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Comunità di pratica e cambiamento organizzativo 130

5   Competenze e gestione delle persone nella corrente socio-costruttivista

5.4   Competenze e gestione del personale 120

5.4.2   Comunità di pratica e cambiamento organizzativo 130

Le comunità di pratica originariamente definite da Lave e Wenger (1991) come “un insieme di relazioni durature tra persone, attività e mondo, in connessione e parziale sovrapposizione con altre comunità di pratiche”, sono presentate come il luogo (metaforico) privilegiato nel quale la costruzione di conoscenza e lo sviluppo di competenze possono avvenire attraverso la partecipazione, il lavoro e l’apprendimento. Nelle comunità di pratica tali processi sono strettamente connessi tra di loro e inevitabilmente danno origine a “dirompenti ma necessari” cambiamenti e innovazioni.

Si può […] comprendere meglio l’apprendimento sul posto di lavoro in relazione alle comunità alle quali si partecipa e alle modifiche che ne conseguono in termini di identità personale. La questione centrale dell’apprendimento è diventare un praticante e non imparare “sulle” pratiche. Questo approccio sposta l’attenzione dalle conoscenze astratte e dai processi intraindividuali alle pratiche e alle comunità dove la conoscenza assume significato (Brown, Duguid, 1991; trad. it., p. 341).

Lavoro, apprendimento e innovazione sono forme strettamente collegate di attività umana convenzionalmente considerate in conflitto tra di loro. Generalmente si ritiene che la pratica lavorativa sia conservatrice e resistente al cambiamento, l’apprendimento distinto dal lavoro e problematico rispetto al cambiamento e l’innovazione come dirompente, ma necessaria, imposizione di cambiamenti ai primi due. C’è bisogno di uno slittamento concettuale per accorgersi che lavoro, apprendimento e innovazione sono forze interrelate e compatibili, quindi complementari e non conflittuali (ivi, p. 327).

Il momento generativo della costruzione di conoscenze e dello sviluppo di competenze, ovvero del cambiamento, è segnato dalla partecipazione dell’individuo alla comunità, in modo prima marginale e “periferico”, poi sempre più “centrale”. La possibilità di apprendimento è legata alla comunità di pratica e la partecipazione alle pratiche culturali diviene un “principio epistemologico dell’apprendimento” (Lave, Wenger, 1991). L’adozione di un lessico comune, di strumenti, tecniche e metodi attraverso le quali svolgere l’attività, una stretta rete di relazioni tra i membri della comunità, la continua circolazione di informazioni, modi di intendere le cose, la costante

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interazione e socializzazione permettono un’ampia condivisione (apprendimento e sviluppo) di conoscenze e competenze all’interno della comunità.

Ciò che più contraddistingue tale prospettiva di apprendimento tuttavia è il «carattere costruttivo, sociale, interattivo, negoziale e situato delle pratiche di socializzazione» (Zucchermaglio, 1996, p. 92):

da una parte c’è un’organizzazione che più o meno esplicitamente e consapevolmente persegue i suoi obiettivi socializzanti, dall’altra c’è comunque un individuo che non semplicemente si adatta, ma piuttosto interagisce costruttivamente con l’organizzazione nella condivisione (o costruzione) di pratiche lavorative comuni (ibid). Le dinamiche che spiegano lo sviluppo delle competenze all’interno di una comunità di pratica mostrano che il modo in cui le stesse sono distribuite al suo interno è rilevante in quanto da esso dipendono sia le modalità attraverso le quali l’attività è svolta sia le condizioni dell’apprendimento da parte dei novizi. Le competenze necessarie per lo svolgimento dei compiti più semplici sono distribuite tra più membri, mentre quelle per svolgere i compiti più difficili sono detenuti solo dai più esperti; l’interazione, l’affiancamento e la comunicazione con questi permettono al novizio di maturare nuove competenze e proprio tale disparità nell’esperienza maturata dai diversi membri attiva e sostiene continuamente i processi di apprendimento all’interno della comunità da parte del novizio attraverso la partecipazione.

Tuttavia, in nessun modo tale partecipazione è riconducibile all’«internalizzazione di conoscenze che vengono dall’esterno» (ivi, p. 66) o di «qualcosa di statico […] portato dall’esterno all’interno», ma «è la partecipazione stessa che costituisce il processo di appropriazione; […] la partecipazione attiva [è] la pratica essenziale attraverso la quale si raggiunge la competenza nello svolgimento di un’attività» (ivi, p. 71).

