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Apprendimento sul lavoro e comunità di pratica 126

5   Competenze e gestione delle persone nella corrente socio-costruttivista

5.4   Competenze e gestione del personale 120

5.4.1   Apprendimento sul lavoro e comunità di pratica 126

L’apprendimento sul lavoro attraverso il fare ha ricevuto negli anni un’attenzione crescente da parte di molti studiosi di diversi ambiti disciplinari, interessati alle importanti applicazioni e implicazioni ad esso legate. Già nel 1977 alcune ricerche svolte da Lave mostravano come “l’apprendimento attraverso l’esperienza guidata” (prassi originariamente indicata con il termine di apprendistato) conduceva a risultati sorprendenti nell’insegnamento di attività lavorative da parte di esperti lavoratori a novizi inesperti (Lave, 1977).

Questi, analizzando l’attività di una comunità di sarti in Libia, trovò che gli apprendisti sarti passavano molte ore a guardare gli esperti mentre operavano, osservando l’intero processo produttivo degli abiti e il prodotto risultante; in seguito, cimentandosi essi stessi nella produzione, passavano progressivamente dal praticare alcune azioni relativamente semplici, come tagliare, usare la macchina da cucire ecc. ad attività sempre più complesse, ripetendo più volte il compito fino a padroneggiarlo completamente. Questo portava l’apprendista a sviluppare sempre più le proprie capacità e a produrre inizialmente capi semplici, poi abiti sempre più complessi, sotto la guida dei propri maestri, i quali si limitavano occasionalmente ad impartire istruzioni o a indicare errori riscontrati.

L’efficacia formativa dell’apprendistato è stata ribadita da diversi importanti autori (Collins et al., 1989; Resnick, 1987), che hanno mostrato come, attraverso l’osservazione iniziale, l’assistenza e la pratica, possano essere sviluppate competenze crescenti.

Ciò che più appare significativo di questa pratica situata e graduata di apprendimento, rispetto ad altri metodi di formazione teorici basati sull’insegnamento d’aula, è la partecipazione diretta da parte del novizio all’attività reale (e non ricostruita o simulata) sotto la supervisione, la guida e la costante assistenza dell’esperto. I vantaggi dell’apprendistato nell’insegnamento di «abilità complesse» sono da ricercarsi nelle seguenti ragioni:

la prima è che fornisce a chi impara un principio organizzatore per il loro tentativi di mettere in pratica una capacità complessa, permettendo così di dedicare all’esecuzione un’attenzione maggiore di quanto sarebbe possibile altrimenti. In secondo luogo, il modello fornisce una struttura interpretativa per comprendere i suggerimenti, le valutazioni e le correzioni dell’esperto nel corso delle fasi interattive di assistenza. Terzo, il modello fornisce una guida interna nel periodo di pratica relativamente indipendente. Inoltre, la costruzione di un modello concettuale che può essere continuamente aggiornato attraverso osservazioni ulteriori e valutazioni, incoraggia l’autonomia nella riflessione (Collins et al., 1989; trad. it., p. 185).

In tale percorso la riflessione costituirebbe un aspetto chiave, in quanto la stessa «è il processo sottostante l’abilità di chi impara di confrontare la sua prestazione, sia a livello micro che macro, con quella degli esperti» (ibid). Tali confronti aiuterebbero nel «diagnosticare le difficoltà e ad

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aggiustare in modo graduale la prestazione fino al raggiungimento della competenza» (ibid).

La forma tradizionale di apprendistato sopra descritta, seppure efficace in molti contesti, spesso è stata oggetto di critiche, attraverso le quali è stato evidenziato il carattere eccessivamente concreto, imitativo, contestuale di questa pratica di formazione che poco incentiva i novizi a sviluppare creatività (o metodi innovativi) in relazione all’attività svolta.

Tali limiti, tuttavia, sembrano poter essere superati da una nuova strategia di formazione, sviluppata sempre nell’ambito della pratica dell’apprendistato, ma più adeguata a favorire lo sviluppo di capacità di diversa natura negli apprendisti. Questa, prescindendo dalla semplice imitazione o ripetizione, facilita lo sviluppo di capacità di riflessione, di argomentazione e di pensiero critico in merito al lavoro eseguito. Questa tecnica prende il nome di apprendistato cognitivo (ibid). Tale metodo, incoraggiando la riflessione sulle differenze tra l’esecuzione dell’apprendista e dell’esperto, attraverso l’alternanza delle prestazioni dei due soggetti e la descrizione verbale dell’attività svolta, promuove lo sviluppo di capacità legate alla soluzione di nuovi problemi e non più alla mera ripetizione di quanto osservato:

rispetto alle conoscenze fattuali e concettuali, l’apprendistato cognitivo ne sottolinea la funzione nel risolvere i problemi ed eseguire i compiti: ovvero esemplifica e colloca queste conoscenze nel loro contesto d’uso. Le conoscenze fattuali e concettuali sono pertanto imparate in relazione ai loro usi in una varietà di contesti, dando luogo ad una comprensione più profonda del significato degli stessi fatti e concetti e a una ricca tessitura di associazioni facilmente ricordabili tra essi e il contesto del problema (ivi, p. 186).

