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La compatibilità delle condizioni di procedibilità con l’articolo 112 della Costituzione

NELL’ATTUALE ITER PROCEDIMENTALE.

6. La compatibilità delle condizioni di procedibilità con l’articolo 112 della Costituzione

Si è discusso lungamente, ed ancora si continua a farlo158, circa la compatibilità delle condizioni di procedibilità159 con il canone dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale. In particolare, il dubbio in relazione ad un possibile profilo di incompatibilità tra il carattere di pubblicità dell’azione penale obbligatoria e l’istituto della querela, era già emerso nel dibattito svoltosi in seno alla seconda sottocommissione della Commissione per la Costituzione. L’on. Mannironi aveva preteso una delucidazione sul punto da parte del relatore Calamandrei. Questi aveva categoricamente affermato che la querela, «atto privato che rimuove un ostacolo, senza il quale l’azione pubblica non può essere esercitata», in nulla avrebbe contrastato con il testo da lui stesso predisposto, poiché, una volta presentata, «anche se si tratta di querela di parte, l’azione è pubblica»160.

Questa riflessione introduce nella problematica dei rapporti tra interesse generale e collettivo al perseguimento del reato e rilevanza di istanze

158 Con la Riforma Orlando si è intervenuti anche in materia di condizioni di procedibilità. In particolare, l’art. 1 co. 16 lett. a) e b) l.103/2017, contiene una delega al Governo per la modifica del codice penale riguardo al regime di procedibilità di alcuni reati. È prevista la procedibilità a querela dell’offeso per i reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, eccetto nei seguenti casi:

delitto di violenza privata (art, 610 c.p.) e reati contro il patrimonio; quando la persona è incapace per età o per infermità; quando ricorrono particolari circostanze aggravanti; nei reati contro il patrimonio, quando il danno arrecato alla persona sia di rilevante gravità. Per una completa visione sulle singole eccezioni si veda C. Iasevoli, La

procedibilità a querela: verso la dimensione liquida del diritto postmoderno?, in Leg. pen., 7.12.2017, pp. 7, 8 e 9. Scopo dell’ampliamento della procedibilità a querela è

quello di migliorare l’efficienza del processo penale e di ridurre i carichi di giurisdizione. A tal fine, il Governo è chiamato a compiere valutazioni discrezionali che richiedono operazioni di bilanciamento complesse. Secondo la giurisprudenza costituzionale tali opzioni sarebbero sindacabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale solo per vizio di manifesta irrazionalità, sic C. cost., ord., 23.12.2013, n. 324, in www.cortecostituzionale.it.

159 In materia di condizioni di procedibilità si veda, in particolare, A. Gaito, Itinera, Guide giuridiche Ipsoa, Contenzioso penale, Wolters Kluwer, Milano, 2015, p. 355 e ss.

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riconducibili a soggetti privati o pubblici, ma diversi dal titolare del potere di azione.

Tradizionalmente, sul piano normativo, simili istanze sono state tradotte attraverso l’enucleazione di cause di non punibilità, perlopiù contemplate nelle singole norme incriminatrici di parte speciale, oppure di condizioni di procedibilità, di carattere generale o speciale.

La distinzione tra i due istituti, peraltro, non pare potersi proporre in termini assolutamente netti. Non a caso la questione ha lungamente impegnato i commentatori, non solo per l’intrinseca difficoltà incontrata dalla scienza penalistica nel classificare con precisione le cause obiettive di non punibilità, ma probabilmente anche a causa del disinvolto impiego fatto di quella categoria dal legislatore nel codice penale. Pertanto, in dottrina si sono ricercati criteri che esprimessero in modo certo il discrimine tra le forme, tra i presupposti e tra gli effetti delle condizioni di non punibilità, da un lato, e delle condizioni di improcedibilità, dall’altro.

In questa sede pare opportuno limitarsi a segnalare quella che può essere considerata una tendenziale affermazione del c.d. criterio «descrittivo», in forza del quale andrebbero ricondotte all’alveo della punibilità quelle condizioni che rinviano a «fatti», mentre andrebbero ricondotte alla sfera della procedibilità quelle che fanno riferimento ad «atti». Se in termini assoluti il primo criterio sembra poco convincente, poiché il rapporto fatto-condizione di punibilità non dimostra una valenza generale, perlopiù accettabile appare invece il paradigma atto- condizione di procedibilità. La prassi normativa dimostra, infatti, che, laddove l’instaurazione del nuovo processo sia subordinata al verificarsi di una condizione, questa consiste in linea di massima in un atto, proveniente da un privato cittadino, oppure da un’autorità, interessati del fatto di reato.

