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sconfinamentoLuigi Viola

limiterò a mostrare e commentare qualche immagine che possa aiutare a comprendere meglio il mio lavoro, il percorso da me fatto, anche in relazione alle opere che sono state esposte per

con precisione la modalità operativa del lavoro e lo spirito che

militante per le esperienze della poesia visiva, Rossana

appunto come unione e sintesi di linguaggi diversi operanti secondo un principio di polisemia globale.

Anche questo concetto dunque potrebbe ben riassumere il senso del lavoro degli artisti che in quei primi anni ’70 operavano tra parola e immagine. Un tentativo utopico, che sono forse le ultime, essendo venuto in seguito a cessare lo spirito che le aveva sostenute. In quel momento invece tale spirito ancora c’era e faceva sì che l’artista fosse

portato a interpretare il proprio ruolo come quello di chi deve continuamente sfondare e oltrepassare i codici, continuamente produrre delle novità nel linguaggio, e questo non poteva che manifestarsi nella pratica di costruire nuove relazioni linguistiche, che mettesse insieme ma anche fondesse insieme, facesse lavorare insieme tutti i diversi livelli dell’esperienza. Quello verbale, quello visivo, quello sonoro, corporeo. Inizio a lavorare in questa direzione intorno al 1970, i primi lavori che riconosco come tali sono infatti di quell’anno. Avevo vent’anni e anch’io, come altri, venivo dalla pratica della scrittura lineare, allo stesso modo del Cristo Cancellatore Emilio Isgrò di cui ha parlato Nico Stringa e di altri come Ugo Carrega, Adriano Spatola, e altri. Avendo compiuto in precedenza esperienze sia di natura poetica che di natura visiva, sentivo profondamente la necessità di fare un lavoro che potesse risolvere la separatezza dei linguaggi. Ora, questo nucleo fondante del mio operare che si basa sulla funzione della parola come elemento importante per delineare delle metafore, per aprire delle suggestioni, dei mondi, è un elemento che, pur nella diversità e complessità

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delle esperienze compiute da allora ad oggi, rimane

costantemente presente e questo vorrei, per quanto possibile, mostrarlo attraverso una comparazione tra i lavori di quegli anni e il lavoro più recente. I primi lavori del 1970 (Viola

realizzati con lettere adesive su carta da disegno, utilizzando dei piccoli album tascabili che avevo in studio. Ho iniziato a incollare le lettere adesive, volendo rovesciare il tradizionale rapporto tra l’immagine e la sua siglatura tramite l’atto della

tutti gli effetti e nella sostanza, ponendo l’attenzione non solo sulla dimensione visiva della lettera colta nella sua struttura, grazie anche alla scelta dell’ingrandimento di un particolare, ma proprio sul nome, il mio nome, come doppia metafora, riferita all’identità da una parte, al colore della pittura dall’altra. (Fig. 1)

Quello che si vede può sembrare un lavoro d’impronta minimalista, ma in realtà uno degli elementi più importanti è proprio l’interesse per l’aspetto identitario che poi diventerà uno dei temi principali che attraversano il mio lavoro. La dimensione della soggettività è inoltre una caratteristica dell’esperienza poetica in sé. Questi aspetti torneranno spesso più avanti. Ricordiamo che questi sono anni in cui si sviluppano pienamente le poetiche concettuali, le quali tendono a

determinare una visione molto razionale, decisamente fredda dell’opera, mentre nel mio lavoro, grazie alla sua ineludibile natura poetica, questo elemento tenta un bilanciamento di altra natura, introducendo un richiamo alla dimensione soggettiva, che sfugge alla pura e semplice La serie contemporanea delle Apoesie presenta piccoli lavori realizzati con stampini a tampone di lettere, sottolineando ancor più la dimensione individuale ed esistenziale da cui essi sono generati e nella quale l’artista si trova (Fig. 2).