La partecipazione (e l’attività cognitiva sottostante) dunque non deve essere intesa come un’appropriazione di pensieri, rappresentazioni, racconti ecc. ricondotti a oggetti immagazzinati da un individuo: «la persona che partecipa ad un’attività è parte di quell’attività e non può essere considerata separata da essa. In questo senso l’attività non è esterna alla persona e non esiste un confine al di qua del quale le acquisizioni vengono portate dentro l’individuo» (ivi, pp. 71-72).

In tale impostazione l’apprendimento non è un problema di trasferimento di conoscenze, non si identifica in un travaso di competenze in un contenitore (che è la persona), né è pensabile come un processo che permette l’acquisizione di conoscenze che “sono già da qualche parte”: l’apprendimento è una pratica sociale, «è il modo in cui le persone diventano membri di una comunità e partecipano alle sue attività» (ivi, p. 76). Analogamente, «la conoscenza può quindi più utilmente essere considerata come la comprensione di cui abbiamo bisogno per fare le cose, per realizzare dei compiti, per operare all’interno dei vincoli e delle richieste del mondo» (ibid). In tal senso «l’apprendimento è proprio lo sviluppo dei mezzi per agire in un particolare contesto di attività» (ibid), e per questo «ogni atto di apprendimento porta […] un cambiamento nella propria identità» (ibid). «L’apprendimento è [altresì] un atto di appartenenza [che] permette alle persone di

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entrare e partecipare alle attività di una comunità di pratiche e [di] modificare continuamente il ruolo e il contributo che ogni individuo dà alla comunità stessa» (ibid).

Attraverso la partecipazione ad una comunità di pratica l’individuo apprende e per questo si rende protagonista di un cambiamento che inevitabilmente investe la comunità di pratica.

«Il costrutto LPP è da intendersi come il ponte che lega i processi di cambiamento della persona ai cambiamenti nelle comunità di pratiche» (ivi, p. 67).

In tale impostazione la comunità di pratica è vista e considerata come luogo privilegiato nei quali frequenti cambiamenti avvengono in continuazione, alimentati proprio dall’attività stessa della comunità, che, a “dispetto” della staticità dell’organizzazione, apprende e cambia man mano che il fare, le azioni e la pratica formulano e impongono nuovi problemi da risolvere.

Dunque, «uno dei vantaggi principali di queste piccole comunità auto costituite risiede nella loro possibilità di superare la tendenza alla staticità delle grandi organizzazioni» (Brown, Duguid, 1991; trad. it., p. 345); la partecipazione di nuovi praticanti contribuisce ad attivare il processo di cambiamento: «i comportamenti reali delle comunità di pratiche cambiano costantemente sia con la sostituzione dei lavoratori anziani con i nuovi arrivati sia con le nuove esigenze nate dalla pratica che forzano la comunità a rivedere la sua relazione con l’ambiente» (ibid).

Alla pratica è così attribuita un’importanza fondamentale, perché solo attraverso di essa emergono gap tra le competenze necessarie per svolgere un’attività di cui una comunità ha già esperienza e quanto necessario per affrontare un nuovo problema. È da questo divario che si sviluppano costantemente nuove competenze: «le comunità di pratica […] sviluppano continuamente nuove visioni del mondo ricche, fluide e non canoniche, proprio per colmare lo scarto tra la visione statica e canonica della loro organizzazione e i problemi posti da una pratica che cambia. Questo processo di sviluppo è intrinsecamente innovativo» (ibid).

La riflessione sull’esperienza è il momento fondamentale attraverso il quale la competenza si sviluppa «attraverso esperimenti che si verificano spontaneamente e che l’esperienza allo stesso tempo crea e corregge» (ibid).

Per queste ragioni le comunità di pratica rivestono ai fini del cambiamento organizzativo un’importanza fondamentale:

comunità “brade” di questo tipo offrono alle organizzazioni un mezzo e un modello per esaminare il potenziale di visioni alternative della loro attività attraverso esperimenti che si verificano spontaneamente e che l’esperienza allo stesso tempo crea e corregge. Questi esperimenti spingono verso l’innovazione permettendo a parti di un’organizzazione di superare la visione del mondo inevitabilmente limitata dei nuclei delle organizzazioni e di sperimentare qualcosa di nuovo (ibid).

