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Core competence e cambiamento organizzativo 109

4   L’approccio razionale strategico 99

4.5   Core competence e cambiamento organizzativo 109

Il concetto di core competence costituisce una novità assolutamente rilevante nel modo di pensare alla competizione di un’impresa; questo offre un’estensione, un ampliamento delle tradizionali leve competitive a disposizione di un’azienda per migliorare la sua competitività e costituisce un modo diverso, più completo di considerare la strategia d’impresa. Tuttavia, «non si può pensare in modo diverso alla strategia senza modificare il concetto di organizzazione» (Hamel, Prahalad, 1994; trad. it., p. 323). Infatti,

coinvolgere i dipendenti a tutti i livelli intorno ad un intento strategico, far leva sulle risorse scavalcando le delimitazioni interne, trovare e sfruttare le opportunità degli “spazi bianchi”, ridistribuire le competenze distintive, sorprendere continuamente i clienti, esplorare nuovi spazi competitivi attraverso un marketing esplorativo e costruire dei marchi ombrello […] richiede nuovi modi di pensare all’organizzazione (ivi, pp. 323- 324).

Dunque, per migliorare le capacità competitive di un’impresa attraverso lo sviluppo delle competenze distintive è necessaria di un’opportuna trasformazione dell’assetto organizzativo che ne renda possibile la creazione e l’accrescimento. Questa trasformazione deve però avvenire attraverso percorsi completamente differenti da quelli tradizionalmente seguiti, inefficaci per le nuove esigenze di cambiamento: «per affrontare la sfida della competizione per il futuro la terminologia e la prassi corrente della strategia sono inadeguate, così come lo sono la terminologia e la prassi del cambiamento organizzativo» (ivi, p. 324).

Ad un radicale ripensamento dei concetti fondamentali alla base della competizione si deve necessariamente accompagnare un altrettanto importante ripensamento dei principi di organizzazione.

Questi devono essere innovativi rispetto a quelli che hanno segnato il superamento degli «archetipi aziendali degli anni Sessanta e Settanta, caratterizzati da una struttura fortemente centralizzata orientata verso la tecnologia e con una predisposizione verso il controllo, “cervellotica” e dotata di un apparato estremamente burocratizzato» (ibid).

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hanno delegato alle singole unità di business funzioni – come quelle della pianificazione e della gestione delle risorse umane – tradizionalmente appannaggio della sede centrale; hanno concesso una maggiore libertà d’azione a livello operativo a tutti i dipendenti, […] hanno tentato di incoraggiare la propensione al rischio del personale; hanno enfatizzato la responsabilità individuale e hanno invertito l’organigramma aziendale, mettendo il cliente al primo posto […]. Tuttavia, sappiamo oggi che l’antidoto alla burocrazia e all’inutile centralizzazione può essere nocivo quanto il veleno contro cui si presuppone debba agire (ibid).

Gli autori evidenziano come i cambiamenti organizzativi che hanno accomunato gran parte delle aziende postfordiste si siano rivelati molte volte inadeguati quanto quelle stesse forme organizzative da cui cercavano di prendere le distanze: «le parole d’ordine per i futuri ingegneri dell’azienda moderna sono delega, empowerment, responsabilità personale e interesse rivolto ai clienti» (ibid), ma non è detto che queste “ricette” siano adeguate ad alimentare e consolidare le core competence di un’impresa. «Per creare il futuro un’azienda deve riuscire a creare la sintesi di quelle che vengono troppo spesso considerate scelte organizzative antitetiche» (ivi, p. 325).

Un’organizzazione efficiente non è quella che necessariamente abbraccia logiche “diametralmente” opposte a quelle dell’epoca taylorista; i principi promossi dalla (a loro) contemporanea letteratura sul cambiamento organizzativo potevano infatti dimostrarsi altrettanto inefficaci. Occorreva semmai cogliere quanto di positivo poteva offrire il “modello organizzativo” fordista e quello postfordista, operando un avvicinamento e una sintesi proficua tra i due.

Ciò comportava in primo luogo superare la tradizionale antitesi tra “corporate/unità di business” come scelte categoricamente alternative. Sebbene l’evoluzione da “strutture monolitiche” abbia portato alla divisionalizzazione dell’organizzazione, non necessariamente affidarsi all’operosità di unità di business differenti e, a volte, completamente autonome, poteva costituire un reale beneficio per l’impresa: «se i dirigenti delle varie divisioni seguono programmi strategici totalmente indipendenti, le opportunità degli “spazi bianchi” non verranno sfruttate. Le competenze distintive subiranno un processo di frammentazione e di erosione e quelle nuove non verranno sviluppate» (ibid). Il rischio descritto dagli autori riguarda la possibilità che un’eccessiva “frammentazione strutturale” possa portare all’analoga lacerazione dell’indirizzo strategico dell’azienda, con conseguente sperpero di risorse in attività disparate. La soluzione proposta è quella di «individuare e sfruttare le connessioni esistenti tra le unità che potrebbero potenzialmente aggiungere valore all’azienda nel suo complesso» (ibid).

