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dell’opera visiva

Sandro Sproccati

È noto che fu Peirce a parlare per primo di linguaggio

dell’immagine, introducendo cosí l’idea (per i suoi

come modalità di semiosi comunicazionale, e dunque in qualche modo aprendo anche la strada alla possibilità di contaminazioni tra il loro linguaggio (iconico, per usare

simbolico per eccellenza, quello verbale. Parola-immagine: esperienze di ibridazione dei processi di comunicazione estetica che risalgono, a ben guardare, a epoche remote, ma che – per quanto riguarda lo sperimentalismo del Novecento, capace di valorizzare appieno tale collaborazione semiotica – si possono riconoscere come attive a partire dall’ultima grande operazione poetica di quel genio assoluto della letteratura francese che è Stéphane Mallarmé, con il suo poema intitolato Un coup de dés jamais n’abolira le hasard…

Il percorso è lungo, e ha visto anche progressive accelerazioni sul piano della sperimentazione, sia sul versante di una

parole in libertà futuriste e nelle Tavole parolibere di Filippo Tommaso Marinetti, sia su quello dell’acquisizione degli esponenti del costruttivismo sovietico, Lazar El Lisickij e per questa conversazione, una fase abbastanza recente, che ovvero quella in cui – una volta fatto il punto sulle conquiste del cosí detto concretismo poetico (mi riferisco ovviamente sviluppatasi tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, principalmente in due centri lontani tre loro, il Brasile del Gruppo Noigandres e

mai stata superata, se non occasionalmente e in maniera non programmatica... Intendo riferirmi alla barriera della pagina,

poesia visuale dimensione della pagina come conseguenza inevitabile al la scrittura, essa lo fa trasformando la pagina da supporto occasionale di una linea di grafemi che può essere continua,

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come ad esempio nei codici a rotolo antichi – e che dunque la pagina, in quanto spazio rettangolare, accoglie solo per motivi di economia spaziale – in un supporto semioticamente e strutturalmente organizzato, tale da poter essere assimilato, almeno per certi aspetti, al supporto dell’opera pittorica, e quindi capace di trasformare la scrittura, proprio grazie a questa sua consistenza di luogo strutturale, in fatto anche visivo. A parte certi momenti assai particolari, la scrittura non perde la sua dimensione operativa essenziale, che consiste parola orale, dato che nell’ambito delle scritture fonetiche il

attraverso i codici linguistici dell’immagine. Pur rimanendo scrittura, la scrittura si fa altresí immagine, combinando deve realizzare una nuova strutturazione della pagina in

lo spazio pittorico come «uno rettangolo, di retti angoli, per donde io miri quello che quivi avrò dipinto» [De Pictura, 1435]. Matisse diceva che i quattro bordi del dipinto sono le parti piú importanti del medesimo, e che tutto ciò che c’è sul dipinto deve dipendere da essi. Questo è concepire il quadro poesia visuale, da Mallarmé in avanti, intende la pagina. Le esperienze di cui vi voglio parlare oggi, però, sono quelle che superano appunto questo limite del supporto piatto, anche nella sua nuova veste di tavola geometrica visuale, ovvero quelle che mettono in discussione il dato stesso della

estendendola, tuttavia, anche a un sorta di epilogo che verte su esperienze capaci di assorbire la scrittura all’interno di opere della maggior parte dei lavori della cosí detta Arte Povera, nei installazioni che hanno a che fare piú con la scultura che con

la pittura, oppure che comunque si pongono il problema di un rapporto diretto con l’ambiente reale.

Tra gli anni Sessanta e i Settanta, che è grosso modo il

periodo che ho preso in considerazione, abbiamo appunto una

capaci di coniugare la scrittura con supporti e istanze visive che hanno tutte le caratteristiche dell’oggetto tridimensionale. venisse emancipata da quel vincolo che sembra derivare dalla

che risale in verità al tardo Medioevo.