È una condizione che ha a che fare con la ferita, con

l’esperienza della rottura, della soluzione di continuità, dello squilibrio, della ferita appunto, oppure che si manifesta come una sorta di azzeramento delle capacità poetiche, incapacità di pensare, di dire, “abulia, afasia, acefalia, apoesia, NON poesia Scrivere per il piacere, del ’72, è una serie di lavori realizzati su carte assorbenti colorate, materiale desueto da quando non si scrive più intingendo il pennino nell’inchiostro e già allora fuori corso nell’uso. In questa scelta del materiale c’è quindi una nostalgia per una certa pratica di scrittura, il sentimento di una perdita unito alla passione per i materiali che caratterizza anche gran parte del mio lavoro successivo, che introduce con frequenza l’uso di materiali diversi, spesso frutto della ricerca tecnologica, come negli Exillandschaften degli anni ’90. Le carte assorbenti raccolgono tracce di scrittura che delle diverse pressioni del pennino, espressione peraltro di un piacere sottile della scrittura, che si realizza attraverso il gesto e la pressione della mano sulla carta, ma anche allo diretti, di colori schizzati a seguito di un’azione non deliberata, intento comunicativo.

Negli Autoritratti del ’74 si nota ancora un lavoro sull’identità, un modo che l’autore ha di riconoscersi, di dire il proprio nome, di dire se stesso attraverso la testimonianza dei segni rimasti nello studio dove egli lavora, attraverso le tracce, i segni minori, i rimasugli di carta e i colori utilizzati nello studio. Questi

frammenti del tavolo di lavoro costituiscono i miei autoritratti, come dichiarato dalla scrittura che li accompagna. In quei frammenti ci sono proprio io, visto attraverso i colori e i segni del tavolo di lavoro, in modo in fondo un po’ simile a Jacqueline di Emilio Isgrò, indicata dalla freccia nel lavoro del 1965.

Dell’anno precedente, 1973, era la performance In quibus membris corporis humani sacra religio, alla Galleria Pilota di Milano, così chiamata dall’artista Iro Novak che l’aveva aperta insieme a sua moglie Patrizia Centofanti, perché davvero voleva avere un ruolo pilota nel proporre esperienze innovative. Della performance, che consiste in un’operazione di scrittura

documentazione possibile. (Fig. 3) Fig.1

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I primi video spesso nascono come forma di documentazione di una performance. Peraltro, come è ovvio, la documentazione era parte integrante ed essenziale di lavori destinati a

compiersi esclusivamente nell’azione realizzata in tempo reale. Quel che è interessante è che qui si tratta di un lavoro di scrittura sul corpo. Il corpo, nei suoi valori, nella sua sacralità, messo a nudo nella sua assolutezza, privato di ogni orpello esteriore, viene inteso come luogo generatore di scrittura. Le

sacra ad essa attribuita.

Del 1975 è Renaissance in cui, dialetticamente con la

performance del ’73, è il mio stesso corpo ad essere messo in gioco, attraverso una scrittura che porta alla riscoperta della sua natura sacra e delle energie celate. Come, ad esempio, la forza segreta che risiede nel lobo dell’orecchio (Fig. 4), che, sollecitato, fa tornare la memoria (Memoriae locus

insieme all’identità e al tempo, che qui è già toccato. Nei Corpi di Poesia del 1975, curiosamente proprio in un momento di massima diffusione delle poetiche concettuali fondate sul rigore assoluto, bandito il colore, come anche nel mio stesso lavoro contemporaneo, vengono fuori invece dei lavori molto colorati e molto manipolati, tutt’altro che distaccati. Le carte

loro aspetto e consistenza, facendo assumere loro rugosità e pieghe, vengono poi impregnate dal colore monocromatico, ma con effetti di sfumatura, dato in abbondanza e con tra loro con evidente risalto della matericità e di una

frammentarietà, ricomposta sì ma senza concludersi in una forma esatta, veramente geometrica, vengono associate delle brevi ma dense annotazioni poetiche che esprimono lo stato d’animo dell’autore, una condizione mentale collegata al Contemporaneamente nel gennaio del ’75 inizio a produrre i la concreta possibilità di utilizzare tale strumento. All’inizio mi ero rivolto a una équipe formata da due giovani amici,