Al contempo, accanto a questo criterio, basato sulle forme attraverso le quali condizioni di punibilità e di procedibilità rispettivamente si

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manifesterebbero, altri criteri sembrano essere utili allo scopo della loro classificazione sistematica. Per quanto attiene ai presupposti che sottenderebbero alla scelta legislativa, in favore dell’uno o dell’altro istituto, alcuni evidenziano come nell’area dell’improcedibilità confluirebbero situazioni nelle quali interessi tra loro disparati si porrebbero in conflitto con l’esigenza di repressione penale, mentre nella categoria della non punibilità sarebbero da ricondurre, al contrario, i casi nei quali il legislatore sarebbe chiamato a specificare nell’ambito di una molteplicità di beni giuridici, quelli meritevoli di tutela penale. Invece, in base ad un’altra opinione, le ragioni di una differente tecnica legislativa adottata per introdurre rispettivamente condizioni di procedibilità e condizioni obiettive, va senza ombra di dubbio ricercata nella constatazione che i motivi di convenienza e di opportunità che sottostanno alle prime sono talmente eterogenei e discrezionali e possono discendere da tali e tanti ordini di valutazione da rendere impossibile, sul piano della tecnica legislativa, la loro previsione in astratto ed il loro conseguente inserimento nella fattispecie criminosa. In questa sede però, ai fini della nostra riflessione ovverosia la compatibilità delle condizioni di procedibilità al principio costituzionale dell’obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale, è preferibile lasciare sullo sfondo gli innumerovoli tentativi di classificazione per rivolgersi, invece, alle caratteristiche che le accomunano. Proprio sul terreno della compatibilità costituzionale, la riflessione in ordine ai rapporti tra esercizio della pretesa punitiva dello Stato e condizioni di procedibilità può giovarsi di un utile aggancio sull’altro versante, quello della conciliazione tra condizioni di non punibilità e princìpi sovraordinati. In questa prospettiva, è stato osservato che l’esistenza di profili di interessi esterni al reato, nei quali si traducono motivi di convenienza e di opportunità politica che inducono a non dare corso al processo penale, non crea problemi di contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, in quanto tali esigenze sono

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espressamente tipizzate nella norma penale incriminatrice e quindi garantite dal principio di stretta legalità (art. 25 co. 2 Cost.). Se con riguardo alle condizioni di non punibilità si ritiene che il potenziale conflitto con il canone dell’obbligatorietà dell’azione penale risulti riassorbito dall’ancoraggio delle esigenze esterne al reato al principio di stretta legalità, la continuità teleologia che avvicina dette condizioni a quelle di procedibilità dovrebbe rendere possibile giungere, anche per queste ultime, a conclusioni analoghe161.

Nel vagliare la fondatezza di questa equiparazione, non si può prescindere dall’esistenza del c.d. «doppio binario» lungo il quale corrono (almeno) due differenti gruppi di condizioni di procedibilità, tendenzialmente legate, le une, alla volontà dei privati lesi dal reato e, le altre, a manifestazioni di interessi più ampi, svincolati dal rapporto immediato con il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice162. Se in generale risulta difficile leggere nel testo dell’art. 112 Cost. la volontà del legislatore costituente di prescrivere l’inserzione di qualsiasi diaframma tra la notitia criminis e l’iniziativa del pubblico ministero, per quanto riguarda, in particolare, la querela (alla quale qui sembra potersi assimilare l’istanza), la questione circa l’eventuale profilo di

161 Quindi, parallelamente, si è affermato che «ciò che importa, in definitiva, è che anche le condizioni di procedibilità siano espressamente previste dalla legge e che quindi vengano predeterminate le situazioni che in astratto consentono ad organi esterni dell’amministrazione della giustizia di interferire con l’esercizio dell’azione penale» così G. Neppi Modona. Non manca, però, chi sia nelle condizioni di non punibilità sia in quelle di improcedibilità, ha individuato dei casi di violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

