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L’interpretazione giurisprudenziale dell’art 112 della Carta fondamentale

L’interpretazione dell’art. 112 Cost. è un passaggio obbligato e non è un caso, infatti, che la Corte costituzionale sia intervenuta plurime volte in tema di azione penale. Indubbiamente è la sentenza n. 88 del 199183 quella che rappresenta un punto di riferimento centrale per cogliere correttamente parecchi tra gli aspetti più essenziali della problematica costituzionale dell’azione penale e della sua obbligatorietà. Innanzitutto la Corte ricorda quanto in materia ebbe già ad affermare nella sentenza n. 84 del 1979 e cioè «L’obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale ad opera del Pubblico Ministero […] è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l'indipendenza del Pubblico Ministero nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale84; sicché l'azione è attribuita a tale organo senza consentirgli alcun margine di discrezionalità nell'adempimento di tale doveroso ufficio»85.

82 Cass., 14 giugno 1990. P.G., C.E.D. Cass., n. 187721.

83 La sentenza n. 88 del 28 gennaio 1991 è pubblicata in Giur. cost., 1991, p. 586. Per una puntuale analisi della portata di questa pronuncia costituzionale cfr. G. Di Chiara,

L’archiviazione, in ID., Processo penale e giurisprudenza costituzionale, Itinerari, cit.

p. 227 ss.

84 Il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge penale lo si evince dall’art. 25 co. 2 Cost.

85 V. Corte cost., sent. 84/1979 in GCos., 1979, 640: «L’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ad opera del pubblico ministero, già reintrodotta nell’ordinamento con il d.l.l. 14 novembre 1944 n. 288 (art. 6), è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero

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Più compiutamente: il principio di legalità (art. 25, co. 2 Cost.), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale. Sentenza dunque, la n. 89 del 1974, che sancisce come l’obbligatorietà dell’azione penale ad opera del pubblico ministero sia un elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Nella sentenza n. 420 del 1995 la Corte costituzionale ribadirà come l’obbligatorietà dell’azione penale sia presidio fondamentale per l’indipendenza del pubblico ministero. Così si legge «[...]Va anche qui ribadito che l’obbligatorietà dell’azione penale, punto di convergenza di un complesso di princìpi del sistema costituzionale, costituisce la fonte essenziale della garanzia dell’indipendenza del pubblico ministero […]»86. Il pronunciamento costituzionale del 1991 poi, esaurito il richiamo alla sentenza del 1974, così prosegue «Il principio di obbligatorietà è, dunque, punto di convergenza di un complesso di princìpi basilari del sistema costituzionale, talchè il suo venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo».

nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale».

86 In sede della sentenza n. 420 1995, la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli nei confronti del Ministero di grazia e giustizia. Il procuratore della Repubblica lamentava la violazione degli artt. 13, 101, 104 e 108 Cost. da parte del d.m. interno del 24 novembre 1994 n. 687 (Regolamento recante norme dirette ad individuare i criteri di formulazione del

programma di protezione di coloro che collaborano con la giustizia e le relative modalità di attuazione). La Corte costituzionale dichiarerà, rigettando dunque il

ricorso, come non spetti al Governo adottare le disposizioni di cui agli artt. 2, commi 2, 3, 4 e 4, comma 2, del decreto ministeriale anzidetto, nella parte in cui prevedono che il procuratore della Repubblica debba redigere, anche qualora ritenga, in base a propria motivata valutazione, che ciò possa recare pregiudizio per lo sviluppo delle indagini, il «verbale di informazione ai fini delle indagini» e di conseguenza ha annullato parzialmente le norme anzidette.

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Tuttavia, il passaggio argomentativo più significativo è il seguente: «Il principio di obbligatorietà dell’azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità del giudice: ed in esso è insito, perciò quello che in dottrina viene definito favor actionis. Ciò comporta non solo rigetto del contrapposto principio di opportunità […] ma comporta altresì che, nei casi dubbi, l’azione vada esercitata e non omessa».

Questo è quanto sancito dai giudici di Palazzo della Consulta nel 1991. Alla luce di quanto riportato, i passaggi salienti del ragionamento della

Corte sono essenzialmente due. Il primo è dato dal fatto che in caso di dubbio circa la sussistenza di motivi che giustifichino l’archiviazione si deve comunque procedere in ossequio al favor actionis. La Corte, a tal fine, ha fornito un’interpretazione ad hoc dell’art. 125 delle norme di attuazione, preoccupata di non appiattirne il significato nei termini di una formulazione «sondata» nel corso dei lavori preparatori secondo la quale il pubblico ministero avrebbe dovuto chiedere l’archiviazione ogniqualvolta ritenesse «gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari

non sufficienti al fine della condanna dell’imputato». Dunque, palese è l’adesione della Corte alla tesi secondo cui il principio

di obbligatorietà imporrebbe di limitare l’archiviazione ai soli casi di oggettiva «superfluità» del processo. Il secondo passaggio saliente, ed allora qua guardiamo all’aspetto che più direttamente coinvolge ed interessa la nostra riflessione, consiste nel divieto per il legislatore di prevedere fattispecie processuali improntate al principio di opportunità. Possiamo constatare che il proprium specifico dell’art. 112 Cost. viene qua individuato dalla Corte costituzionale nel rifiuto del principio di opportunità dell’azione penale. Esso, ci ricorda la Corte, pur senza implicare una consequenzialità automatica tra notizia di reato e processo, esclude che l’organo dell’accusa sia facoltizzato a «non agire