Massimo Grandese e Francesco Fracasso, che avevano puntato sviluppo e creando il Centro Audiovideo Venezia, con l’intento di produrre qualcosa di innovativo. Cancellazioni è un video in cui si registra una serie di azioni simboliche da me compiute nelle calli di Venezia con una fascia nera che di volta in volta si trasforma in benda per gli occhi, in legaccio per imprigionare interamente il libro, oscurando del tutto la scrittura mentre io declamavo pubblicamente i miei poeti preferiti, svuotando galleggiare sui canali o sparse sui masegni delle calli, spesso prontamente raccolte dai passanti.

Subito dopo la produzione col CAV nasce la collaborazione con Paolo Cardazzo della Galleria del Cavallino, tradizionalmente sede delle proposte artistiche più avanzate a Venezia, molto attenta a tutti i fenomeni culturali e a quello che succedeva Cardazzo. In particolare era stata la sua grande curiosità e il senso nobile del gioco a spingerlo a compiere l’acquisto del primo portapack, mettendo l’attrezzatura a disposizione degli artisti e cominciando a produrre dei lavori video in un come videoarte. Pensando a quello che è stato già detto sulla damnatio memoriae di ciò che si fa a Venezia, ricordo che, quando io insegnavo a Brera nei primi anni ’90, avevo avuto un’occasione di mostrare quello che si produceva negli anni ’70 in questa città e gli studenti erano rimasti molto colpiti

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perché pensavano che il video fosse nato negli anni ’80 con Studio Azzurro fondamentalmente, idea che giustamente fa scandalizzare anche Plessi. In realtà Venezia è stata negli anni ’70 uno dei grandi centri italiani della produzione di arte video insieme a Ferrara dove operava Lola Bonora con il Centro Videoarte del Palazzo dei Diamanti, dove trovavano spazio video, performances, installazioni, tutto ciò che in quegli anni veniva dalla ricerca artistica, e Firenze dove esperienza che, grazie a Maria Gloria Bicocchi, ha visto il passaggio di artisti come Arnulf Rainer, Vito Acconci, Bill Viola. I miei video dal ’76 in poi quindi sono stati realizzati con la Galleria del Cavallino, dove nel frattempo esponevo anche i miei lavori pittorici. Non si trattava solo di fare dei video. collegati, come per esempio i videopoems del 1976, frames video rielaborati manualmente ancora nelle forme di una sorta di poesia visiva, di scrittura visuale.

A’tra/verso il nero del ’76 invece è una tipica operazione concettuale, una installazione verbosonora giocata sulla polarità nero/bianco, declinando il nero in tutti i modi possibili del nero. Il lavoro viene presentato alla Galleria 2000 di Bologna e poi allo Studio Tommaseo di Trieste, due spazi espositivi che negli anni ’70 hanno avuto un certo ruolo in Italia, quello di Bologna gestito da Silvia Spinelli e quello di Trieste che contava sull’intuito e l’intelligenza del compianto amico Franco appassionato d’arte, aperto alla sperimentazione e alla ricerca. Più recentemente una parte del lavoro è stata presentata da Riccardo Caldura nella mostra antologica delle mie opere organizzata nel 2010 dal Comune di Venezia al Centro Candiani in collaborazione con Galleria Contemporaneo.

Altre opere collegate all’esperienza video sono quelle che nascono a Motovun durante la realizzazione dell’incontro Identitet=Identità che vede il video come strumento principe del nostro modo di lavorare.

Si trattava di uno degli incontri estivi annuali organizzati dalla Galleria del Cavallino in collaborazione con le istituzioni pubbliche jugoslave per far conoscere reciprocamente le esperienze degli artisti italiani e degli artisti sloveni, croati, serbi, ecc.

Nel 1976 partner della Galleria del Cavallino era stata La Galleria d’Arte Moderna di Zagabria, il cui direttore, Marian Susovski, Martinis e a un certo punto era venuta a trovarci anche Marina Ambrosini e Michele Sambin.