162 Cfr. M. Chiavario, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, cit., 122 s.: «direi che la sovrapposizione esterna a quella del pubblico ministero può ammettersi, anche a fronte dell’art. 112 Cost., solo laddove nella ratio della singola previsione di richiesta o di autorizzazione possa cogliersi un parallelismo rispetto all’operazione di bilanciamento di interessi che si ha nella querela: vale a dire quando la «condizione» sia posta a tutela di una legittima autoregolamentazione dell’interesse leso […]. Negli altri casi, come in quelli di autorizzazioni a procedere funzionali alla qualifica del soggetto imputato o «indagato», oppure alle richieste per reati commessi all’estero, sembra invece più acuto il problema della compatibilità con le esigenze di tutela dell’indipendenza del pubblico ministero cui si riallaccia l’art. 112 Cost.: una risposta appagante in favore del mantenimento in vita di quegli istituti non può dunque darsi se non quando essi trovino la loro legittimazione in un’altra norma costituzionale».

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incostituzionalità sembra agevolmente risolvibile in termini negativi e la si spiega nei seguenti termini: avendo riguardo alla gamma dei reati procedibili solo ad iniziativa del soggetto leso, può percepirsi, infatti, il carattere prettamente personale del valore che la fattispecie astratta si propone di salvaguardare. La scelta del legislatore di condizionarne la perseguibilità ad un’espressa dichiarazione di volontà si risolve in un bilanciamento del tutto interno alla sfera di interessi dell’offeso (o di chi per esso): suo il bene giuridico leso, sua la determinazione tra ristoro dell’offesa patita ed acquiescienza ad un comportamento sanzionato dall’ordinamento, tra «rimozione di un ostacolo», che potrebbe condurre alla celebrazione di un giudizio pubblico, ed affermazione, implicita o espressa, della volontà di tacitare l’accaduto, inibendo l’esercizio dell’azione penale.

Valutazioni di questo tipo, evidentemente riconducibili al dominio della politica criminale in cui, per tradizione, si muove il legislatore «sostanziale», non paiono contrapporsi alla ratio di garanzia che abbiamo visto caratterizzare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: se è vero che quel precetto deve intendersi quale veicolo di applicazione uniforme ed indipendente della legge nella gestione dell’accusa, la consacrazione del potere riconosciuto al querelante non sembra foriera né di quelle influenze politiche da parte dell’esecutivo, né di quegli arbitrii personali da parte del magistrato inquirente, che i Costituenti intesero scongiurare163.

A questo riguardo, la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di stabilire un punto fermo riconoscendo che la previsione di presupposti all’esercizio dell’azione penale, purchè legislativamente ed oggettivamente determinati, non contrasta con il congiunto disposto dei principi di obbligatorietà e di eguaglianza164: secondo la lettura dell’art.

163 V. R. Orlandi, Procedibilità, cit., 49: «obbligatorietà» significa essenzialmente «legalità» dell’azione: vale a dire, necessità di prevedere in via generale ed astratta le «condizioni» che possono rappresentare un ostacolo al promovimento dell’accusa». 164 Cfr. A. Gaito, Procedibilità, cit., 814: «dalla formulazione del principio di obbligatorietà null’altro potrebbe evincersi oltre al divieto per il legislatore ordinario

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112 Cost. offerta dal giudice delle leggi, tra notitia criminis e cristallizzazione dell’accusa, correrebbe lo spazio sufficiente a garantire al legislatore ordinario la facoltà di enucleare delle premesse al verificarsi delle quali soggiaccia l’obbligo di attivazione del pubblico ministero.

Approccio parzialmente diverso parrebbero suggerire quelle condizioni di procedibilità che risultano espressione di altri «centri istituzionali di potere». Il pensiero va, innanzitutto, all’autorizzazione a procedere, disciplinato in ben due disposizioni della Carta fondamentale: nel testo originario dell’art. 68 Cost., il quale, pur avendo recentemente subito ingenti interpolazioni che ne hanno incisivamente ridotto la rilevanza pratica, ha per lungo tempo trovato il proprio spazio nel quadro dei principi costituzionali, proprio accanto a quel precetto, apparentemente così indefettibile, di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale; nell’art. 96165, che ad oggi vincola la sottoposizione alla giurisdizione ordinaria dei ministri e del Presidente del Consiglio, anche se cessati dalla carica, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla previa autorizzazione della Camera o del Senato. Certo, si fa notare, il principio di subordinazione dell’iniziativa del pubblico ministero al voto favorevole della camera di appartenenza del parlamentare o del ministro sottoposto ad indagine, tendeva a sottrarre un’intera cerchia di cittadini alla pretesa punitiva relativa alla generalità dei reati da questi commessi, contrariamente ad altre condizioni di procedibilità, come la querela, che operano tale sottrazione non ratione personae bensì ratione delicti. La profonda incisività di tale deroga non giustificabile in base al principio di ragionevolezza presuppone l’adozione di una norma di rango sovraordinato, capace di limitare, sul piano delle fonti, il

