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antropologico del collezionismo tra

“pa esaggio” e

“dimora”

Giobatta Meneguzzo

Anche se penso il Museo Casabianca sia più una struttura da

vedere e visitare che descrivere, ci tengo preliminarmente a precisare qualcosa dell’essere collezionista. Nel senso di colui che raccoglie tutto, una specie di mania a non buttar via niente, sperando il tempo permetta di far rivivere quanto raccolto. Si può certo arrivare all’eccesso, e, nel mio caso, volta in volta per il riordino. Al momento di una risistemazione

it potevano rappresentare qualcosa, e non li ho gettati (Fig. 1). In fondo non vi è molto da raccontare, a parte un fatto, iniziale, che precede il collezionare stesso, qualcosa che hai da bambino, da ragazzo, e che ti porta a raccogliere, per poi cercare di far rivivere quello che hai raccolto, dandogli quel tanto di tocco personale indipendentemente dal valore o meno è un testo che è stato scritto da Paolo Bianchi nel 1992 e che ben mi rappresenta:

La raccolta come testo, il museo come luogo della

trasformazione. Giobatta Meneguzzo intende la sua raccolta come una cronologia di fenomeni dello spirito del tempo, come una cronaca delle visioni e dei messaggi degli artisti del suo

Museo Casabianca di Malo, nei pressi di Vicenza, in un’atmosfera serotina, isolata dal resto del mondo, appesi uno vicino all’altro all’antica maniera del salone, non suddivisi per generi o per stili e non in sequenza, ma quasi in sovrapposizione, viene presentato lo spirito del tempo degli anni ’60, ’70, ’80 con una duplice intenzione: da un lato vediamo le personalità di spicco per quanto concerne gli artisti dei vari periodi. Dall’altro, chi visita la mostra si imbatte nella pluralità degli stili che imperversa in queste epoche. C’è nell’aria un che di enciclopedico. La mostra, per come è allestita, evoca un enorme libro aperto tramite cui Meneguzzo incita alla lettura. I modi di Fig.1

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Ho cominciato a collezionare molto presto, raccogliendo quel che mi pareva giusto, senza pormi il problema se si trattasse di arte o di non arte, avevo fede che le persone che avevo vicino, che incontravo, avessero a che fare con l’arte, ci doveva essere dell’arte, non sarebbe potuto esser diversamente (Fig. 2). Ma non raccoglievo solo per istinto di conservare, ritenevo piuttosto che tutti quei materiali – opere, discorsi, immagini – in qualche modo parlassero anche di me, erano la mia

forma di partecipazione. Bonito Oliva diceva che i collezionisti in fondo sono degli artisti mancati, che hanno certamente una loro creatività, però è come se mangiassero al banchetto della vita attraverso le opere altrui. Avevo collezionato quasi tutti gli artisti più interessanti per me, non solo internazionali, anche gli artisti che avevano legami con il territorio, certo questi non potevano esser molti, considerando che vivo in un paesino di 700 anime. Ma nel momento in cui

un artista entrava nella mia collezione, non importava da dove venisse, avevo bisogno di entrare in contatto con lui, e così si instaurava un rapporto diverso per comprendere il suo lavoro, prestarvi attenzione per poterlo integrare. La mia collezione nel 1992 era già cospicua, un po’ enciclopedica, comunque sempre contemporanea al mio mondo. Insieme a me crescevano l’artista, il gallerista, il critico, cioè cresceva un insieme, un corpo di relazioni Evidentemente ho anche avuto un buon successo, ripensando ad esempio alle opere che ho raccolto degli anni ’70 (Fig. 3). E come viene testimoniato con le tante iniziative che hanno iniziato a organizzarmi a Prato, e poi Bregenz, Bolzano, Graz, e altre città ancora, quasi più fuori casa che in casa.

Il mio rapporto con l’artista non era tanto basato sulla

questione di cosa fosse arte o meno, di cosa dovesse essere considerato concettuale o artigianale. Non era questo il problema, il problema era partecipare. Essere una parte dell’organismo dell’arte; è logico che nel sistema dell’arte questo mondo non può produrre solo opere di grande rilievo, opere per così dire monumentali, produce anche altre cose, un tipo di materiale che a me soddisfa di più pur se non maggiore, cosa che non si può comunque escludere, ma è un tipo di materiale che permette, soprattutto a me, di partecipare più da vicino alle opere prodotte dagli altri. Dicevo all’inizio che vorrei aver potuto portare qui il Museo Casabianca, e invece son venuto io, perché anche il collezionista diviene egli stesso oggetto di analisi, anche lui rientra nel mondo dell’arte e viene osservato non solo perché accumula opere o investe denaro. Tornando al 1992, dopo le diverse uscite espositive, la mia ambizione era fare della mia collezione un museo, senza che io avessi fatto studi particolari di settore, pur avendo negli anni conosciuto persone che lavoravano in questo ambito. Mi rendevo conto, anche oggi quando ritorno ad allestirne qualche parte – il mio museo è come un gran bazar, non vi è quasi più spazio per aggiungere altri quadri – che facevo qualcosa al limite di ciò che quell’artista, intendo il singolo artista, avrebbe potuto accettare, perché proponevo accostamenti non ovvi fra opere e percorsi artistici. Quel che succede quando io accosto un artista o un gruppo di artisti ad oggetti, cose e situazioni diverse, è che creo di fatto un mondo nuovo. In una delle frequenti visite al museo, un’artista che era fra i visitatori si è molto seccata per la pienezza delle pareti, quasi ti vengono addosso, ed effettivamente, se si pensa in possa debitamente risaltare. Come artista, giustamente, lei invece di fronte a una persona che aveva più soddisfazione nel restituire un senso della complessità. Mi rendo conto che l’artista, l’artista vivente soprattutto, nel mio modo di concepire l’allestimento vi può perdere qualcosa, ma il mio compito non è quello di fare della storia dell’arte accademicamente intesa. Quel che invece vi si guadagna è una percezione del costume dell’arte, il mio problema è semmai fare la storia del costume dell’arte, delle relazioni nell’ambito dell’arte, del ruolo che Fig.2

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vi giocano gli elementi meno appariscenti, apparentemente secondari, ma che testimoniano anche della mia stessa presenza, della mia frequentazione di quel mondo in un dato momento, in una data situazione. Vi faccio un esempio di quel che intendo. Aprendo

un articolo dedicato a Baselitz. Nel 1972, in pieno periodo concettuale, io non mi ponevo allora e non mi pongo neppure ora il problema di interpretare l’opera, ma di comprenderla sì, mi ritrovo in una cartella con due immagini di impianto quel portfolio, e nel contesto al quale prestavo attenzione? Le sentivo completamente slegate rispetto agli altri materiali. Così scopri che qualche volta il momento dell’artista non emerge come dovrebbe, non emerge la sua qualità perché rispetto al contesto che lo circonda è come se non vi si adattasse. anni della Transavanguardia, emergono anche altre importanti personalità che stavano alle spalle di quel periodo, che noi avevamo per così dire trascurato. La bravura di Baselitz è che invece proprio a partire da quel tipo di immagini di una decina d’anni prima sarebbe cominciata per lui una nuova vita. Ma vi sono parecchi di questi esempi, cioè vi è un tempo per l’opera. Così come era nondimeno importante per me che la mia

collezione, anche se non corrispondeva a canoni musealmente corretti, venisse resa pubblica, perché è il pubblico stesso che può dare una risposta a quanto gli viene proposto. Quel che io raccoglievo era soprattutto qualcosa da lasciare all’attenzione del pubblico, non tanto la questione se fosse o non fosse opera d’arte, il pubblico è una componente molto forte del sistema dell’arte. Se si interroga l’opera d’arte, e ci si dà il tempo di aspettare, quella risponde. Questo per me è importante. Sono stato tecnico al Comune di Malo per parecchi anni, e ricordo che, per la Sopraintendenza, una proprietà oltre i trent’anni di possesso, doveva essere protetta,

indipendentemente dal fatto che essa avesse o meno un valore artistico. Mi domando allora se il tempo non sia esso stesso qualcosa di importante, che non riguarda tanto la qualità o l’esser fatta dell’opera, ma è un fattore che concorre a garantire quel che preme al collezionista, cioè una risposta che può essere data dall’atteggiamento del pubblico nel tempo. Vi vorrei raccontare un paio di aneddoti. Un giorno il Comune mi manda un operaio per coadiuvare nelle pulizie del Museo.

Come sapete, nei piccoli paesi gli incontri avvengono sovente la domenica dopo la messa, oppure nei giorni di mercato, e in quest’ultima occasione lo incontro, mi chiama da parte per comunicarmi che secondo lui nel museo c’è un grosso errore. Hanno disegnato la Casabianca con la luna dietro. Ma non è possibile, dice, la luna non è mai da quella parte. Un’altra volta capita che un amico, stupito, mi chieda, ma Giobatta quand’è che hai messo quell’opera lì? Rispondo che è da vent’anni che è lì. Quel che voglio dire con questi due piccoli aneddoti è che per me è importante che mi vengano dette queste cose, perché implica da parte delle persone uno

consapevole che il Museo Casabianca può essere osservato criticamente, per me però andrebbe piuttosto considerato come il Vittoriale, dove le cose sono lì per come devono essere e gli spazi li devi attraversare per rendertene conto. Le cose sono lì come le ha collocate e pensate il protagonista, se le sposti anche di poco, in un attimo qualcosa e quel mondo viene perdendosi. Per fortuna ho ancora una buona memoria visiva, e riesco a immagazzinare quel che mi preme, però ora la questione è se riesco anche a comunicarlo, per questo sono con voi oggi. Il museo adesso è molto frequentato, certo limitatamente alla domenica o ai giorni festivi in considerazione che è un po’ fuori mano, e non sono solo i giovani che lo frequentano, ma anche persone relativamente attempate, fra i quaranta e i cinquant'anni.

Questo per me è molto positivo. Quando ho inaugurato nel 1978 al clima di quegli anni, però è molto interessante che ora quella

(Fig.4). Divengo cioè il sovrintendente del mio lavoro, e mi accorgo che, non riuscendo più a fare una artisti, piuttosto mi dedico a un lavoro di messa insieme di quegli elementi che l’informazione contemporanea continua Fig.4

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a generare rispetto agli artisti che sono nella mia collezione. Dopo il 1995, data nella quale ho prodotto una piccola guida del mio allestimento, in pratica si chiude il rapporto primario del collezionista Giobatta Meneguzzo con le opere e con gli artisti, e inizia un’altra fase, partendo dalla considerazione della rilevanza di quel che è già stato collezionato, e lavorando piuttosto all’aggiornamento e all’incremento delle informazioni inerenti i protagonisti della collezione medesima. All’interno del museo ho così organizzato un nuovo sistema di archiviazione dei dati, in costante incremento e aggiornamento. La storia dell’arte certamente si fa con la storia dei capolavori, ma la storia del costume dell’arte si fa nondimeno con le opere relativamente meno importanti, dunque anche le opere minori e le informazioni e i diversi materiali che le riguardano. Alle spalle delle opere d’arte così come le conosciamo vi è dell’altro. Ed è questo che ho provato a fare, e a raccontarvi.

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Arte e Industria.

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Due mondi si