L’apprendistato cognitivo rispetto a quello tradizionale attribuisce maggiore rilevanza alla dimensione meta cognitiva, facendo seguire alle fasi di modellamento-assistenza-fading le fasi di articolazione,riflessione ed esplorazione:

i sei modelli di insegnamento […] possono dividersi grossomodo in tre gruppi: i primi tre (modellamento, assistenza e scaffolding) costituiscono il nucleo dell’apprendistato cognitivo, e hanno la funzione di aiutare gli studenti [leggi: i novizi] ad acquisire un insieme integrato di capacità cognitive e meta cognitive attraverso l’osservazione e la pratica assistita. Altri due (articolazione e riflessione) sono pensati per aiutare gli studenti a focalizzare le loro osservazioni sul problem solving esperto ed ad acquisire consapevolezza (e controllo) sulle proprie strategie. L’ultimo metodo (esplorazione) è finalizzato a promuovere l’autonomia di chi impara, non solo nell’esecuzione competente delle attività ma anche nella definizione o formulazione di problemi da risolvere (ivi, p. 214).

La fase iniziale di formazione e “modellamento” «prevede l’esecuzione di un compito da parte di un esperto in modo che gli studenti possano osservare e costruire un modello concettuale dei processi coinvolti in quel compito» (ibid); questa prima fase vede l’apprendista osservare l’esperto (maestro) che esegue l’attività di interesse, dimostrando al novizio le fasi dell’esecuzione del lavoro. In questa fase, l’esteriorizzazione dei processi svolti dall’esperto permette all’apprendista di creare un modello concettuale dell’attività eseguita.

Segue la fase di “assistenza”, «che consiste nell’osservazione degli studenti mentre eseguono un compito e nell’offrire suggerimenti […] finalizzati ad avvicinare la loro prestazione a quella dell’esperto» (ivi, p. 215).

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Tale fase è fondamentale in quanto «è diretta alla messa in atto e all’integrazione delle capacità al servizio di scopi definiti, attraverso valutazioni e suggerimenti altamente interattivi e situati, […] collegati a eventi o problemi specifici sorti durante lo svolgimento dei compiti» (ibid).

Lo “scaffolding”34 «si riferisce al sostegno fornito dall’insegnante [leggi: dall’esperto] sia nella

forma di suggerimenti o aiuto […] sia in quella di supporti materiali» (ibid). L’esperto affianca l’apprendista nell’esecuzione del lavoro, fornendogli aiuto, sostegno e continui feed-back in relazione all’attività svolta. Attraverso lo scaffolding diventa possibile, per il novizio, superare gli ostacoli richiesti dal compito attraverso l’assistenza progressivamente ridimensionata (fading). «Il fading consiste nella rimozione graduale del sostegno fino a che lo studente non riesca a completare il compito da solo» (ivi, p. 216).

L’“articolazione” «si riferisce a qualsiasi metodo che induca gli studenti ad articolare le conoscenze, i ragionamenti o i processi di problem solving messi in atto in un dominio» (ibid): consiste in qualsiasi tecnica che incentivi e incoraggi i novizi ad esprimere i propri pensieri durante l’esecuzione del compito, articolando e dichiarando le conoscenze mobilitate, i ragionamenti fatti ed i processi di problem solving utilizzati.

La “riflessione” consente al novizio di «confrontare la propria prestazione con quella di un esperto» (ibid). La riflessione è favorita dalla replica dell’esecuzione del novizio e dell’esperto o dall’uso di molteplici tecnologie di riproduzione nella quale vengono evidenziate le caratteristiche essenziali delle due prestazioni e i racconti (esplicitazione del pensiero) del novizio e dell’esperto.

«L’“esplorazione” consiste nell’incentivare l’apprendista a risolvere i problemi per conto proprio, [...] a formulare domande o problemi interessanti da poter risolvere» (ivi, p. 217), esplorando nuovi compiti in diversi “domini”. Questo spinge i novizi, oltre che alla risoluzione dei problemi, alla loro formulazione.

Il concetto di “apprendistato” (apprenticeschip) fornisce un modello dell’attività socioculturale congiunta: questa implica la partecipazione attiva dell’individuo, insieme ad altri, ad attività organizzate culturalmente; tale partecipazione ha come obiettivo quello di raggiungere modi di partecipazione più esperti all’attività. L’idea di apprendistato concentra l’attenzione sul dominio dell’attività congiunta, sottolineandone le relazioni con le altre attività del contesto in cui avviene (Zucchermaglio, 1996, p. 70).

