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L’appello incidentale: dal Codice Rocco alla Riforma Orlando

NELL’ATTUALE ITER PROCEDIMENTALE.

7. L’appello incidentale: dal Codice Rocco alla Riforma Orlando

Guardiamo ora alla disciplina dell’appello incidentale, istituto che ha posto una serie di problematiche circa la compatibilità con l’obbligo costituzionale di esercizio dell’azione penale e che è stato pertanto interessato dalla Riforma Orlando171. La scelta del legislatore del 1988

171 Per un quadro generico sulla Riforma Orlando in materia di impugnazione si v., C. Scaccianoce, La Riforma «Orlando» e la semplificazione del sistema delle

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di riesumare l’appello incidentale172 - già presente nel Codice del 1930173 - è stata oggetto di non poche perplessità174. Ai fini della nostra riflessione, primo punto rilevante è rappresentato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 1995. Dobbiamo però fare un passo indietro e guardare alla prima pronuncia in tema di appello incidentale ossia la sentenza della Corte costituzionale del 17 novembre 1971, n. 177 con la quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’istituto in questione (allora art. 515 quarto comma c.p.p.) per violazione degli artt. 3 e 24 della Carta fondamentale.175.

impugnazioni. Dalla «specificità» dei motivi alla struttura «mutevole» dell’appello, in Arch. pen., 25.10.2017.

172 L. Filippi, L’appello incidentale nel processo penale, Cedam, Padova, 2000, pp. 31 ss. La disciplina del reintrodotto appello incidentale del codice del 1988 differiva sotto diversi aspetti rispetto al modello del codice del 1930. Anzitutto, la legittimazione a proporre appello incidentale è stata estesa a tutte le parti ed il termine per la proposizione del gravame incidentale è stato portato a quindici giorni (art. 595 co. 1 c.p.p.), anziché gli otto giorni previsti all’art. 515 comma 4 c.p.p. abr. Inoltre l’istituto, pur restando eccezionale, nel senso che non esiste la categoria generale delle impugnazioni incidentali, soggiace alle «disposizioni generali» sulle impugnazioni per quanto riguarda la «forma» (art. 581 c.p.p.), la «presentazione» (art. 582 c.p.p.) , la «spedizione» (art. 583 c.p.p.) e la «notificazione» (art. 584 c.p.p.), come prescrive l’art. 595 comma 2 c.p.p. Ancora, a differenza del codice Rocco, è stabilita la «perdita di efficacia» del gravame incidentale in caso di inammissibilità dell’appello principale o di rinuncia dello stesso (art. 595 comma 4 c.p.p.), creando così uno stretto rapporto di subordinazione o dipendenza tra le due impugnazioni.

173 Nel Codice del 1913 l’istituto dell’appello incidentale era assente. Nel Codice Rocco del 1930 la facoltà di proporre appello incidentale era stata riconosciuta solo al pubblico ministero; e ciò sul rilievo che costituisse un meccanismo «compensativo» al divieto della reformatio in pejus e, in corollario, un ampliamento della cognizione del giudice di secondo grado. Proprio le ragioni ideologiche che ne avevano determinato l’assetto, portarono alla declaratoria di illegittimità costituzionale (Corte cost. sent. n. 177 del 1971) per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, attesa l’evidente disparità di trattamento.

174 In verità, nel progetto preliminare del codice del 1988 (l. 3 aprile 1974, n. 108), era assente ogni riferimento all’istituto dell’appello incidentale. Ciò per espressa esclusione della direttiva n. 74. La previsione di tale istituto, infatti, non sarebbe stata possibile a fronte della sent. Corte cost. n. 177 del 1971 che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’allora art. 515 co. 4 c.p.p. Successivamente però il legislatore delegato ha optato per il reinserimento di tale istituto adducendo la necessità di arginare la proliferazione degli appelli. In tema v. altresì M. Bonetti, L’irriducibile

anomalia dell’appello incidentale, in Dir. pen. cont., 14 novembre, 2012.