I cambiamenti legati alla comunità di pratica non si sostanziano in un “semplice” adattamento efficiente ad un ambiente precostituito; in nessun modo questi costituiscono delle risposte corrette a circostanze prestrutturate, «l’innovazione […] non è semplicemente una risposta basata sulle osservazioni empiriche dell’ambiente [...]; il processo di innovare comprende la costruzione attiva di un quadro concettuale, l’imposizione di esso all’ambiente e la riflessione sulla interazione che

133 segue» (ivi, p. 346).

In tale processo di cambiamento non si esclude, quindi, nemmeno la possibilità di intervenire sull’ambiente: «trasformare l’ambiente è una potente fonte di innovazione» (ibid).

Quello proprio delle comunità di pratica è un cambiamento che ridefinisce continuamente la strutturazione della comunità, ovvero la sua identità e il suo ambiente, essendo i due “mutualmente costitutivi”.

Il cambiamento fa parte della natura della comunità di pratica, in quanto «proprio le pratiche reali non canoniche delle comunità interstiziali sviluppano nuove interpretazioni del mondo» attraverso «una connessione pratica piuttosto che formale» con esso (ivi, 347).

Ciò porta a dover ammettere che

le visioni del mondo alternative non si trovano dunque soltanto nei laboratori o negli uffici di pianificazione strategica, condannando chiunque lavori in un’organizzazione a sottomettersi ad una cultura unitaria. Le alternative sono inevitabilmente distribuite in tutte le diverse unità che formano l’organizzazione in quanto sono le comunità, a tutti i livelli, ad essere in contatto con l’ambiente e ad essere impegnate nell’attribuzione di senso interpretativa, nella ricerca della congruenza e nell’adattamento (ivi, p. 349).

Le comunità di pratica sono un vero e proprio volano per il cambiamento dell’organizzazione, che perciò le deve necessariamente sostenere e proteggere in tutti i modi, pena la sua stessa possibilità di sopravvivere.

Un’organizzazione [...] ignorando o distruggendo la comunità di pratiche [...] mette a repentaglio la sua stessa sopravvivenza, in almeno due modi: non solo rischia di distruggere proprio quelle pratiche di lavoro e apprendimento alle quali, che lo sappia o no, deve la sua sopravvivenza ma si esclude da sola da una delle principali fonti di potenziali innovazioni quali quelle che sorgono inevitabilmente nel corso del lavoro (ibid). Tuttavia, rimane aperta la questione centrale: come si realizza il cambiamento organizzativo? Nell’impostazione presentata, l’interazione tra le diverse comunità in un’impresa può attivare ed alimentare di riflesso il cambiamento dell’intera organizzazione.

«Le comunità emergenti […] possono essere quindi considerate come possibili canali per portare all’interno dell’organizzazione punti di vista esterni e innovativi» (ivi, p. 351). Un’apposita rete di interconnessioni dovrebbe favorire la comunicazione tra le diverse comunità di pratica all’interno di un contesto organizzativo, condizione imprescindibile per diffondere e socializzare l’innovazione o il cambiamento in atto: «all’interno di un’organizzazione percepita come una collettività di comunità e non solo di individui […], si possono amplificare le prospettive nate in comunità diverse attraverso l’interscambio tra esse» (ivi, p. 350).

Seguendo tale logica, un’efficace interazione e un’intensa comunicazione tra le comunità di pratica assicurerebbe il superamento del dibattuto e controverso passaggio da sfera soggettiva a dimensione collettiva. Il singolo, partecipando alla comunità di pratica, può rendersi motore di innovazione e di cambiamento per l’intera impresa, apportando le sue idee e favorendo lo sviluppo di nuove competenze in comunità (passaggio assicurato dalla partecipazione), la quale “automaticamente” le “condivide” con le altre comunità, e quindi con l’intera impresa, attraverso un

134 processo di socializzazione.

Nel momento in cui è possibile pensare l’organizzazione come una «comunità di comunità» (ivi, p. 349) il divario tra singolo e impresa appare superato e le due dimensioni definitivamente ricucite.

5.5 Costruttivismo, “gestione” delle competenze e cambiamento organizzativo: