’una all’altra, nel loro dinamismo interno sono le proprietà che consento l’esistenza stessa dell’Europa. Da un lato, l’eredità giudaico-cristiana, comunicata dall’Antico Testamento, ha dato espressione all’«idea della supremazia dell’uomo», o ancora, «l’idea secondo cui la relazione dell’uomo con Dio si compie prima di tutto nella pratica morale, introdotta in Europa dai profeti dell’Antica alleanza» e infine «l’idea di un divenire storico che comporta un senso» lineare e non ciclico determinato da un inizio e da una fine [Brague 61-62]. Dall’altro, la cultura greca ha intessuto la stessa tradizione ebraica e cristiana, in un gioco di rimandi, tale per cui risulta difficile cadere nelle banali categorizzazioni tra la «religione della bellezza di Atene» e la «religione dell’obbedienza di Gerusalemme», tra «estetica» ed «etica», tra «ragione» e

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«fede». Il tentativo di semplificare la topografia identitaria europea, alla ricerca di un’unità culturale avversa alle dicotomie, ha fatto della naturale differenza fra i due termini una lacerante e dolorosa polarità, serbando ad uno dei due elementi il legittimo posto di fondamento culturale europeo.

L’identità europea, tuttavia, non si compone semplicemente di questi due elementi, bensì è formata e strutturata per mezzo della sua essenza romana. Ed è precisamente attraverso il paradigma della romanità che il filosofo individua quel terzo termine, in grado di fare emergere non solo il rapporto dell’Europa con ciò che essa ha di proprio e la contraddistingue in relazione ad altre realtà, ma ancor di più capace di accordare gli altri due termini: Atene e Gerusalemme. Pur non essendo secondarie rispetto a Roma esse sono possibili unicamente mediante il suo tramite. «Noi siamo e possiamo essere greci ed ebrei soltanto perché siamo innanzitutto romani» [Brague 36]. L’immagine dei Romani, che emerge alla moderna sensibilità, è in parte condizionata da una rappresentazione negativa di tale civiltà. Un semplice confronto fra la cultura e la civiltà greca o ebraica e quella romana, potrebbe portare alla banale constatazione che di fatto «i Romani non hanno inventato niente» [Brague 38]. Se esiste un merito attribuibile a questa grande civiltà, questo verrebbe unanimemente conferito al dominio del diritto, inventato e tramandato dai Romani alla posterità. L’essenza del diritto, intesa come la forma mediante la quale vengono, regolate le transazioni, reca in sé il segno di quella specificità che ha intessuto la romanità:

«la struttura di trasmissione di un contenuto che non è il suo proprio, ecco il vero e proprio contenuto. I Romani non hanno fatto che trasmettere, ma questo non è poco. Non hanno apportato niente di nuovo rispetto ai due popoli creatori, il greco e l’ebraico. Ma questa novità, l’hanno portata. Hanno portato la novità stessa. Hanno portato come nuovo ciò che per loro era antico. Hanno accettato di porsi dopo i Greci, e dopo gli Ebrei. Si sono rassegnati ad occupare soltanto il secondo posto, o addirittura a svolgere un ruolo secondario; hanno accettato di farsi carico di ciò che qui chiamerò la secondarietà» [Brague 40-41].

Il concetto chiave che guida l’intera riflessione è quello della «secondarietà», con il quale il filosofo intende dare espressione alla capacità tipicamente romana di riconoscersi debitrice e portatrice di una cultura acquisita. Tale proprietà si identifica con la forma formante della cultura europea, stabilendo nel contempo la sua identità

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«La consapevolezza dell’Europa di avere le sue origini al di fuori di sé ha come conseguenza uno spostamento della sua identità culturale, così essa non ha altra identità se non un’identità eccentrica» [Brague 136].

Da qui, il significato del titolo dell’edizione originale francese: Europe, La Voie

Romaine, la cultura romana, cuore dell’Europa, può essere paragonata ad una

strada o ad una via attraverso la quale le tradizioni greca e giudaico-cristiana sono passate, per alimentare e plasmare il continente europeo82.

