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LA TITOLARITA´ DELL’AZIONE PENALE.

2. La «travagliata» vita delle azioni popolar

Le azioni che rispondono all’esigenza di rendere più trasparente la repressione di reati concernenti la libera manifestazione del voto, o almeno per quel riguarda le azioni popolari non direttamente popolari, al più generale canone del cuique licet accusare, sono dette azioni «popolari»96.

Le azioni popolari penali c.d. elettorali, previste da varie leggi post unitarie e ancora dal Testo unico della legge comunale e provinciale (r.d. 4 febbraio 1915, n. 148), furono eliminate con il t.u.c.p. 3 marzo 1934, n. 383. Il tutto in coerenza con l’idea di uno Stato che monopolizza l’azione penale.

Nonostante ciò tornarono nell’ordinamento italiano dopo la Seconda guerra mondiale, con l’avvento della Repubblica, nell’art. 93 del d.P.R 5 aprile 1951, n. 203 e persistevano nella formulazione accolta dall’art. 100 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, secondo cui «qualunque elettore può promuovere l’azione penale, costituendosi parte civile per i reati contemplati negli articoli precedenti». Invero, l’art. 100 esprimeva solo una posizione parificata a quella della parte civile, con deroga ai presupposti ordinari e manteneva la sua funzione di impulso e vigilanza

96 «È l’azione al cui esperimento è legittimata una cerchia indefinita di soggetti. La situazione legittimante alla presentazione dell’azione popolare è individuata non in base alla titolarità del diritto soggettivo leso o dall’interesse legittimo vantato, ma dall’appartenenza del soggetto ad una categoria identificata o in alcuni casi generalizzata a priori dalla legge. L’azione popolare consente ai cittadini di agire in giudizio o di ricorrere per correggere errori della P.A. o per supplire all’inerzia degli amministratori per la tutela di interessi generali. Ha natura eccezionale in quanto può essere esercitata solo nei casi tassativamente indicati dalla legge. Caratteristica dell’azione popolare è la facoltà concessa a qualsiasi legittimato di proseguire la causa iniziata da altro attore popolare in caso di sua inerzia o di impugnare la sentenza che conclude una fase del giudizio alla quale non ha preso parte: c.d. fungibilità dell’azione popolare», così in Enciclopedia giuridica, voce Azione popolare. Si riconoscono tre tipologie di azione popolare: azione popolare correttiva, azione popolare in materia di regolarità delle operazioni popolari ed azione popolare suppletiva.

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su di un pubblico ministero poco accorto o pigro in sede di istruttoria o di dibattimento.

Attorno alle azioni popolari si appuntò, per lungo tempo, l’equivoco nascente dalla equiparazione – nel codice del 1913 ed anche in fase antecedente – tra proposizione della domanda ed esercizio dell’azione penale. Un equivoco che aveva connotato anche i primi anni di applicazione del codice Rocco del 1930.

Nel 1931, abbiamo anticipato, come la previsione scomparve per ricomparire nel periodo immediatamente post bellico. Ad ogni modo, si continuava a non recepire il fatto che l’azione penale c.d. popolare altro non era che una costituzione di parte civile dei consorzi, enti o associazioni, costituite a difesa di specifici interessi. Tuttavia, le singole disposizioni non attribuivano nessuno specifico potere di iniziativa. Del resto, il mero domandare il giudizio, non assistito da alcun diritto a chiedere direttamente il giudizio o a chiedere autonomamente ad un giudice di verificare se disporre il giudizio, appartiene a poteri di stimolo e di controllo sul titolare dell’azione pubblica e non appartiene minimamente all’esercizio dell’azione penale.

Questione diversa sarebbe stata se la pretesa fosse stata attribuita direttamente alla parte privata e, con essa, la legittimazione a formulare l’atto di richiesta. In tale situazione, il pubblico ministero sarebbe stato chiamato unicamente per dare o per negare il proprio assenso mediante la formulazione dell’imputazione ed il privato, una volta formulata la imputazione, avrebbe potuto esercitare autonomamente la pretesa «spendendo» l’atto di richiesta che la processualizzava. È qua che emerge la distinzione tra i casi di ammissione alla costituzione di parte civile senza autonomi poteri di iniziativa e i casi nei quali è alla persona offesa che è attribuito il relativo potere.