175 Con sent. n. 177 del 1971, La Corte costituzionale è stata chiamata a rispondere circa la legittimità costituzionale dell’allora art. 515 rispetto agli artt. 3 e 24 della Cost., attraverso tre ordinanze: un’ordinanze promossa dalla Corte d’Appello di Genova, una dal Tribunale di Lecce ed una dal Tribunale di Venezia. Così dispone la Corte: «[…] Dette ordinanze di remissione hanno lo stesso oggetto e i relativi giudizi possono, pertanto, essere riuniti e decisi con una unica sentenza. Dette ordinanze sottopongono a questa Corte la questione di legittimità dell’art. 515 c.p.p., quarto comma, del codice

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Inseguito la giurisprudenza costituzionale è tornata sul tema in quanto la Corte di Cassazione ha sollevato eccezione di incostituzionalità dell’art. 595 c.p.p.; questa volta però sotto il profilo dell’art. 112 Cost. rilevando - in particolare - che «l’obbligo del pubblico ministero di attuare la pretesa punitiva dello Stato non può ritenersi esaurito con il promovimento dell’azione penale, ma permane nelle fasi successive del procedimento».

La Corte costituzionale ha avuto buon gioco nel dichiarare non fondata la questione, censurando la propria precedente decisione che nel 1971 aveva pronunciato sulla medesima questione. Con la sentenza del 1995176 ha affermato chiaramente che «il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale come se di tale obbligo esso fosse – nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell’accusa – una proiezione necessaria ed ineludibile». La Corte ha osservato che il

di procedura penale, che regola l’istituto dell’appello incidentale del pubblico ministero, prospettandone il contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione (Corte d’Appello di Genova, 28 gennaio e 13 novembre 1970), con l’art. 3 (tribunale di Lecce, 25 febbraio e 11 marzo 1970); con gli artt. 3, 24 e 112 Cost. (tribunale di Venezia, 24 aprile 1970)». Così prosegue «[…] Ad avviso di questa Corte, le censure mosse dalle ordinanze di rimessione sotto il profilo della disparità di trattamento nell’esercizio del diritto di difesa (artt. 3 e 24, co. 2, Cost.) – che isolatamente considerate potrebbero dal luogo a perplessità sulla loro fondatezza – prese nel loro complesso giustificano la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma denunziata. E, invero, l’appello incidentale, essendo consentito ad una sola delle parti nel processo, turba l’equilibrio del contraddittorio, che si polarizza nell’imputato (e nel suo difensore), da un lato, e, dall’altro, nel pubblico ministero, portatori di interessi solitamente contrapposti (vedi sentenza n. 190 del 1970)».

«[…] È comunque, assorbente il profilo della violazione dell’art. 112 della Costituzione, dato che il potere di impugnazione – come è stato posto in rilievo dal tribunale di Venezia (ordinanza 24 aprile 1970) - è un’estrinsecazione ed un aspetto dell’azione penale, un atto conseguente – obbligatorio e non discrezionale – al promovimento dell’azione penale». Pertanto, alla luce dell’intervento della Corte costituzionale, il legislatore con la L. 16 febbraio 1987, n. 81, Delega legislativa al Governo per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale, all’art. 2, punto 90 prevede quanto segue «potere delle parti di proporre appello incidentale […]». 176V. Sent. Corte cost. del 28 giugno 1995, n. 280. La Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale, ma la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 595 c.p.p. rispetto all’art. 112 Cost.

Si v. altresì Le trappole nell’appello penale, A. Lazzoni, M. Siragusa, Giuffrè, 2015, pp. 47 e 48.

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pubblico ministero «è abilitato dalla legge a fare acquiescenza alla sentenza di primo grado, quali che siano state le sue conclusioni e quale che sia stato il contenuto della sentenza». Ha poi aggiunto che il potere d’impugnazione è attribuito dalla legge alternativamente al procuratore della Repubblica e al Procuratore generale presso la Corte d’Appello e ciò mal si concilia con la doverosità in capo ad uno solo di essi ed ha concluso che l’appello, anche quello incidentale, essendo rinunciabile senza che la legge richieda al riguardo alcuna motivazione, non può essere ricondotto all’obbligo di esercitare l’azione penale, escludendo pertanto qualsiasi contrasto con l’art. 112 Cost.

La Corte, dunque, ha concluso nei seguenti termini: «[…] Si deve escludere che l’art. 595 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede con quello di altre parti processuali, l’appello incidentale del pubblico ministero, sia da considerarsi costituzionalmente illegittimo perché in contrasto con l’art. 112 della Costituzione»177.