di articolare l’ordinamento penale-processualistico su criteri di opportunità, con il conferimento al pubblico ministero di un potere di non procedere in base ai criteri di mera convenienza. Ne consegue l’ortodossia costituzionale del sistema processuale vigente, ove l’esercizio dell’azione penale, anche se subordinato all’avverarsi di quei fatti giuridici ai quali il legislatore ordinario ritiene necessario subordinarlo, rimane pur sempre obbligatorio».

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combinato disposto dei principi di obbligatorietà e di eguaglianza. Non può, invero, negarsi che la valutazione sottesa all’alternativa tra concessione e diniego dell’autorizzazione appaia ammantata di discrezionalità politica. Discrezionalità che, in quanto espressione dell’interesse, tutt’altro che irrilevante, di salvaguardare dalle contingenze giudiziarie funzioni istituzionali di primo piano, si proponeva, nel panorama costituzionale, come indice da porre in bilanciamento con la ratio di garanzia dell’art. 112 Cost. che la questione delle condizioni di procedibilità connesse, non a singole fattispecie di reato, bensì a specifici gruppi di soggetti dovesse trovare un supporto sul piano dei legami tra fonti normative è confermato dalla giurisprudenza dello stesso giudice delle leggi, il quale ha dichiarato, infatti, l’illegittimità costituzionale di numerose previsioni di rango ordinario che limitavano, intuitu personae, l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.

Per quanto riguarda, invece, l’ipotesi della richiesta di procedimenti da parte dell’autorità competente si possono recuperare rilievi per certi versi riconducibili tanto all’una quanto all’altra categoria di condizioni fin qui considerate.

Sicuramente il tema presenta profili di grande complessità che impongono di limitare l’indagine alla ricerca di un plausibile canone di bilanciamento tra l’affermazione dell’obbligo del pubblico ministero ed il riconoscimento di interessi più ampi. Questo è il problema che qua ci si propone di affrontare.

Come si è già accennato, gli orientamenti espressi dalla sopracitata giurisprudenza costituzionale paiono fermamente indirizzati ad un’esegesi non eccessivamente intransigente166 dell’art. 112 Cost., interpretando il canone dell’obbligatorietà come dovere di attivazione

166 Cfr. F. Cordero, Archiviazione, cit., 1025 «senonchè, l’imporre all’organo dell’accusa un indiscriminato dovere di procedere in presenza di ogni notitia criminis condurrebbe ad un uso antieconomico di quel costoso strumento che è il processo penale».

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del pubblico ministero, sì indefettibile, ma in presenza dei presupposti contemplati dalla legge per il promovimento dell’accusa.

Questo paradigma ermeneutico è parso di per sé capace di gravi rischi di «erosione» del valore dell’obbligatorietà167 poiché ammetterebbe implicitamente la facoltà del legislatore ordinario di limitare ad libitum, attraverso la predisposizione di condizioni di procedibilità, l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale. E se è vero che l’imposizione formulata all’indirizzo di quest’ultimo dalla Carta costituzionale non stabilisce un legame di tipo immediato e diretto tra notizia di reato ed azione penale168, non si può non rilevare la necessità di un correttivo capace di scongiurare letture eccessivamente disinvolte. Data la delicatezza della questione, potrebbe non essere sufficiente accontentarsi di soluzioni generalizzanti ed allora occorre domandarsi se sia di per sé risolutiva l’assunzione del canone di eguaglianza a criterio integrativo di tale giudizio.