Detto diversamente, l’eventuale riconoscimento della facoltà o dell’obbligo di costituirsi parte civile, anche in deroga ai criteri ordinari, come quivis de populo o portare di interessi collettivi, non trasforma in

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esercizio di azione penale quello che è, e rimane, potere estraneo al compimento diretto e in via autonoma di attività finalizzate alla chiamata in giudizio. Sotto questo profilo, invero, sono più interessanti le azioni popolari non direttamente elettorali.

Il richiamo non è alla possibilità di costituirsi parte civile, prevista dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972 e volta a stabilire che «ogni cittadino che appartenga, anche ai termini del capo VII della presente legge, alla Provincia, al Comune o alla frazione di esso, a cui la beneficenza si estende, può esercitare l’azione giudiziale nell’interesse dell’istituzione o dei poveri a cui beneficio è destinata», tra l’altro, «per la costituzione di parte civile in giudizio penale, e per il conseguimento dell’indennità di ragione» (art. 82) e che «l’azione popolare deve, qualunque sia il giudice competente, esser fatta valere col ministero di procuratore» (art.83), ma al risvolto meno noto della storia italiana delle azioni popolari, evidenziato dal dibattito elaborato tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

Il progetto ministeriale del 1911 del nuovo codice di procedura penale avrebbe voluto introdurre un principio al quanto inusuale ovverosia non solo la presenza di un articolo (art. 4) che contemplava l’azione popolare per tutti i «delitti contro le libertà politiche», esercitata «da ogni elettore nei delitti contro le libertà politiche preveduti dall’art. 139 del Codice penale», ma anche un art. 3 che riconosceva l’esercizio dell’azione anche alle associazioni legalmente costituite per uno scopo d’interesse professionale, o pubblico, relativamente ai reati che direttamente concernevano la loro istituzione e alle istituzioni pubbliche di beneficenza relativamente ai reati commessi a danno delle medesime. In entrambi i casi non si trattava di un vero e proprio esercizio di azione penale attribuito al di fuori dell’organo pubblico, in quanto l’art. 194 del progetto prevedeva, per tutte tali ipotesi, che fosse consentita «la richiesta di citazione presentata direttamente al presidente o al pretore»,

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salvo l’intervento obbligatorio in giudizio del pubblico ministero ex art. 195.

Certamente tutti i caratteri dell’azione privata erano presenti, ed anzi l’azione popolare «comune» veniva dilatata anche eccessivamente. Molto probabilmente fu questa la causa della completa rigetto dell’idea nel testo definitivo del 1913, con il quale si ritornò allo schema della sola costituzione di parte civile in deroga alle disposizioni ordinarie quando si volesse accordare partecipazione nel processo nonostante difettasse una diretta riferibilità della lesione.

Il testo del 1913 preserva, tuttavia, quello che è l’unico caso di azione penale privata conosciuto dall’ordinamento italiano.

L’art. 354, nel solco di precedenti regolamentazioni pre e post unitarie, che avevano contemplato vere e proprie azioni penali private, previde che, nei delitti di diffamazione o di ingiuria, la persona offesa presentasse istanza al presidente del tribunale o al pretore per la citazione dell’imputato, e, precisando, al riguardo la equiparazione della istanza alla querela, la corredava di particolari requisiti ai sensi dell’art. 356, così prevedendo un sistema di una vera e propria vocatio diretta a istanza della persona offesa, non soggetta ad alcuna ingerenza del pubblico ministero né a verifica preventiva del giudice.

L’analisi suggerisce il valore dei distinti momenti che connotano le attività prodromiche alla richiesta di giudizio e la necessità di distinguere tra pretesa punitiva e «richiesta di giudizio», in modo tale da poter conferire a quest’ultima il portato di «manifestazione della pretesa punitiva per atto concludente». La scansione potrebbe assumere particolare rilievo e significatività nel giudizio sulle scelte in materia di attribuzione dell’azione penale esclusivamente ad un organo pubblico o delle diverse, eventuali, opzioni in favore di azioni penali popolari

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sussidiarie a quella pubblica97 o di azioni penali «collettive», esercitabili anche in rappresentanza di gruppi.

3. La compatibilità dell’articolo 112 Costituzione con