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Il quadro concettuale: l’organizzazione come processo di azioni e decisioni e il

6   L’esigenza di una nuova concezione: l’organizzazione come processo di azioni e

6.2   Il quadro concettuale: l’organizzazione come processo di azioni e decisioni e il

Il significato del concetto di competenza e le opportunità che esso dischiude mutano profondamente se ci si allontana da concezioni “reificanti” e si abbraccia l’idea di organizzazione come processo di azioni e decisioni, declinata nella “Teoria dell’Agire Organizzativo”, proposta da Bruno Maggi (1984/1990, 2003).

Questa è elaborata a partire dal riesame di diverse teorie di autori considerevoli (tra i quali Weber 1922, Barnard 1938, Simon 1947, Thompson 1967, Touraine 1973, Giddens 1984, Reynaud 1989) e dall’analisi di alcuni importanti temi affrontati da questi autori. Ciò che accomuna i diversi argomenti analizzati – tra i quali la razionalità limitata, la natura dei processi decisionali, il concetto di azione cooperativa, il problema dell’incertezza, le scelte di strutturazione e altre ancora, classiche della letteratura organizzativa – successivamente accolti in una teoria sull’azione sociale e organizzativa, è la medesima postura epistemologica di fondo, che Maggi ritiene coerente con quella delineata da Weber e indicata come “terza” rispetto a quella positivista e soggettivista39.

La terza via epistemologica, attraverso la logica della “causazione adeguata”, costituisce un modo di interpretare i fenomeni sociali a partire dalla “spiegazione condizionale” del loro corso e dalla “comprensione” del senso intenzionato dei soggetti agenti40.

È abbandonato sia il determinismo oggettivista41, alla costante ricerca di leggi generali e

universali causa effetto, sia il relativismo soggettivista, che si oppone a qualsivoglia generalizzazione, privilegiando la specificità, il carattere situato e l’irripetibilità di ogni singolo accadimento, in favore della “possibilità oggettiva”42.

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Ciò che sembra distinguere la Teoria dell’Agire Organizzativo rispetto ad altre teorie che si compongono di una “semplice aggregazione” di categorie analitiche, concetti e schemi interpretativi derivati dal pensiero di autori classici della letteratura organizzativa è proprio la coerenza epistemologica di fondo, alla luce della quale i diversi contributi analizzati sono reinterpretati e rielaborati in modo organico.

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«La scienza sociale, quale noi vogliamo promuoverla, è una scienza della realtà. Noi vogliamo intendere la realtà della vita che ci circonda, e nella quale noi siamo inseriti, nel suo proprio carattere – noi vogliamo intendere cioè da un lato la connessione e il significato culturale dei suoi fenomeni particolari nella loro odierna configurazione, e dall’altro i fondamenti del suo essere storicamente divenuto così-e-non-altrimenti» (Weber, 1922; trad. it., p. 84).

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Weber, lungi dal sostenere tesi interazionistiche e fenomenologiche, respinge la possibilità di affidarsi a logiche di “causazione necessaria” per spiegare il divenire dei fenomeni sociali. A tal proposito osserva come, sebbene il “metodo” delle scienze naturali fosse quello di «pervenire sulla via dell’astrazione generalizzante e dell’analisi del dato empirico nelle sue connessioni legali ad una conoscenza di tipo monistico dell’intera realtà che fosse puramente “oggettiva”, cioè sciolta da tutti i valori e allo stesso tempo razionale, cioè liberata da ogni “accidentalità” individuale, [sia] impossibile seguire […] le forti influenze di questa fiduciosa disposizione al monismo naturalistico sulle discipline economiche» (Weber, 1922; trad. it., pp. 102-103). «È priva di senso una trattazione “oggettiva” dei processi culturali, per la quale debba valere come scopo ideale del lavoro scientifico la riduzione a “leggi”» (ivi, p. 95). A tal proposito Weber osserva: «La questione causale, allorché si tratta dell’individualità di un fenomeno, non è una questione di leggi bensì una questione di concrete connessioni causali; non è una questione relativa alla formula sotto la quale può venir collocato il fenomeno come esempio specifico, ma una questione relativa alla connessione individuale a cui esso può venir collegato come suo risultato – è cioè una questione di imputazione» (Weber, 1922; trad. it., p. 93).