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in base a valutazioni estranee all’oggettiva fondatezza della notitia

criminis»87.

Altro contributo importante fornitoci da questa sentenza, consiste nell’aiutare a comprendere quale sia il momento di inizio dell’esercizio dell’azione penale e quindi da quale momento inizia ad operare il correlativo principio di obbligatorietà, a fronte di una disciplina codicistica che sul punto tace. L’art. 50 c.p.p., infatti, parla di esercizio e non di inizio e l’art. 405 c.p.p. si limita ad elencare gli strumenti tipizzati tramite i quali si esercita l’azione penale. Da ciò parte della dottrina esclude che le indagini preliminari siano soggette all’obbligatorietà. Tuttavia la sentenza n. 81 del 1991 fissa il principio di completezza delle indagini preliminari sostenendo che l’azione comincia con la recezione della notitia criminis.

A fronte di questa divergenza, tra dottrina e giurisprudenza, una possibile interpretazione, volta a ricomporre la frattura, potrebbe essere quella di riconoscere che l’azione penale inizi con gli atti tipizzati del 405 c.p.p. ossia al termine delle indagini preliminari, ma che nonostante questo, il principio di completezza sia comunque valido in quanto costituisce la necessaria premessa senza la quale l’obbligatorietà dell’azione penale sarebbe facilmente aggirabile. In sostanza, durante le indagini preliminari si potrebbe ipotizzare che viga solo la c.d. discrezionalità psicologica, consistente nel naturale sistema di

87 V. Corte cost., sent. 88/1991, in CP, 1991, 207 ss.: «Azione penale obbligatoria non significa, pero, consequenzialità automatica tra notizia di reato e processo, né dovere del pubblico ministero di iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis. Limite implicito alla stessa obbligatorietà, razionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si appalesi oggettivamente superfluo». Ancora, al riguardo, v. A. Bernardi in Commento al nuovo codice di procedura penale – La normativa

complementare, coordinato da M. Chiavario, I, Torino 1992, p. 480. Ha precisato che

il punto centrale della pronuncia della Corte costituzionale sta proprio nell’interpretazione restrittiva data a tale disposizione. L’intento è chiaro: ridurre il più possibile gli spazi di discrezionalità e di rendere, almeno sulla carta, più difficile l’applicazione del principio di opportunità. Anche se osserva, lo stesso A. Bernardi, la regola di giudizio di cui è portatore l’articolo, anche dopo la sentenza della Corte costituzionale, non sempre consentirà di individuare agevolmente la linea di demarcazione tra superfluità e inopportunità.

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convinzioni e idee del singolo pubblico ministero, i quali influenzano il suo agire.

Sicuramente si registra l’assoluta costanza nel tempo della giurisprudenza costituzionale avviata con la sentenza n. 88 del 1991. Uno dei pronunciamenti più recenti è quello dato dalla sentenza n. 121/2009 dove la Corte afferma che l’esigenza di razionalità degli interventi legislativi in materia risulta ancora più pregnante allorchè essi si traducano, come nella fattispecie, in una previsione impeditiva dell’esercizio dell’azione penale. Così ha statuito: «Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost., non esclude che l’ordinamento possa subordinare l’esercizio dell’azione penale a specifiche condizioni. Affinchè l’art. 112 Cost. non sia compromesso, tuttavia, simili canoni debbono risultare intrinsecamente razionali e tali da non produrre disparità di trattamento tra situazioni analoghe: e ciò, alla luce dello stesso fondamento dell’affermazione costituzionale dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, come elemento che concorre a garantire – oltre all’indipendenza del pubblico ministero nello svolgimento della propria funzione – anche e soprattutto l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale».

Con altrettanta certezza, però, non possiamo certo dire di poter scorgere nella sentenza n. 88 del 1991 un punto di approdo nell’interpretazione dell’articolo 112 indiscutibile ed insuperabile. Si conosce, infatti, una molteplicità di problemi pratici della giustizia penale - a cominciare da quello dell’inflazione del carico pendente - con i quali siamo sempre di più chiamati a confrontarci e di fronte ai quali le precisazioni della Corte costituzionale forniscono una risposta soltanto parziale.

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