Parte della dottrina ha condiviso le argomentazioni e le conclusioni della pronuncia della Corte costituzionale, aggiungendo la considerazione che, essendosi l’azione penale con il codice del 1988 trasformata da una dimensione astratta ad una concreta, subordinata cioè ad una prognosi affidata al pubblico ministero di sostenibilità dell’accusa in giudizio, ad essa non potrebbe comunque essere più riportato l’appello incidentale, proponibile pure nel vigente codice anche a favore dell’imputato. Altra parte della dottrina invece ha continuato a nutrire dubbi di incostituzionalità dell’istituto rispetto all’art. 112 Cost., «appellandosi»

177 Non è fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 112 Cost., dell’art. 595 c.p.p., in quanto il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale come se di tale obbligo esso fosse – nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell’accusa – una proiezione necessaria ed ineludibile. Nei lavori preparatori della Costituzione non è dato rinvenire la benchè minima traccia di un collegamento tra obbligo di esercitare l’azione penale e potere di impugnazione. Dall’esame degli atti suddetti risulta che la costituzionalizzazione dell’obbligo di esercitare l’azione penale fu trattata esclusivamente in relazione a profili attinenti al momento inziale dell’azione penale, senza il minimo, neanche implicito, riferimento ai momenti successivi, e tanto meno a giudizi d’impugnazione, A. Gaito, E. Marzaduri, Codice di procedura penale

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e chiamando in causa la teoria per cui il pubblico ministero «può tanto poco disporre del gravame, quando in primo grado può disporre dell’accusa: egli è tenuto ad interporre il primo, come ad esercitare la seconda, nell’adempimento dei doveri della funzione obiettiva diretta applicazione della legge penale, che gli è demandata dall’ordinamento giuridico»178. Perciò, ritenendo che il pubblico ministero nella proposizione del gravame, deve ispirarsi a criteri «solo di discrezionalità tecnica», tale parte di dottrina ha sostenuto che l’esercizio del potere di impugnazione è un atto di impulso processuale al pari della richiesta di rinvio a giudizio perché entrambe le fattispecie sarebbero rapportabili al medesimo criterio ispiratore rinvenuto nel principio di obbligatorietà dell’azione penale. In altri termini, la circostanza che nella sentenza n. 280/1995 si circoscrive lo spazio violato ex art. 112 Cost. al solo promovimento dell’azione e si presenti expressis verbis il residuo come un affare «di coscienza» del pubblico ministero «fanno molto riflettere», non solo perché una premessa ben diversa era stata assunta dalla Corte costituzionale nella sentenza del 1971, ma anche perché ci si domanda «come si è mai potuto conciliare una simile lettura limitativa con le altre pronunce (ad es. sull’art. 507 c.p.p.) che, invece, proseguono ad

178 Sic M. Pisani, Riflessioni sul principio dispositivo nel processo penale di secondo

grado, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1959, p. 850, il quale però aggiunge che «il potere

di rendere attiva la giurisdizione, corrispondente al potere di azione penale, si esaurisce con la pronunzia della sentenza di primo grado, la quale ha efficacia potenzialmente imperativa, è idonea a passare in cosa giudicata, e lo diventa se si perfeziona il fatto negativo della mancata impugnazione entro il termine. Dopo la sentenza di primo grado il pubblico ministero non appare più il titolare dell’azione penale». La tesi è risalente in dottrina a Florian, Princìpi di diritto processuale penale, 1932, p. 180 s., il quale osserva che «se noi contempliamo l’organismo del processo, vediamo manifestarsi l’esigenza di un’attività rivolta a istituire il processo, a chiedere l’applicazione della legge penale nei singoli casi concreti […]. L’azione penale è energia, che anima tutto il processo: il pubblico ministero, che ha iniziato il processo, può interporre gravame da una sentenza, che abbia pronunciato il proscioglimento dell’imputato. Sicchè il processo, senza l’esercizio legittimo dell’azione penale non può sorgere né continuare».

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invocare (ed applicare) quel principio dell’obbligatorietà per la fase dibattimentale?»179.

Nonostante tali perplessità, è difficile negare la fondatezza di alcune obiezioni contrarie a riportare l’impugnazione nella categoria dell’azione. Anzitutto è incontestabile che, mentre il potere di azione penale spetta soltanto al pubblico ministero, il potere di impugnazione è riconosciuto in capo a tutte le parti del processo. Inoltre l’azione penale si differenzia ontologicamente dall’impugnazione, in quanto la prima ha ad oggetto una notitia criminis mentre la seconda deduce l’ingiustizia o l’illegittimità di una sentenza che, di per sé, è idonea a passare in giudicato. Ancora, è indiscutibile che, mentre l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio e sottoposto a controllo giurisdizionale180, la proposizione dell’imputazione è discrezionale ed incontrollata. Infine, mentre l’azione penale è irretrattabile, l’impugnazione è rinunciabile da tutte le parti (art. 589 c.p.p.) in ossequio al principio dispositivo. Tuttavia, abbiamo già avuto modo di anticipare, come l’istituto abbia conosciuto una profonda evoluzione nel corso del tempo e di come non si sia «sottratto» dalla recente Riforma Orlando181. La delega contenuta

179 Sic Nobili, in Atti del convegno su Recenti orientamenti in tema di pubblico

ministero ed esercizio dell’azione penale, 1998, p. 38 ed anche in Scenari e trasformazioni del processo penale, sempre di Nobili, 1998, p. 162.