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«Noi isoliamo astrattamente una parte delle “condizioni” ritrovate nella “materia” del divenire e le facciamo oggetto di “giudizi di possibilità”, in modo da penetrare, con l’aiuto di regole empiriche, il “significato” causale dei singoli elementi del divenire» (Weber, 1922; trad. it., p. 229). «Il giudizio oggettivo di “possibilità” ammette quindi, per la sua essenza, delle gradazioni; e ci si può raffigurare questa relazione logica in appoggio a principi che vengono impiegati nell’analisi logica del “calcolo delle probabilità”, in maniera da poter pensare quelle componenti causali, al cui “possibile” effetto si riferisce il giudizio, isolate nei confronti di tutte le rimanenti condizioni che si possono in genere concepire come cooperanti, ed in maniera da poterci chiedere come l’ambito di quelle condizioni, insieme alle quali quelle componenti concettualmente isolate erano “adatte” a produrre la conseguenza “possibile”, si comporta rispetto all’ambito di quelle altre, insieme alle quali non lo avrebbe

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A partire dalla TAO, e dalla trattazione di Maggi relativa al concetto di competenza, nelle righe che seguono proporremo una nostra riflessione su tale concetto. Tale riflessione costituirà il quadro concettuale di riferimento per il lavoro di interpretazione dei casi empirici esaminati nel prosieguo del lavoro.

La TAO abbandona la concezione di organizzazione come insieme di job. Di qui, si può affermare che emerge la necessità di ricercare la competenza non più nella conformità delle azioni alle aspettative di un ruolo, ma nell’adeguatezza delle scelte, che a livelli diversi, caratterizzano in ogni momento il divenire di ciascun piano dell’organizzazione analiticamente distinguibile.

In tal senso la competenza (che connota un agire sociale) è «saper valutare la strumentalità delle azioni, le alternative di risultati, la regolazione delle azioni, delle loro relazioni, dei loro svolgimenti, e la congruenza reciproca di tutte queste dimensioni del processo» (Maggi, 2001, p. XX). La competenza si esprime nell’adeguatezza delle scelte che nel tempo, in ogni momento, caratterizzano il dipanarsi di ciascun piano analiticamente distinguibile del processo di azione.

Il divenire del processo attiva lo sviluppo della competenza che è relativa al divenire di azioni e decisioni; la competenza sottende e accompagna le azioni, connotate da un contesto specifico, da attori, da artefatti e da scelte che si susseguono in ciascun processo organizzativo.

La competenza non è decontestualizzabile perché è intrinseca al processo organizzativo e alla sua regolazione, che ne ordina mezzi e fini.

«La competenza così intesa non può che formarsi e riformarsi nel processo. Ma questo non esclude che attinga a conoscenze acquisibili, a saperi disciplinari che possono essere coltivati e arricchiti» (ivi, p. XXII), all’esperienza personale, ai valori, ecc; tuttavia solo il recupero di un agire sociale inteso come processo di azioni e decisioni (e il superamento della contrapposizione tra soggetto e organizzazione che ne deriva) può render conto di come tali elementi eterogenei possano mobilitarsi e combinarsi tra loro nella valutazione della regolazione, traducendosi in azione.

La competenza sottende qualsiasi corso d’azioni volto al perseguimento di obiettivi desiderati, orientando variabilmente le scelte secondo razionalità limitata; essa caratterizza in ogni momento l’agire (organizzativo) e pertanto è azione, anche inconscia, di valutazione delle scelte relative a ciascun piano dell’organizzazione. In tal senso la mutevolezza dell’organizzazione è espressione della competenza, che trasforma il processo e in esso si sviluppa (in un rapporto circolare e ininterrotto di apprendimento e cambiamento), orientandone il divenire in modo strumentale alle scelte tecniche e istituzionali; queste ultime sono a loro volta vagliate nel processo organizzativo secondo razionalità limitata e intenzionale, a ogni livello, nell’intreccio di catene mezzi fini, spesso non completamente integrate, che compongono il corso d’azioni.

prevedibilmente prodotto. Naturalmente non si ottiene in nessun modo, mediante questa operazione, un rapporto tra due “possibilità” da calcolare “numericamente”. Un rapporto siffatto esiste soltanto nel campo del “caso assoluto” […], per esempio nel gioco dei dadi» (ivi, pp. 224-225).

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Le competenze sottendono il senso intenzionato dell’azione e perfezionano il rapporto tra soggettività e processo sociale: queste qualificano le scelte e le modalità di azione e intervento secondo razionalità intenzionale e limitata di ogni attore nel processo organizzativo e in tal modo contribuiscono a modificarne la regolazione attraverso un nuovo ordine provvisorio. L’intenzionalità, guidata da valutazioni soggettive, caratterizza l’azione dei soggetti che scelgono e agiscono nel processo, il cui ordine riflette l’esito dell’insieme di scelte ai vari livelli.