Gli autori parlano a tal proposito di «un importante “valore nascosto” nelle connessioni che si vengono a creare tra le unità di business» (ibid); proprio la valorizzazione di tali connessioni potrebbe utilmente supportare l’azione dell’impresa e costituirebbe la “sintesi” tra corporate e unità di business.

Riconoscere però i “punti di connessione” è tutt’altro che facile e richiede molto più di un supporto da parte di unità di staff che fungano da collegamento tra divisioni diverse: «identificare e gestire i punti di connessione è possibile, ma non per mezzo di un esercizio della staff [sic] aziendale, bensì attraverso un processo che consenta ai manager di linea di riconoscere il potenziale valore aggiunto dell’azione collettiva» (ivi, p. 326). E proprio tale “azione collettiva” costituirebbe

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la sintesi di altre due scelte organizzative tradizionalmente assunte come antitetiche, che vedono nell’accentramento e nel decentramento due modalità opposte di strutturare la configurazione formale dell’impresa. «Le imprese non dovrebbero puntare al decentramento completo della propria attività, né ricorrere ad una strategia corporate oppressiva, ma studiare una strategia che potrebbe essere definita come collettiva e illuminata» (ibid).

Le categorie concettuali dell’accentramento e del decentramento non si prestano, dunque, ad indicare il tipo di cambiamento organizzativo richiesto per sviluppare le core competence; il nuovo imperativo è “strategia collettiva” (questa costituisce anche l’unico modo di individuare i punti di collegamento, i quali, poiché non identificabili nella strutturazione di gruppi (di staff) che fungano da tramite tra unità divisionali, rischiano di rimanere privi di una specifica connotazione organizzativa).

Quale significato debba rivestire la “strategia collettiva” è presto svelato:

per sviluppare una strategia collettiva è […] indispensabile che i manager instaurino un rapporto di maggiore collaborazione e non competano con i propri pari. Essi devono accettare il fatto che ogni condivisione di risorse, ogni sostegno reciproco tra le unità, ogni sacrificio per una migliore causa potrebbe non generare un’immediato [sic] quid proquo (ivi, pp. 326-327).

Una strategia collettiva è presentata come una strategia di cooperazione tra manager che devono sostenere reciprocamente le rispettive unità, aspettando senza impazienza i risultati e i benefici degli sforzi sostenuti. Se tale importante cambiamento avviene, perde completamente rilevanza il fatto di strutturare l’organizzazione in modo accentrato o decentrato. L’enfasi è posta sulla cooperazione, che deve costituire la caratteristica prevalente della nuova organizzazione: «il valore potenziale derivante dalla gestione delle connessioni fra le unità emerge quando i responsabili prendono parte ad un processo di sviluppo orizzontale della strategia» (ivi, p. 326). Occorre quindi costituire dei gruppi interfunzionali il cui operato attraversi trasversalmente l’organizzazione; non si tratta di un processo di accentramento, ma di valorizzare l’operato dei manager a livello locale che però collaborano e cooperano al sostenimento “orizzontale” della strategia definita; «il loro atteggiamento collaborativo verrà premiato […] dai progressi compiuti a livello collettivo e dai risultati della propria unità» (ivi, p. 327).

Dunque, se bene si interpreta il discorso degli autori, la valorizzazione delle core competence richiede una “struttura organizzativa” improntata alla cooperazione; questo è il principio che sembra dover indirizzare il cambiamento organizzativo necessario e auspicato.

Non si spiega, però, in che termini possa considerarsi superata per questa via l’antitesi tra “centralizzazione e decentramento”. Il carattere estremamente collaborativo nella condivisione di risorse auspicato proprio non può rappresentare una terza modalità di distribuzione del potere decisionale. Tale questione è ampiamente problematizzata da Masino, il quale afferma a tal proposito:

siccome l’oscillazione tra prescrizioni di accentramento e decentramento non ha prodotto buoni risultati, si cerca una variabile aggiuntiva, la cooperazione appunto, per immaginare risultati che coniughino efficienza e

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flessibilità. Si tratta di una distinzione criticabile. La dimensione accentramento decentramento fa riferimento alla questione della distribuzione della capacità decisionale. Un processo accentrato è caratterizzato da una capacità decisionale concentrata nelle mani di pochi decisori. Simmetricamente, un processo decentrato è caratterizzato da una capacità decisionale distribuita. La cooperazione – o meglio l’azione cooperativa – fa invece riferimento a una modalità di svolgimento dell’azione: si ha cooperazione quando si ha la condivisione degli obiettivi, e non necessariamente dei mezzi (Barnard, 1938; Simon, 1947; Maggi, 2003). Dunque appare errato presentare il carattere “cooperativo” delle forme organizzative in contrapposizione con la natura accentrata o decentrata dei processi decisionali (Masino, 2005, pp. 171-172).

Un’organizzazione che abbia scelto di valorizzare le proprie core competence deve cercare di superare anche un’ulteriore antitesi: quella tra burocrazia ed empowerment.

Gli autori osservano a tal proposito che «la burocrazia e una rigida gerarchizzazione sopprimono lo spirito d’iniziativa e la creatività» (Hamel, Prahalad, 1994; trad. it., p. 327) e che, per ovviare a ciò «i modelli più in voga proposti per la gestione aziendale sono l’abbattimento della macchina burocratica, la delega di autorità e il conferimento dei poteri» (ivi, p. 148). Tuttavia, occorre considerare da un lato che «eliminare alcuni strati manageriali (ovvero ridurre i problemi gerarchici) non equivale a ridurre le conseguenze di disfunzionalità provocate da un comportamento di tipo gerarchico» (ivi, p. 327) dall’altro che «l’empowerment senza un senso comune della direzione [può] condurre all’anarchia» (ibid).

Tale senso della direzione è trasmesso dall’intento strategico, altrimenti pensabile come «una particolare opinione in merito alla posizione competitiva a lungo termine» (ivi, p. 146), un «sogno energizzante», «la chiave di volta verso un’architettura strategica [che] può indicare il cammino verso il futuro» (ivi, p. 145).

L’accresciuta dinamicità dei mercati, l’aumento dell’incertezza e la riduzione di margini di prevedibilità richiedono di abbandonare il vecchio “metodo” burocratico e con esso la speranza di una programmazione tipica dell’impresa fordista:

dal momento che è impossibile prevedere tutti gli ostacoli che possono presentarsi lungo il cammino, l’intento strategico deve essere definito in termini piuttosto generici, tali appunto da lasciare un notevole spazio alla sperimentazione dei mezzi che permettono di farci giungere a destinazione. L’intento strategico definisce dunque a grandi linee “dove”, non “come” (ivi, p. 149).

Ora, se bene si interpretano le argomentazioni qui riportate, l’intento strategico e il senso della direzione dovrebbero offrire l’opportunità di superare l’antitesi tra empowerment e burocrazia (rigida gerarchizzazione).

Viene cioè proposta una soluzione organizzativa per la quale, comunicati e demandati gli obiettivi da conseguire (il dove appunto), nell’impossibilità di stabilire apposite procedure dettagliate e “burocratiche” per il loro perseguimento (il come), sia richiesto ai lavoratori iniziativa e mobilitazione delle competenze personali; attraverso di esse l’impresa farà fronte alla sopraggiunta variabilità e l’accresciuta incertezza. Nell’impossibilità di indicare prescrizioni esatte, la comunicazione della visione e degli obiettivi di fondo dovrebbe “energizzare” e orientare l’operato dei lavoratori; questi ultimi devono però accettare che «i dirigenti non possono, tuttavia, rinunciare al ruolo che spetta loro di indicare la direzione, anche se la prospettiva di una totale

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autonomia dal basso può sembrare allettante» (ivi, p. 328).

Ciò che sembra emergere con forza nelle argomentazioni proposte è la necessità di far fronte all’incertezza e l’impossibilità di ricorrere a procedure dettagliate. Questo necessariamente implica richiedere iniziativa ai lavoratori, ma un’iniziativa “controllata”, strettamente funzionale al perseguimento degli obiettivi “predisposti”: «noi crediamo che la creatività funzioni meglio al servizio di un intento strategico definito in modo chiaro. L’immaginazione dovrebbe essere lasciata libera, ma non allo stato brado. L’intento strategico indica in modo specifico i fini, non i mezzi, e consente di seguire sempre la stessa direzione» (ivi, p. 149).