Ripercorrendo le varie fasi dell’apprendistato emerge come l’apprendimento da parte nel novizio sia legato ad un progressivo sviluppo di competenze che lo rendono gradualmente più autonomo nello svolgimento dell’attività lavorativa: «coloro che devono apprendere […] hanno bisogno di cominciare dalla periferia dell’attività autentica e di muoversi poi progressivamente, all’aumentare delle capacità, verso una piena partecipazione all’attività stessa» (ivi, p. 64), guidati e supportati dai

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Il termine scaffolding compare già in una pubblicazione di Wood, Bruner e Ross pubblicato dal Journal of Child Psychology and Psychiatry nel 1976. Nell’articolo gli autori descrivono le modalità di interazione tra un adulto ed un bambino impegnato nella costruzione (attraverso dei blocchi di legno) di una piramide tridimensionale, descrivendo le strategie con le quali un esperto (l’adulto) aiuta un novizio (bambino), altrimenti impossibilitato, senza tale assistenza, nella risoluzione del problema, nell’assolvimento di un compito (Wood, Bruner, Ross, 1976, pp. 89-90). Il ruolo dello scaffolding è quello di creare un ambiente adatto all’apprendimento di nuove competenze.

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più esperti (in un contesto ben definito). Nelle fasi iniziali il bisogno di supporto è notevole; al crescere dell’esperienza dell’apprendista tale supporto si riduce fino a svanire del tutto e quest’ultimo si dimostra in grado di svolgere in completa autonomia l’attività appresa; da una partecipazione inizialmente marginale e “periferica”, il soggetto diviene in grado di padroneggiare tale attività sviluppando competenze crescenti e divenendo egli stesso un esperto.

Tale procedimento assume nella formulazione originaria il nome di Legitimate Peripheral Partecipation35 (Lave, Wenger, 1991). La nozione di partecipazione periferica legittimata indica la

passibilità che un novizio sia coinvolto in misura crescente nelle pratiche proprie di una comunità, apprendendole e divenendone parte integrante in quanto riconosciuto dai membri della comunità stessa. Quest’ultima specificazione non si contrappone ad un’ipotesi di partecipazione illegittima, ma evidenzia esclusivamente l’importanza che i membri di una comunità siano disposti a condividere le proprie tecniche e i propri metodi con l’apprendista, che solo in tal caso ha la possibilità di imparare e apprendere. Allo stesso modo il “posizionamento” (inizialmente) periferico non si contrappone ad un partecipazione centrale, ma indica piuttosto la progressività e la continuità dell’apprendimento, all’inizio necessariamente ridimensionato dalla totale inesperienza e dalla estraneità del novizio alla comunità, poi crescente di pari passo con l’esperienza, l’autonomia e la consapevolezza acquisite dal nuovo membro della comunità.

Queste costituiscono il luogo privilegiato dell’apprendimento attraverso la pratica, il quale «deriva molte caratteristiche cognitivamente rilevanti dal fatto di essere incluso in una sottocultura in cui la maggior parte, se non la totalità, dei membri possiedono le capacità necessarie per l’attività di interesse» (Collins et al., 1989; trad. it., p. 185). In esse «gli apprendisti hanno continuamente accesso ai modelli di “competenza in uso”» (ibid).

Le comunità di pratica sono quindi costituite da persone le cui relazioni sociali (lavorative) sono strettamente interconnesse, le quali condividono modi di fare le cose, di agire, i valori, le credenze, le tradizioni ecc.

L’utilità di abbracciare l’idea delle comunità di pratica potrebbe risiedere nella possibilità che lo stretto rapporto e la continua relazione tra i membri della comunità stessa potrebbe consentire la condivisione anche di competenze tacite, favorita dall’adozione di un unico lessico e di un modello interpretativo comune e condiviso.

Non si tratta quindi di acquisire un’abilità decontestualizzata, né conoscenze teoriche; «l’apprendimento, dal punto di vista della LPP, prevede essenzialmente che si diventi “membri”. Le persone che imparano non ricevono né costruiscono conoscenze astratte, “oggettive”, e individuali: piuttosto imparano a comportarsi come membri di una comunità» (Brown, Duguid, 1991; trad. it., p. 340). La disponibilità da parte degli altri membri della comunità favorisce lo sviluppo di

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competenze e abilità (altrimenti inaccessibili) e l’apprendimento di pratiche situate nella comunità; «ciò che si impara, quindi, non sono le conoscenze esplicite “da esperti” ma le abilità, spesso implicite, per comportarsi come membri di una comunità» (ibid).

Attraverso la partecipazione, il praticante si appropria delle conoscenze condivise da una comunità, ma le stesse non esistono a priori dalle pratiche sottese che danno loro un senso: «le persone arrivano a sviluppare e a condividere modi di fare le cose, modi di parlare e pensare, credenze, valori – in breve pratiche – proprio in funzione della loro partecipazione ad attività comuni» (Zucchermaglio, 1996, p. 75). L’attività contraddistingue una comunità di pratica: «tali aggregazioni, anche informali, vengono chiamate comunità di pratiche, proprio per sottolineare il fatto che esse sono definite proprio in base ai modi condivisi con cui svolgono specifiche attività, più che in base alle caratteristiche dei loro membri» (ibid).