Per questa via è possibile affrontare alcuni nodi concettuali in modo diverso da quelli che si possono ritrovare nella letteratura mainstream, nodi che hanno caratterizzato il dibattito sulle “competenze condivise”, la “capitalizzazione delle competenze” e tutte le altre riflessioni che in qualche modo hanno problematizzato, da un lato, la contrapposizione tra soggetti e organizzazione e il relativo “trasferimento” delle competenze tra i due, dall’altro, il passaggio delle competenze tra soggetti differenti. In un’organizzazione concepita come processo di azioni e decisioni guidate da razionalità limitata e intenzionale, ciascuna azione che struttura il processo organizzativo è frutto di una scelta di regolazione, di un giudizio di adeguatezza che ne caratterizza il suo divenire e, in quanto tale, è espressione di una competenza; ciascun corso di azioni, con il proprio ordine (sempre provvisorio e soggetto ai limiti della razionalità umana) attraverso obiettivi e mezzi specifici concorre a costituire il processo organizzativo e solo un esercizio di distinzione (analitica) tra processi, livelli e piani di analisi (che congiuntamente concorrono a costituire l’organizzazione) permette di identificarne le valutazioni e le conseguenti scelte relative ad obiettivi, mezzi e modalità di coordinamento e controllo di volta in volta operate, espressione appunto delle competenze “sottese” alle azioni.

In particolare, la nozione di “competenza organizzativa”, spesso utilizzata in letteratura al fine di distinguere la dimensione dell’impresa dalla dimensione individuale43, trova una differente

concettualizzazione se si concepisce l’organizzazione come divenire di scelte tecniche, istituzionali e strutturali: questa, infatti, può utilmente identificare la capacità di valutazione delle scelte specificatamente attinenti al piano analitico strutturale.

Oltre alla riconcettualizzazione della nozione di competenza, il riferimento alla TAO proposta da Maggi richiede un contestuale ripensamento degli obiettivi, delle logiche e degli strumenti, attraverso i quali la stessa può essere proficuamente utilizzata. Tentiamo quindi una riflessione ulteriore su questo tema.

In un’organizzazione concepita come corso d’azioni, la “gestione delle competenze” non può essere finalizzata a supportare l’azione di comunità di pratica, né a facilitare l’adattamento del soggetto ad un job predisposto in un sintema reificato: non è l’integrazione tra elementi discreti e la

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La nozione di “competenza organizzativa” costituisce forse il più evidente esempio di reificazione presente nella letteratura funzionalista: da un lato è infatti evidenziata la distanza tra soggetto e organizzazione, dall’altro il termine organizzazione è utilizzato come sinonimo di impresa.

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loro funzionalità ai bisogni del sovrasistema che “determina” il buon funzionamento dell’organizzazione (in tal senso reificata), ma l’adeguatezza dei processi di azioni e decisioni. Queste ad ogni livello concorrono a scegliere mezzi e obiettivi e a ordinarli secondo valutazioni di coerenza; chiunque agisca nell’organizzazione è necessariamente coinvolto in tale processo di scelta, non limitata alla selezione tra opzioni date ma alla creazione di alternative possibili, in ciascun piano d’azione. Alla “funzionalità” dei job si sostituisce la “strumentalità” dei processi organizzativi e l’adeguatezza delle scelte; per questo motivo ciò che assume maggiore rilevanza, non è “utilizzare” le competenze (così come codificate) per favorire l’integrazione tra elementi al sovrasistema (rispettivamente persone, job, organizzazione, ambiente) secondo logiche di adattamento, ma migliorare la capacità di valutazione e di scelta (appunto favorire lo sviluppo e la trasformazione delle competenze) di chiunque sia coinvolto nell’organizzazione, ovvero nella regolazione del processo di azione.

La “politica delle competenze”, lungi dal promuovere l’accesso a specifiche comunità di pratica nella speranza che queste “offrano” il loro contributo alla “comunità di comunità”, non può essere finalizzata alla formalizzazione delle caratteristiche di job e soggetti, né alla ricerca del miglior matching tra attori e ruoli. Piuttosto, il supporto dei processi di analisi e di riflessione sulle scelte compiute e sui corsi d’azione possibili, nonché la predisposizione di momenti di partecipazione (in relazione ai diversi livelli di decisione analiticamente distinguibili) per la valutazione e la regolazione degli stessi, dovrebbero costituire lo scopo principale di un ricorso alla nozione di competenza nelle organizzazioni.

Lo sviluppo e la trasformazione delle competenze, nonché la loro valorizzazione attraverso la partecipazione, costituiscono pertanto l’obiettivo principale che un approccio per competenze, in un processo di azione, può perseguire.

Una teoria delle competenze sorta con il preciso scopo di identificare cosa porta ad agire in un certo modo in un’organizzazione non può interpretare il senso delle azioni osservate a partire dalle sole caratteristiche soggettive dell’attore44, non può spiegare le scelte indagando esclusivamente le

sue qualità personali (o peggio, comportamenti osservati in passato45), tralasciando il divenire che

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Nella teoria mainstream l’insieme delle azioni compiute all’interno di un’organizzazione trova spiegazione nelle richieste della specifica posizione lavorativa (attraverso l’esplicitazione di obiettivi, responsabilità, ecc.) e nelle caratteristiche soggettive dell’attore. È con estrema chiarezza che Boyatzis chiarisce come (reso noto l’insieme di prescrizioni, di un job) le competenze costituiscano l’altra variabile interpretativa dell’insieme di azioni intraprese nello svolgimento dell’attività lavorativa: «the specific results required by the job occur because “specific actions” have been taken. […] The important point is that specific actions cause, or lead to, the specified results» (Boyatzis, 1982, p. 12). «Certain characteristics or abilities of the person enable him or her to demonstrate the appropriate specific actions. These characteristics or abilities can be called competencies» (ibid). «Motivazioni, tratti e immagini di sé predicono le skill di comportamento-azione, che a loro volta predicono i risultati di performance nella mansione» (Spencer, Spencer, 1993; trad. it., p. 34): dato un insieme di regole prescritte da un job, specifiche azioni rivelano competenze a monte che a loro volta spiegano, interpretano (e quindi aiutano a prevedere) le scelte e le azioni che saranno intraprese.

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In modo per nulla immune da rischi tautologici è stato già illustrato come tutto l’impianto di ragionamento induttivo si basi sull’assunto che le azioni esplicate siano manifestazione di competenze a monte e come proprio da queste ultime (assieme alle caratteristiche dell’ambiente) dipenda il comportamento futuro. A tal proposito, già Maraschini (2004), analizzando con estrema accuratezza l’impianto logico della teoria mainstream delle competenze, identifica alcuni principi che sembrano reggere tutto l’impianto di ragionamento e, tra questi, uno in particolare: «solo il comportamento predice il comportamento» (Maraschini, 2004, p. 12).

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necessariamente connota l’agire dei soggetti, le loro scelte e le loro azioni:

dans l’ensemble d’actions intentionnellement dirigées vers un résultat désiré qui constitue le processus de travail, ces actions seront très variables, connotées de manières différentes selon les cas. Ce qui nous aide à comprendre leur présence dans le processus, et leurs rapports réciproques vers le résultat, ce n’est pas la spécificité de ces actions, mais justement la régulation qui les met en ordre dans l’unité du processus, qui leur donne un sens vers l’atteinte du résultat qu’on désire (Maggi, 2003, p. 141).

Il criterio delle competenze non può trovare il suo momento culminante nell’esplicitazione di comportamenti desiderati (o osservati), codificati con procedimenti basati su principi di razionalità assoluta, ricercati nelle fasi di selezione, indotti attraverso la formazione e archiviati attraverso la descrizione su dizionari, ma nell’analisi della regolazione, volta ad evidenziare le caratteristiche del processo indagato e il divenire delle sue regole, al fine di sostenerlo e migliorarlo attraverso la riflessione sulle sue dimensioni analitiche e l’esplicitazione sulle alternative d’azione possibili, ad ogni livello contemplate.

La competenza è relativa ai giudizi che sottendono il formarsi e il riformarsi delle scelte e accompagnano le azioni di cui l’organizzazione si compone; questa guida il processo di azione, ne contraddistingue le scelte, ne giudica la coerenza del rapporto tra mezzi e fini e ne valuta la strumentalità della struttura.

Lo sviluppo della competenza si presenta come un processo ininterrotto di valutazione della regolazione che in ogni momento orienta il divenire del corso d’azioni; in nessun modo coincide con l’incremento della destrezza nell’esecuzione di compiti e mansioni, né con il perfezionamento di abilità richieste dal ruolo, e neppure con la comprensione di specifiche dinamiche e relazioni che caratterizzano una certa porzione di realtà sociale, ma riguarda l’incessante ri-formulazione di giudizi di coerenza tra corsi d’azione possibili.