I lavori da me realizzati a Motovun si collocano in una

dimensione fredda ma già con mente libera da schematismi tipici di un concettualismo che ormai cominciava ad essere alla corda.

In c’è l’osservazione di una persona che

non sa di essere osservata e che viene colta nei suoi atti dallo come forse avrei fatto qualche tempo prima, assecondando osserva il reale con assoluta libertà di fantasticare. L’idea identitaria. La parola che integra l’azione e la documentazione narrazione verbovisiva che, a partire da qui, si affermeranno nel lavoro degli anni successivi.

Come si vede in un altro lavoro (Time Flight

telecamera montata sul cavalletto nella mia camera in un momento di lavorazione del video Who Is Luigi Viola?, anche l’osservazione dell’ambiente e la strumentazione di ripresa video diventano soggetto del lavoro, che non è dunque soltanto ciò che si può produrre direttamente con quel mezzo ma anche le diverse forme con cui lo strumento video in quanto tale interagisce con il contesto circostante. Qui la parola integra la testimonianza visiva della relazione tra lo strumento del entro cui lo strumento si trova ad operare nonché le impreviste

aperture che si possono generare (Il movimento della coscienza è riserva di eternità contro il tempo

è di introdurre nell’uso dello strumento tecnologico

altri successivi lavori (Fig. 5). Video as no video del 1978 ad esempio introduce

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l’esperienza della parola come elemento distintivo della propria struttura poetica e questo vale anche per altri video del periodo (come 5’ writing del 1977, Urlo del 1979, Do you remember this movie? del 1979, Frammenti di uno spazio interiore con P. Paolo forme originali di videopoetry (Fig. 6).

In Video as no video

due telecamere sono puntate l’una contro l’altra, in assenza di azione tutto è immobile, esse rilevano unicamente i quasi impercettibili obiettivi mentre la mia voce, dopo qualche minuto di silenzio, è quella che, scandendo parole/concetti, determina il senso del lavoro. Sono tutti lavori comunque in cui la dimensione poetica è molto forte.

Do you remember this movie? propone frammenti di super8 – un tipico formato domestico,

destinato alle riprese dei compleanni e delle ferie in famiglia – proiettati sulla parete della galleria e interpolati con disegni di tappezzeria che suggeriscono ambienti domestici,

confortevoli pareti protettive, ma anche Come del resto a una visione domestica rimandano le scene della pellicola. Momenti di semplice quotidianità vissuta nella relazione intimi e privi di ridondanza, momenti di gioco, sottilmente erotico. Una voce di donna fuori ogni lettera corrispondono una parola o una piccola espressione legate al mondo poetico dell’infanzia (Fig. 7). Il video propone i temi del tempo, della memoria e dell’infanzia e si ispira alle dinamiche della cerchia familiare, con un riferimento al mondo poetico di Lewis Carroll, esplicito anche in altri lavori di quel periodo. «

folds of your conception enclose yourself once

more», pronuncia la voce prima di iniziare a scandire l’alfabeto. Il video termina bruscamente quando l’alfabeto giunge alla è ammesso che l’infanzia possa durare per sempre. Nel ciclo di opere Alice del 1978 si manifesta una poetica dell’intimità e la parola serve a descrivere poeticamente la sequenza. Come in The Fall

forti quozienti di poesia descrive un semplice evento minimale, cade. La caduta del bambino viene paragonata ad eventi ben più complessi e pur essendo minima cosa partecipa di essi, come una delle tante possibili forme del cadere.

Nelle sequenze elaborate tra il 1978 e il 1980 è evidente lo sviluppo di una concezione fortemente narrativa dell’opera che può esplicitarsi tanto associando la parola alle immagini, quanto semplicemente costituendo una narrazione di sole immagini, laddove l’immagine da sola assume la capacità di metaforizzarsi, di raccontare, di dire quanto la parola.

Così nelle opere dell’’80 come gli Archetipi della notte, quasi tutti realizzati all’interno della Stazione Centrale di Milano, alcuni cogliendo dei particolari architettonici, altri le lettere delle insegne, frammenti di parola che generano espansioni luminose, brillanti effervescenze, ancora una volta proponendo l’idea di una parola capace di espandersi totalmente in immagine (Fig. 8).

Per concludere farò almeno un accenno a tre opere più recenti, rispetto al panorama a cui ho fatto riferimento, opere in cui il tema della parola rimane centrale. Mi riferisco alla serie Apparizione della parola del 2010, dove però non sappiamo se

effettivamente la parola appare piuttosto che scomparire dentro la che la accoglie (Fig. 9).

Quello che traspare in realtà è un processo permanente di nascita e morte della scrittura. Le lettere dell’alfabeto ebraico ci introducono al potente mistero

compare nel mio lavoro. L’installazione Stella del 2011 è un progetto non realizzato per la Torre dell’Orologio di Asolo Fig.6

Fig.7

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nell’ambito del Film Festival asolano. Prevedeva la scrittura in caratteri ebraici al neon dei nomi delle dodici vittime della strage di Asolo del 1547, collocati ciascuno nello spazio delle a una delle vittime della strage, Stella, di anni 12, nel cui nome echeggia la visione del Magen David. La scrittura in caratteri ebraici di colore giallo doveva ricordare la consistente presenza ebraica, oggi quasi dimenticata, ad Asolo dove nel 1547

avvenne un importante episodio di violenza antisemita, che si concretizzò in una vera e propria strage di innocenti. Inoltre i nomi delle vittime della strage di Asolo dovevano essere scritti in ebraico perché essi – memoria viva dei caduti innocenti – potessero essere onorati nella lingua della Parola, essendoci di monito e guidandoci ancor oggi nel cammino verso la realizzazione di un’umanità compiuta.

In conclusione, premeva sottolineare nell’intervento era richiamare l’attenzione su un segno mantenimento della memoria, quale strumento fondamentale per la costruzione di una più profonda consapevolezza del tempo presente, non solo volto alla conoscenza critica del passato ma piuttosto teso a preservare il futuro.

essere testimonianza incomparabile e plurisecolare di arte e cultura, poteva ancora evocare paradigmaticamente, a distanza di secoli, l’esistenza di quella che Hannah Arendt ha chiamato

a ostacoli burocratici, l’installazione non ha potuto essere realizzata, a dimostrazione di quanto scottante possa essere anche solo ricordare una certa storia.

HaAretz è invece il risultato di una performance realizzata a Tel Aviv nel 2012. La parola chiave è Emet, in ebraico Verità, ma anche trascrizione del nome dell’artista scomparso Emmet (Williams

coincidenze di percorso col mio. Ogni giorno, per sei giorni, ho sfogliato le pagine dell’edizione ebraica del quotidiano

con tale lettura il mio esercizio di apprendimento della lingua ebraica. Scorrendo le parole ho voluto contemporaneamente il nome tra le righe e trovandolo. Ho quindi evidenziato con sei colori diversi, di sei righe in sei righe, le lettere ebraiche che compongono la sequenza del suo nome, a sua volta composto da apposito timbro che “Emmet in verità (Emet) è presente qui“. La scritta è bilingue inglese/ebraico e in questa seconda lingua ed Emet. Nel pomeriggio di Yom Shishi, prima di Shabbat, ho ritenuto conclusa la mia operazione.

usato con una certa frequenza nei suoi disegni, quasi come un simbolo cabalistico, forse pensando semplicemente alle lettere del proprio nome, ma che contempla, senza dubbio, la visione dalla scansione temporale dello Shabbat. Quest’ultima

come espressione del tempo più che dello spazio. Ogni lavoro sospensione, necessaria per attuare quel distacco dalla nostra stessa opera che la rende compiuta o perfetta, ma egualmente necessaria per aprirci a una rinnovata creatività.

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Una chiaccherata sui

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