180 V. in tema M. Chiavario, L’azione penale tra diritto e politica, 1995, p. 56. 181 Con la sostituzione dell’attuale comma 1 dell’art. 595 c.p.p. e del comma 3 dello stesso articolo, l’appello incidentale potrà essere proposto dal solo imputato che non abbia proposto impugnazione. Com’è noto, l’appello incidentale del Procuratore, previsto dal codice Rocco per paralizzare gli effetti dell’appello del solo imputato (il divieto della reformatio in pejus, proprio per questa ragione, unita ad altri profili della disciplinata, era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza della Corte costituzionale n. 177 del 1971) è stato reintrodotto nel «nuovo» codice di rito penale, tenendo conto – anche con la sua collocazione – delle osservazioni dei giudici costituzionali.

In linea con l’indicazione della legge delega (art. 1, comma 84, n. 8, lett. h) l’istituto ora non è più previsto. Il dato, verosimilmente, si inserisce nella visione costituzionale del pubblico ministero chiamato a valutare la rispondenza alla legge della decisione, prescindendo dai comportamenti processuali della difesa. Deve tuttavia farsi notare che, potendo il Procuratore Generale appellare in caso di mancato appello del Procuratore della Repubblica e godendo di più ampi tempi per proporre impugnazione, l’accusa potrà comunque proporre appello principale, in relazione ad un eventuale appello della difesa. Il nuovo comma 3 dell’art. 595 c.p.p. disciplina, invece, una situazione particolare che, peraltro, aveva già trovato nella giurisprudenza la sua risposta (Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2003, Andreotti). Premesso che l’imputato non può

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nella legge di riforma ha previsto una profonda rimodulazione di un istituto il quale, anche nella versione regolata dall’art. 595 c.p.p., non è andato esente da critiche soprattutto sul versante della compatibilità costituzionale; ed infatti è stato evidenziato come permangano i dubbi di costituzionalità sotto il profilo della parità di trattamento tra le parti dal momento che mentre nessuna conseguenza negativa deriva al pubblico ministero, in ipotesi appellante principale, corre il rischio della

reformatio in pejus della sentenza per effetto dell’appello incidentale del

pubblico ministero.

Inoltre, e soprattutto, l’istituto è stato ritenuto comunque contrastante con il canone sancito all’art. 112 Cost. in quanto realizza inevitabilmente un comportamento contraddittorio dell’ufficio del pubblico ministero; comportamento che è stato indicato dal giudice costituzionale come principale causa di contrasto col principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Anche se la Corte costituzionale, operando un evidente revirement rispetto alla decisione di venti anni addietro, ha escluso che l’art. 595 c.p.p., nella parte in cui prevede, con quello di altre parti processuali, l’appello incidentale del pubblico ministero, sia da considerare costituzionalmente illegittimo perché in contrasto con l’art. 112 Cost. sulla base della premessa che il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale, come se di tale obbligo esso fosse, nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell’accusa, una proiezione necessaria ed ineludibile, il legislatore ha preferito adottare una soluzione riformistica abbastanza radicale. Ed infatti, gli scarni criteri

appellare né in via principale, né in via incidentale le sentenze di assoluzione che accertano che il fatto non sussiste o non l’ha commesso, mancherebbe, in tal caso, un efficace strumento di contrasto all’appello principale dell’accusa, sul quale il giudice sarebbe chiamato a pronunciarsi, con successiva possibilità di dedurre la questione anche con il ricorso per Cassazione. Rafforzando quanto già previsto dall’art. 121 c.p.p., si prevede, così, che «entro quindici giorni dalla notificazione dell’impugnazione presentata dalle altre parti (ergo, non solo il pubblico ministero) l’imputato possa depositare nella cancelleria del giudice memorie o richieste scritte».

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direttivi delineati dal legislatore delegante prevedono una conformazione dell’appello incidentale quale meccanismo attivabile esclusivamente dall’imputato e nel rispetto di fattispecie limitative allo stato assolutamente non tipizzate.