«Il Greco e l’Ebraico, in quanto intervengono come le due componenti fondamentali dell’Europa, sono entrambi romani. Più precisamente: è perché l’Europa li accoglie entrambi, e da un punto di vista romano, che il greco e l’ebraico possono restare se stessi e produrvi la pienezza dei loro effetti» [Brague 53].

L’Antico Testamento ha con tutta evidenza largamente contribuito a configurare la civiltà europea, sin dalle sue origini. Il modello dell’antico Israele, recepito in Europa secondo l’interpretazione cristiana, presenta una singolare analogia tra la figura di Abramo e l’eroe romano-pagano Enea, entrambi, a differenza del grande Ulisse, rappresentano i lineamenti di colui che «lascia la sua terra, la sua patria e la casa di suo padre» [Brague 62]. Questa non-autoctonia presente nella storia di Enea ed Abramo, riflette un parallelismo riscontrabile nell’approccio romano e cristiano. Come da un lato i romani hanno assunto e fatto propria la cultura e la tradizione greca, così i Cristiani si sono «innestati sul popolo ebraico e sulla sua esperienza di Dio» [Brague 63]. Sicché, è evidente quanto nell’espressione «Chiesa romana», sia insito ben più di un semplice attributo storico o geografico, in quanto, il predicato romano, appartiene all’essenza stessa del cristianesimo, così come viene inteso dal filosofo. Da un lato, la Chiesa assume nei confronti di Israele lo stesso rapporto che Roma aveva stabilito con l’ellenismo; dall’altro, il Cristianesimo «non introduce niente di nuovo in quanto non viene ad aggiungere

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Ancor più esaustiva rispetto alla metafora della strada, lo è quella dell’acquedotto, suggerita al filosofo da B. Placido in una recensione alla prima edizione del Futuro dell’occidente, comparsa su «La Repubblica» il 9/11/1992: «La cultura romana è così una via, o forse un acquedotto, altro segno tangibile della presenza romana. Quest’ultima immagine ha peraltro su quella della strada il vantaggio di esprimere direttamente la necessità di un dislivello. Mentre una strada deve essere il più piatta possibile, un acquedotto è impensabile senza una pendenza. Allo stesso modo, la cultura romana è tesa fra ciò che si trova a monte e ciò che si trova a valle». [BRAGUE, Il futuro dell’Occidente, p. 47]

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qualcosa a ciò che precede; [ma] introduce tutto come nuovo in quanto è il principio di tutto, il principio che vi parla» [Brague 64].

Il principale contributo apportata dal cristianesimo alla cultura europea è di ordine antropologico e politico. L’affermazione del reciproco rapporto tra divino ed umano, stabilisce un paradosso senza precedenti unendo il divino all’umano laddove è facile distinguerli, mediante l’incarnazione, giacché l’uomo non è più dominato da Dio, e allo stesso tempo, distinguendo il divino dall’umano laddove è facile unirli, attraverso la separazione tra potere spirituale e temporale. Il principio di laicizzazione della politica maturato nel panorama europeo ha trovato storicamente la sua primigenia espressione nel passo evangelico «rendete dunque a Cesare quel ch’è di Cesare, e a Dio quel ch’è di Dio» [MT 22,21]. Con questo nuovo dislivello viene sancita cristianamente la separazione del religioso dal politico83, che si oppone alla sacralità attribuita classicamente al potere costituito dalla commistione tra spirituale e temporale, dove «il re è nello stesso tempo sacerdote dello Stato, padre di famiglia e sacerdote della sua casa» [Brague 161]. La cultura europea, nella sua dimensione romano-cristiana, persiste nelle diverse epoche storiche. Continua a distinguersi nel rapporto con il suo proprium mediante l’appropriazione dell’estraneo. Il profilo che assume l’Europa, per la sua formazione storica ideale, è contraddistinto dall’essere l’esito di un processo, «l’Europa non preesiste all’europeizzazione; l’Europa è il risultato