Tale posizione, effettivamente lontana dai principi dell’empowerment, si discosta solo nella forma da quelle organizzazioni “burocratiche” precedentemente criticate, essendone riproposte inalterate le logiche di fondo.

Ciò che appare più evidente, infatti, è un cambiamento palese solo nelle modalità di esercizio del controllo, non più diretto sulle azioni e sul rispetto delle procedure, ma volto a orientare i comportamenti attraverso un’influenza “culturale”. Il controllo diviene più implicito e meno formale; l’esame degli obiettivi sostituisce la verifica di ogni singola azione; sono preferite politiche di comunicazione a forme di supervisione diretta per indirizzare i comportamenti delle persone: in ogni caso queste ultime restano prive della possibilità di partecipare alle decisioni rilevanti d’impresa e il controllo non cessa affatto di essere esercitato.

Proprio la condivisione dei valori aziendali, il senso di identificazione con l’impresa, la socialità tra i lavoratori sarebbero la chiave di volta per superare un’altra delle dicotomia che caratterizza l’impresa, spesso costretta a scegliere di assumere (o formare) “cloni” o “ribelli”.

Se un’azienda ha alle proprie dipendenze dei “cloni”, individui estremamente socializzati e che hanno una mentalità simile, è improbabile che riesca a plasmare il proprio futuro; lo stesso vale per un’impresa piena di ribelli che pensano solo al proprio interesse. Le aziende, al contrario, devono poter contare sulla presenza di

attivisti comunitari, individui che non abbiano paura di sfidare lo status quo, di esprimersi in modo schietto, ma

che abbiano anche un profondo senso della comunità e il desiderio di migliorare non solo la situazione personale, ma anche quella degli altri (ivi, p. 329).

Nella teoria delle core competence le persone hanno un’importanza rilevante in quanto apportano il loro contributo e le loro competenze personali al patrimonio dell’impresa. Le competenze individualmente possedute costituiscono una componente fondamentale delle competenze dell’impresa e per questo motivo sono da gestire e da coordinare. Il raggiungimento degli obiettivi comuni richiede la condivisione di queste competenze che per questo motivo sono mobilitate; e proprio la condivisione sembra essere il ponte che lega le competenze delle persone alle competenze distintive dell’impresa, baricentro dell’analisi e della riflessione nella teoria delle core competence.

Queste a tutti gli effetti integrano il concetto di strategia, che risulta in tal modo ampliato, arricchito. L’identificazione delle core competence si sostanzia nella scelta di ciò che l’impresa potrebbe fare in futuro (a partire dalle proprie capacità e dalle proprie risorse) meglio e in modo

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diverso dai propri concorrenti; in ogni caso la stessa (identificazione) definisce e indirizza la futura azione dell’impresa che deve dotarsi di una “struttura” adeguata alla loro valorizzazione.

In tal modo le core competence diventano una variabile interpretativa dell’organizzazione, improntata a identificare, acquisire, sviluppare, distribuire, alimentare, proteggere e difendere le proprie competenze distintive attraverso apposite “soluzioni organizzative” che ne facilitino la gestione in ciascuna delle sue fasi: «alcune aziende non potranno sviluppare le competenze se verrà a mancare il supporto diretto di tutta la struttura organizzativa» (ivi, p. 228).

Il percorso di cambiamento organizzativo necessario tuttavia è già tracciato e definito attraverso alcune “soluzioni strutturali” che, costituendo una «riconciliazione fra archetipi aziendali in contrasto tra loro» (ivi, p. 332), indicano quale organizzazione sia “adatta” allo sviluppo delle core competence.

In tal senso è possibile identificare un rapporto di dipendenza tra “struttura” e “core competence” che sembra riproporre invariati i termini di un problema lungamente dibattuto in letteratura organizzativa e relativo al rapporto tra strategia e struttura.

Il tentativo di identificare una sintesi di forme organizzative assunte come diametralmente opposte conduce alla proposta (peraltro discutibile) di nuovi “modelli organizzativi” e, essendo dichiarato necessario il passaggio ad essi per la valorizzazione delle core competence, ripropone con forza la natura deterministica del rapporto core competence - organizzazione. La “struttura”, reificata e distinta dal momento decisionale/strategico, è ad esso successiva e subordinata; la sua variabilità è funzione della strategia.

Con queste premesse l’adattamento alla strategia deliberata appare l’unico cambiamento organizzativo possibile: “la bontà” della sua natura e l’adeguatezza della sua direzione, entrambe stabilite ex ante, sono evidentemente sancite da un principio di causazione necessaria che deve poter confidare nella razionalità assoluta del decisore.

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Capitolo V