In primis, l’eliminazione di un potere di impugnazione in via incidentale

del pubblico ministero allontana l’istituto dalla funzione deflattiva che ne aveva caratterizzato l’introduzione, venendo meno a piori il pericolo di stravolgimenti in pejus dell’estensione della devoluzione delineata dall’appello principale.

Se infatti prendiamo lo schema di decreto legislativo recante disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione, all’art. 4. numero 1, rubricato Modifiche di disciplina in

materia di appello incidentale182, si legge quanto segue:

«All’art. 595 del codice di procedura penale, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447, sono apportate le seguenti modifiche:

a) il comma 1 è sostituito dal seguente «L’imputato che non ha proposto impugnazione può proporre appello incidentale entro quindici giorni da quello in cui ha ricevuto la notificazione prevista dall’articolo 584»;

b) il comma 3 è sostituito dal seguente «Entro quindici giorni dalla notificazione dell’impugnazione presentata dalle altre parti, l’imputato può presentare al giudice, mediante deposito in cancelleria, memorie o richieste scritte».

L’impostazione monopolista della disciplina della legittimazione soggettiva determina una rivisitazione delle connotazioni dogmatiche dell’istituto, oramai del tutto privo di componenti ritorsive e proteso verso obiettivi di semplice modellamento in chiave estensiva degli

182 Schema di decreto legislativo recante disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi di impugnazione n. 465, trasmesso alla Presidenza il 9 ottobre 2017.

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ambiti valutativi del giudice d’appello, rispetto ai punti della sentenza che il pubblico ministero ha inteso porre in discussione.

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CONCLUSIONI

Alla luce del presente elaborato si è visto come la proclamazione, da parte della Carta costituzionale, di un principio di obbligatorietà non ha evitato e non può evitare che di fatto ci siano omissioni, inerzie o insabbiamenti nella gestione dell’azione penale. Non può neppure garantire con certezza che si instaurino sempre i meccanismi di garanzia più idonei allo scopo. Da un lato perché, e sul punto si è già avuto occasione di riflettere, la configurazione da parte del legislatore costituente di un «obbligo-dovere» del pubblico ministero di esercitare, ricorrendone i presupposti, l’azione penale, poiché lascia rilevanti spazi di discrezionalità nella sua gestione concreta, sembra risolversi in un «potere» esercitabile sia in forma positiva sia in forma negativa, tanto che azione ed archiviazione appaiono «le due superfici, concava e convessa, di una stessa lente»183; e dall’altro ogni rilievo formulabile in tema di rispetto dell’art. 112 Cost. sarebbe destinato ad avere un valore relativo se non si prendesse in considerazione una realtà applicativa nella quale gli organi del pubblico ministero continuano a trovarsi, di fatto, nella materiale impossibilità di vagliare e perseguire tutte le segnalazioni di reato di cui sono destinatari. Sul punto, più volte, si è espresso anche il Consiglio Superiore della Magistratura ed in particolare nella risoluzione del 9 luglio 2014 non ha mancato di sottolineare le innumerevoli difficoltà di procedere alla trattazione di tutti gli affari penali pendenti presso un ufficio giudiziario184.

Alla luce di quanto detto si può apprezzare un’evoluzione socio- culturale e giuridica. Infatti se nel 1948, al tempo dell’entrata in vigore della Costituzione, si fece cogente e necessaria la statuizione di un

183 L’espressione è di U. Pioletti, Azione e archiviazione, in Gius. pen. 1938, IV vol., p. 413.

184 La risoluzione 9 luglio 2014 del C.S.M. ha ad oggetto i criteri di priorità, quali strumenti volti a rendere maggiormente effettivo il principio costituzionale dell’art. 112 dove si legge quanto segue: «La necessità di individuare criteri di priorità si pone nelle situazioni di fatto, sempre più diffuse, caratterizzate dall’estrema difficoltà di procedere, nello stesso modo e secondo gli stessi tempi, alla trattazione di tutti gli affari pendenti presso un ufficio giudiziario».

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principio, quale quello del canone dell’obbligatorietà, come reazione all’assoluto arbitrio del regime fascista, nel corso del XX secolo, e soprattutto del XXI secolo, progressivamente si è reso meno cogente quello che era il dogma dell’obbligatorietà al fiorire di nuove esigenze (anche a fronte dell’evoluzione sociale) e che hanno portato a far sì che l’art. 112 Cost. in qualche modo sia subordinato alla necessità di