Passerei ad addurre esempi, e dunque a parlarvi di alcune tra quelle che secondo me sono le manifestazioni piú oggettuale. Inizio dai lavori di un artista molto interessante, ossia di un poeta visuale collocabile in una dimensione artistica piú ampia, che infatti ha realizzato anche opere che non prevedono il ricorso alla dimensione della parola, sempre utilizzando, tuttavia, la tecnica del collage. Non parrà un caso dunque – come ha già ironicamente osservato tiene conto del fatto che la pronuncia del suo cognome in è quasi esattamente la stessa della parola che in francese indica la tecnica artistica in questione, cara ai dadaisti e anche a Matisse. Ripellino per altro, nella sua analisi critica del

Saggi in forma di ballate [Einaudi, 1978], osserva compiaciuto come uno dei maggiori esponenti della prima avanguardia pittorica praghese, molto legato alla lezione di Braque e di Picasso, portasse anch’egli un nome quanto mai tendenzioso: Bohumil Kubišta.

procedono solerti nella direzione della messa in crisi del viene infatti tradita nella sua neutralità e in qualche modo che è del 1962, si intitola Il poeta è un serpente, e sembra

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nascere dal recupero di un testo poetico precedentemente ritenuto fallimentare dal suo autore, un testo che però – una volta recuperato e riproposto con tutte le relative crepe e spiegazzature – va a ricavare nuova dignità espressiva proprio dal fatto di essere divenuto illeggibile, e di conseguenza si pertiene principalmente alla deformazione subita dal suo

supporto cartaceo. Un fenomeno simile lo troviamo anche in Allegro, dello stesso 1962, benché qui ci sia qualcosa di ulteriore, dato che il foglio recuperato è uno spartito musicale, per cui il suo essere crepato e spiegazzato determinato dalla rottura della linearità ortogonale del pentagramma, la quale va cosí anche a suggerire nuove

(Fig. 1). Quasi come se un Adagio

dal suo autore, potesse rivelarsi un ottimo Allegro una volta che il foglio è recuperato e riproposto con tutte le plateali sincopi visive dei danni che ha subíto.

della pagina: per esempio con questo lavoro che vedete, intitolato alquanto sardonicamente La mela

quale la scrittura avvolge con le sue spire un piccolo oggetto tridimensionale della forma e delle dimensioni, appunto, di il tentativo di ottenere effetti poetici da strutture espressive che hanno ancora a che fare con la poesia (proprio perché la

Ma è un grandissimo poeta italiano – relativamente poco

completo. Sto parlando di Emilio Villa, che da qualche anno clandestinità, e, anche se non si può certo dire che sia oggi popolare (ma del resto il nostro è un paese in cui sono popolari solo gli imbecilli, e dunque è meglio cosí... è meglio che non

specialistici. Coro della Schola Cantorum

(Fig. 2), e pertanto ricorda da vicino i Rotorilievi di Marcel Duchamp; si tratta tuttavia di un aggiornamento in chiave squisitamente poetica dell’idea originaria dell’artista francese, dato che per Duchamp quel che contava era l’illusione ottica data dalle curve rotanti sul piatto del grammofono, e dunque un effetto e una grammatica in grado di anticipare semmai le esperienze della Optical Art, mentre in Villa c’è piuttosto la riscoperta – attraverso la suggestione offerta dalla presenza (come supporto al testo il disco di vinile – dell’implicita e fondativa dimensione come forse sarebbe anche troppo banale e scontato, ma

nel dettato verbale di un francese quanto mai trasgressivo e per metterne in movimento il testo... naturalmente non si ode di piú di quanto non si veda già cosí, a disco fermo, perché il carattere estroso della costruzione verbale (che è una incrementato dalla rotazione e reso piú dinamico. Le Idrologie,

vetro piene d’acqua, quasi alambicchi alchemici all’interno

forse, opere di impervia decifrazione certamente, che tuttavia che allestiscono, a partire dalla già sottolineata vistosa

come locus novus della scrittura. Qualcuno ha parlato per di pensiero e di gesto che si pone esattamente come inadeguatezza assoluta rispetto al tempo in cui ha vissuto

sua opera attenda sempre e ancora di essere compresa, nonostante i bellissimi volumi che le sono stati dedicati da Aldo Tagliaferri nel 2004 [Il clandestino, DeriveApprodi, Roma] e da Cecilia Bello [Emilio Villa, l’opera poetica, L’Orma, Roma]. Fig.1

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Vi propongo poi un lavoro di Mirella Bentivoglio, poetessa italiana abbastanza penalizzata, in quanto donna, dal fatto stesso di esserlo, e che tuttavia deve essere considerata occupando. Questo suo lavoro si intitola Poema oggetto: vita (Fig. 3), è del 1968 e si avvale di una scrittura (la parola

– si potrebbe ipotizzare che la durezza e crudeltà della materia del

veicolano sensazioni di sofferenza, forse anche per via di rimandi subliminali a modi di tortura... e non voglio arrivare alla croce di Cristo, ma insomma: violenza e

parola /vita/ non potrà mai dire; questo implicherebbe modo da implementare le normali capacità semantiche della scrittura attraverso estensioni improprie, cosí rafforzando un novecentesca, quello secondo cui la contaminazione tra i codici moltiplica la forza espressiva del testo.

Anche Arrigo Lora Totino, grande sperimentatore di modalità inconsuete nel campo della poesia su carta o su tavola bidimensionale (in sostanza ottimo poeta concreto, tridimensionale e oggettuale, come ad esempio in questo suo ée e éeilli, un lavoro che ugualmente si colloca intorno al 1968. Ma piú suggestivo e persuasivo ci appare oggi Lightitude

in cui la parola /lucentezza/ si illumina a mezzo di un

interruttore, essendo formata di valvole elettriche che recano stampigliati i caratteri alfabetici della parola stessa, la quale

scarsissima vocazione referenziale (il discorso vale anche per Vita

che veicolano... come se, appunto, la ricaduta cognitiva che la visualizzazione comporta (la vista che coglie gli oggetti e non

del lavoro di Diacono, che si può considerare degno seguace effetti sparisce quando le valvole vengono accese, dato che la loro incandescenza rende invisibili i caratteri alfabetici, coincide con l’impossibilità della sua descrizione verbale. Si tratta di un gioco che mette in discussione proprio il rapporto tra la nominazione di una cosa e la cosa in sé, ossia che sottopone a decostruzione critica l’arcaico e immarcescibile conoscenza della realtà. Un assunto che pare derivare addirittura dalla Bibbia, se è vero che nel Genesi Dio, dopo aver creato Adamo, lo invita a nominare a uno a uno tutti gli animali e gli oggetti già creati; e in questo modo gli consegna le chiavi dell’universo, gli dice: tu avrai la conoscenza, perché tu sai nominare, perché – solo tra tutti gli esseri viventi – possiedi il linguaggio; e si tratta, poi, dell’assunto che sta alla base dell’episteme dell’Occidente. In tal senso, mettere cosa in sé e la possibilità della sua conoscenza attraverso la sua nominazione (noi sappiamo cos’è la luce perché ne possediamo il concetto, dunque perché il linguaggio lo elabora non è un giochino da bimbi, benché quasi come un giocattolo si presenti il lavoro di Diacono, ma piuttosto un’operazione che Passando attraverso Ugo Carrega, Piccola Liguria

Katué, che è un interessante poeta visuale giapponese, il quale, con il suo Plastic Poem, realizzato intorno al 1970, presenta una sorta di origami

come tutti gli origami – esso ha natura di oggetto ed è fatto di carta, e poiché la carta impiegata dall’artista proviene Fig.3

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lavoro di Giulia Niccolai, Poema & Oggetto (Fig. 4), che presenta una macchina da scrivere – strumento fondamentale dell’attività poetica – sui cui rulli è stato reinserito un foglio di carta stropicciato (un po’ come quelli tautologia: c’è il poema in quanto c’è la parola che lo nomina, e c’è l’oggetto perché c’è la macchina che serve a scrivere i poemi; dall’altro si potrebbe supporre che vi sia stato in precedenza una sorta di simbolico pentimento operativo: il poeta voleva scrivere un poema fatto di parole su un foglio di carta A4, e dunque voleva realizzare un normale testo di poesia

lineare, ma poi ha con rabbia strappato via il foglio dalla macchina – dopo aver scritto il titolo – e si è quindi reso conto che la relazione visiva tra quel foglio spiegazzato (con quella e la macchina stessa poteva essere già in sé un’opera d’arte compiuta.

Molto suggestivo è

secondo me uno dei primi lavori di Maurizio Nannucci, un artista che personalmente stimo molto. Egli realizza nel 1966 una specie di gioco per ragazzi, intitolandolo Poema idroitinerante: rosso, che è costituito da una scatola dai bassi bordi riempita con un velo plastica. Ciascuna pallina mostra allo spettatore una lettera dell’alfabeto stampigliata sulla sua calotta superiore, e piú precisamente tutte le biglie insieme recano due volte le lettere che servono per scrivere la parola /rosso/ (due «r», quattro

da costruire la parola in questione, e giungere – per cosí impossibile da giocare… Si comprende bene, in effetti, che assumere un qualunque lay-out

e che sarà, oltre tutto, sempre estremamente precario nella propria struttura, già pronta a mutare non appena trovata; ma è chiaro, altresí, che tali possibilità sono solo teoriche, e che

in pratica nessuno ci riuscirà mai, oppure ci riuscirà soltanto grazie a un intervento miracoloso del caso. Tale testo è visuale, essendovi in gioco la forma e il colore delle biglie, il loro movimento sull’acqua, l’interazione operativa tra opera e fenomeni ondosi che ne derivano.

Tale lavoro giovanile di Maurizio Nannucci ci introduce ad

e anche assai pertinenti rispetto all’argomento di cui ci stiamo occupando. Ve ne mostrerò due. La prima si intitola Leggere, parlare, scrivere

vediamo l’artista di spalle che tiene di fronte a sé un libro

a ricopiare sul blocco la scrittura a stampa del libro che sta leggendo... Nannucci stesso ha sempre tenuto a precisare che

estrema nettezza quelle azioni performative che esistono come – il modello è in questo caso il teatro, dato che rispetto a

invece eseguite con il chiaro ed esplicito scopo di ottenere ne ricava – e il modello sarà in questo caso il cinematografo. Ma in Leggere, parlare, scrivere, c’è una situazione ancora specie di scrittura, dato che essa sta al gesto dal vivo, di cui alla parola parlata. Il rapporto tra scrittura e parola parlata è però anche il tema dell’opera: il titolo ci dice infatti che nel percepibile – e che c’è anche la voce, la parola dell’artista che Fig.4

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ha a che fare con la scrittura, è chiaro che l’opera si fa momento scrive l’immagine immagine della voce. Poesia visuale, dunque? Probabilmente sí, anche se decisamente al limite...

Altrettanto interessante, secondo me, è un altro lavoro di Nannucci, sempre del 1973: Scrivere sull’acqua. Si tratta di

(Fig. 5). Scrivere sull’acqua, lo sappiamo, è un’utopia; le parole scritte sull’acqua sono quelle che nessuno può leggere, sono quelle che sono già perdute nel momento stesso in cui vengono scritte. Ma la scrittura, sappiamo anche questo, è esattamente ciò che nasce, presso gli esseri umani, a un certo punto della loro storia sulla terra, proprio per porre rimedio alla dispersione e alla precarietà della parola parlata («verba

sulla propria tomba «Qui giace uno il cui nome era scritto sull’acqua», e ovviamente lo fece scrivere, con profonda incisione

appresso... Nell’opera di Nannucci, che anche in questo caso

mano che il suo dito procede per dar forma al segno, l’acqua cancella – quasi istantaneamente – ciò che egli ha tracciato un attimo prima...

che un fotografo non scatti via via immagini di quelle (tentate formarsi e l’esistere precarissimo dei segni alfabetici. Di fatto la

scrittura – riesce, almeno in parte, ad annullare la precarietà proverbiale della scrittura sull’acqua e a renderla possibile. L’immagine della scrittura impossibile diviene una scrittura possibile. E non è un caso

riprende – con la propria struttura ortogonale – esattamente la processualità consequenziale (da sinistra a destra e dall’alto in non sarà mai riducibile alla necessaria dimensione della pagina, perfettamente impaginata diviene viceversa la “scrittura

dimensione cronologica a dimensione spaziale, esattamente ricostruire – o quanto meno intuire – che cosa è stato scritto di questo lavoro di Nannucci sta proprio nel suo proporci quella

a vincere la vocazione all’autodissolvimento che è prerogativa radicale dello scrivere sull’acqua... e pertanto nel suo proporci il desiderio come qualcosa di piú forte di qualsiasi ostacolo, l’idea di un tentativo (che è tentativo di conservazione, di consapevolezza del suo carattere fallimentare.

Concludiamo con alcuni esempi tratti dall’ambito dell’Arte Povera, nei quali si possono rinvenire interessanti occorrenze di un felice rapporto tra scrittura e oggetto artistico. Non non è quello della poesia visiva, ma siamo comunque di fronte a modalità di espressione verbo-visuale declinate – per cosí dire – partendo dalla logica di arti plastiche (piú nei pressi della linguaggio verbale quasi come fossero materiali aggiuntivi. Ciò, precisamente nel contesto piú generale di quel tripudio di materiali insoliti, ossia tradizionalmente estranei alle attività estetiche, che caratterizza l’ultima importante stagione dell’avanguardia artistica italiana. Si possono citare opere come Ping Pong

sul muro, a breve distanza l’una dall’altra e secondo un ritmo visuale. Oppure si possono ricordare molti dei lavori di Mario Merz (Sitin, del 1968, le varie versioni di Objet caché toi, dello Fig.5

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stesso anno, o anche Città irreale

ispirati, nella loro ideazione, da quelle forme di scrittura luminosa che inglobano nelle proprie trame polimateriche, e che rendono operative anche in chiave sinestesica... In Sitin, ad esempio, la scritta al neon ha il compito anche di intiepidire lo strato di cera d’api su cui riposa, producendo l’esalazione del forte profumo dolciastro della cera riscaldata, cosí che al

Affascinanti sono ancora le opere di Pierpaolo Calzolari, che

le scritte stesse fanno la parte del leone, come Impazza angelo artista, Il mio letto cosí come deve essere,

farmi suonare, tutte del 1968. In esse la scrittura si dà in un

di Giovanni Anselmo che mi preme segnalarvi, Invisibile, del 1973, formato da un parallelepipedo di metallo che sembra essere stato spezzato in due, o meglio da due parallelepipedi di metallo che sembrano provenire da uno solo. Il sentimento di questa ambiguità tra il blocco unico e i due blocchi deriva direttamente dal rapporto che agisce tra il fatto che i due solidi hanno le basi identiche, allineate in perfetta continuità spaziale, e il fatto che su quello piú lungo, a destra, campeggia

/in/ se ci fossero; e se quella porzione assente – che cosí però viene ad essere ugualmente letta

c’è, e che dunque manchi un frammento, ovvero il fatto che i blocchi siano effettivamente due, a rendere realmente potrebbe ipotizzare che l’opera venga a sostenere che la parola /invisibile/ non potrà essere vista (e quindi nemmeno

l’accanimento è necessario a comprendere un altro aspetto del lavoro in questione: e cioè che esso tratta la parola (la dato che è solo in una dimensione materiale, e non simbolica, tra la parola e l’oggetto spinta ai massimi livelli, dunque, e

realizzazione trionfale delle ragioni di fondo che sostengono giunge a scatenare un paradosso gödeliano: visibilità e invisibilità giocano tra loro un gioco inestricabile di smentite reciproche e di ritorni pleonastici sul nulla che c’è da dire, per mezzo della parola, e che c’è da vedere, quanto al corpo della parola stessa e dell’oggetto che la comprende. Indecidibile, potrebbe essere allora il titolo

mi sembra degno di rappresentare l’epigrafe di questa chiacchierata: Odio (colpi d’ascia sul muro), 1969 (Fig. 6). Un’opera oggettuale che è al tempo stesso una performance, e della quale, infatti rimane oggi solo una foto di documentazione. Sul muro di una galleria d’arte Zorio ha espresso tutto il proprio odio generale per l’umanità, forse per una persona particolare che la parola /odio/ con un’ascia, ossia con l’unico attrezzo che può lasciare nel muro profonde ferite, in forma di caratteri alfabetici stravolti dall’ira, e che simultaneamente può rendere lega. E anche qui siamo di fronte a una perfetta esaltazione

che simbolicamente esprime – come realizzazione piena della Fig.6

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L’opera come titolo

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Francesco Poli

Il rapporto tra parola e immagine, nell’arte contemporanea e in

generale per quel che riguarda le Verbovisioni, è sempre stato parte dal problema in generale del titolo delle opere visive, un excursus che attraversa epoche diverse, per arrivare al momento in cui il titolo diviene l’opera stessa.

L’opera pensata nella sua relazione con il titolo non è una cosa da considerarsi ora così innovativa. Vi è il precedente