Sebbene sia stato fino a qui, numerose volte, sottolineato come la ratio più genuina della regola di obbligatorietà debba ascriversi all’intento di contrastare forme di arbitrio nel promovimento dell’azione penale, occorre evidenziare che l’aggancio con il postulato della «ragionevolezza» sviluppa una sola delle direttrici che promanano dall’analisi del dibattito costituente: nel vaglio sulla legittimità dei presupposti che la legge ordinaria può porre all’attivazione del pubblico ministero non deve trascurarsi, allora, la ponderazione anche del rispetto del valore di indipendenza del magistrato inquirente, che vuole il rappresentante dell’accusa sottratto alle influenze che altri soggetti

167 Cfr. M. Chiavario, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, cit., 86 s.: «A me sembra arduo negare che in pratica, attraverso l’artificio della «condizione»; un legislatore ordinario spregiudicato può raggiungere, sia pur in forma più subdola che con l’attribuzione di un potere diretto di vero, un risultato sostanzialmente equivalente a quello che con l’art. 112 Cost. si è voluto scongiurare: far dipendere da una volontà estranea al circuito giudiziario quell’innesco de processo penale che la Costituzione ha reso oggetto di un obbligo del pubblico ministero». 168 Cfr. M. Chiavario, Riflessioni sul principio costituzionale, cit., 96 «si potrebbe osservare che l’art. 112 Cost. descrive bensì un obbligo (di agire penalmente), ma evita di ricondurre tout court la fattispecie costitutiva nella semplice notitia criminis».

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istituzionali possano surrettiziamente esercitare sul suo determinarsi tra azione ed inazione169. In questa prospettiva, gli spazi di manovra concessi alla legge ordinaria risultano opportunamente circoscritti entro coordinate precise. Sono vietate soluzioni capaci di affievolire le ripercussioni esplicitate dal principio dell’obbligatorietà sul piano ordinamentale, minacciando l’indipendenza del pubblico ministero attraverso l’accreditamento di manifestazioni di volontà provenienti da altri centri di potere istituzionale. Residuerebbe un margine di salvezza per le condizioni di procedibilità che si inscrivessero, come gran parte di quelle attualmente disciplinate a livello di legislazione ordinaria, nel solco del principio di eguaglianza-ragionevolezza.

Evidentemente, l’individuazione di questo punto di equilibrio rappresenta l’esito di un percorso interpretativo piuttosto articolato; equilibrio che, nell’ottica di un eventuale impiego dell’istituto della condizione di procedibilità quale veicolo per la formulazione di regole per l’esercizio dell’azione penale, il giudice sarebbe chiamato a preservare attraverso un attento monitoraggio giurisprudenziale. Certo, l’attuale modello di giudizio sulla legittimità delle leggi, ispirato ad un controllo successivo ed incidentale, non azzera, in termini astratti ed assoluti, il rischio che siano introdotti dal legislatore ordinario requisiti non rispondenti ai suddetti parametri interpretativi. Tuttavia le numerose pronunce giunteci, nel corso degli anni, dal Palazzo della Consulta in tema di condizioni di procedibilità dimostrano la puntuale attenzione prestata dai giudici a quibus alla materia in questione, facendo presagire un pronto interpello della Corte in caso di situazioni di potenziale incompatibilità tra nuova normativa ordinaria ed i valori sottesi all’art. 112 della Carta fondamentale.

169 Sulla necessità di dare visibilità ad entrambi i profili di garanzia sottesi al principio di obbligatorietà v. R. Orlandi, Procedibilità, cit., 49 «Visibilmente si tratta di princìpi distinti, ancorchè complementari. Anche a voler concepire il canone di obbligatorietà dell’azione penale quale manifestazione (almeno parziale) del principio di eguaglianza, non c’è dubbio che essi intende soprattutto assicurare l’indipendenza dell’ufficio d’accusa dal potere esecutivo».

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Infine, a parere della scrivente, sembra essere interessante, in modo particolare, la posizione che sul punto è stata assunta da Mario Chiavario170. Pare arduo, sostiene l’autore, negare che, attraverso l’artificio della condizione di procedibilità, un legislatore ordinario possa raggiungere un risultato tendenzialmente equivalente a quello che con l’art. 112 Cost. si è voluto scongiurare, ovverosia far sì che l’innesco del processo penale – che la Costituzione ha reso oggetto di un obbligo del pubblico ministero – dipenda da una volontà estranea ed esterna al circuito giudiziario. Se così è vero, allora, in linea del tutto teorica, si potrebbe addirittura porre alla base un problema di compatibilità di tutti questi istituti con l’art. 112 Cost. Ora, indubbiamente, una posizione così estrema non sarebbe realistica. Sicuramente non era intenzione dell’Assemblea costituente quello di mettere in crisi un meccanismo quale quello della procedibilità a querela della persona offesa. Del resto,