Lo sviluppo della competenza non si sostanzia in un percorso di adattamento e integrazione al job, né nel progressivo recepimento di regole e aspettative funzionali del sistema, e neppure nell’attività di riflessione su una realtà costruita, sulle abitudini istituzionalizzate, i vincoli, i rapporti di potere e gli spazi di incertezza al suo interno; questo è piuttosto un processo alimentato dal susseguirsi di scelte guidate da razionalità limitata nel quale mezzi e obiettivi sono incessantemente vagliati e continuamente regolati in un corso d’azioni.

Il divenire di quest’ultimo incoraggia nuove scelte, attiva nuovi momenti di valutazione e in tal modo sviluppa nuova competenza; si tratta di un processo ininterrotto di valutazione della regolazione che caratterizza tutti i possibili ambiti decisionali analiticamente distinguibili nell’organizzazione.

Infatti, «il processo organizzativo […] non si risolve nelle decisioni e nelle strutture di governo. Il quadro d’incontro delle ragioni di incertezza nei rapporti tra piani di decisione e d’azione organizzativa concerne ogni livello del processo» (Maggi, 1984/1990, p. 98); inoltre, proprio l’aver accolto la prospettiva di organizzazione come processo di regolazione porta a riflettere sulla possibilità che le azioni siano regolate anche in modo contestuale e dunque necessariamente

145 autonomo.

Ciascun soggetto agente, certamente a livelli distinti e in spazi d’azione diversamente regolati, ha opportunità di giudizio e di regolazione; in tal modo accresce la propria competenza: nello stesso momento in cui dà vita ad azioni e decisioni, indaga incessantemente la relazione tra mezzi e fini e la loro strutturazione, ricercando alternative di volta in volta ritenute più adeguate, o formulandone di nuove.

Tale indagine, che prelude allo sviluppo della competenza, non appare dunque esclusiva prerogativa del “decisore” (come emerge dalla letteratura funzionalista), e neppure, in modo diametralmente opposto, dell’“esecutore” (in accordo con la visione soggettivista)46, ma

accompagna l’azione di ciascun soggetto agente, che proprio nel momento in cui decide e agisce, non può sottrarsi ad essa.

L’attività di comparazione, di valutazione e di scelta che identifica la competenza e il suo divenire è frutto dunque di uno sforzo di analisi del processo attraverso il quale, a partire dall’interpretazione di corsi d’azione già in essere, ad ogni livello è valutata l’adeguatezza delle soluzioni temporaneamente adottate e sono contemplate le alternative d’azione possibili. Per questo motivo l’interpretazione del processo organizzativo appare un momento fondamentale che attiva la formazione della competenza e la arricchisce nel tempo; la descrizione del processo e l’analisi delle sue dimensioni analiticamente distinguibili mostrano, infatti, possibili alternative d’azione e alimentano il processo di valutazione, rendendo le scelte più informate e consapevoli e favorendo in tal modo lo sviluppo della competenza.

La variabilità delle scelte osservate e gli sforzi nella definizione di alternative possibili sono frutto di un processo di valutazione di coerenza che è a sua volta l’esito di un’attività di interpretazione del processo organizzativo in continuo divenire: «la comprensione del senso delle scelte» articolate su ogni livello di cui il processo si compone e la «spiegazione del loro corso in relazione alle reciproche condizioni di variabilità» (ivi, p. 112) costituiscono dunque momento irrinunciabile che alimenta il processo di valutazione e scelta, ovvero lo sviluppo della competenza.

Anche nella letteratura mainstream si suppone che le scelte e i comportamenti seguano ad una competenza a monte e allo stesso modo si assume che un intervento a sostegno delle competenze non possa prescindere dall’interpretazione delle scelte osservate; tuttavia alcuni assunti tipicamente oggettivisti di base e la matrice squisitamente psicologica di tutto l’impianto teorico producono un concetto di competenza e ne promuovono una metodologia di sviluppo decisamente diversa da quella che, a partire dalla TAO, proponiamo in questa sede.

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È possibile distinguere analiticamente, ma non separare concretamente il momento di decisione e quello di esecuzione per identificarne uno come privilegiato o precedente rispetto all’altro. Nella concezione di mainstream la decisione è formalizzata nelle prescrizioni che precedono l’azione individuale. Queste identificano l’organizzazione formale attraverso organigrammi, procedure, ecc. Viceversa, nella concezione socio costruttivista, la pratica, lo svolgimento, l’azione, primeggiano sulla decisione e identificano l’organizzazione informale, caratterizzata da strategie individuali e obiettivi personali non necessariamente coincidenti con quelli organizzativi.

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