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Coinvolgimento e partecipazione 87

3   Il metodo delle competenze da Boyatzis a Spencer e Spencer 51

3.5   Criticità del metodo 79

3.5.2   Coinvolgimento e partecipazione 87

Il metodo delle competenze soffre dell’impossibilità di stabilire un collegamento univoco e inequivocabile tra competenze e comportamenti. Come discusso nel paragrafo precedente «it would be inaccurate to say that person’s competency causes the effective behavior, but that it is a cause. The competency is necessary but not sufficient for effective behavior» (ivi, p. 192).

Ciò porta a considerare l’eventualità che una diligente applicazione del metodo, per quanto rigorosa, non sarebbe comunque sufficiente a svelare in modo assolutamente certo quali competenze possono dirsi a monte di un certo comportamento; una competenza può indicare la capacità di un individuo a compiere alcune azioni, ma per spiegare i moventi spesso ambigui e difficilmente prevedibili che possono connotare il comportamento di un individuo in ogni momento occorre “altro”.

Nella logica del metodo, i comportamenti assumono carattere di esclusività in funzione delle caratteristiche soggettive, dell’attività da svolgere e dell’ambiente di riferimento, dei quali, a tutti gli effetti, il comportamento (le azioni) è presentato come variabile dipendente: al variare delle

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competenze, del job o dell’organizzazione possono essere osservate azioni diverse.

Per questo motivo, proprio la piena conoscenza di suddetti elementi si impone come condizione di efficacia del metodo il quale, vista la sua inadeguatezza a cogliere gli elementi dell’organizzazione e del job, dovrebbe ricercare l’incontro con quei saperi di cui esso stesso si dichiara carente, ad esso preesistenti e necessariamente situati nell’organizzazione.

Un’eventuale estraneità degli analisti imporrebbe necessariamente, in fase di implementazione, il coinvolgimento di quelli che sono depositari della conoscenza dell’attività e del contesto di riferimento all’interno dei quali le azioni sono svolte.

Per la loro stessa impostazione, il coinvolgimento e la partecipazione, finalizzati all’avvicinamento di saperi differenti, dovrebbero quindi essere veri e propri capisaldi del metodo delle competenze, che sconterebbe, in caso contrario, un “deficit” di conoscenza, vedendo così pesantemente ridimensionata la sua capacità di indagine ed esplicativa.

Tuttavia, il rigore del metodo induttivo impedisce una “consapevole” partecipazione, non solo dei best performer osservati, ma anche di esperti, capi e altri membri che presumibilmente potrebbero integrare l’indagine con alcune informazioni rilevanti per la comprensione di elementi contestuali importanti per l’analisi. Ciò emerge con tutta evidenza soprattutto nella fase più matura del metodo (segnata dal contributo di Spencer e Spencer), arricchito da numerose esperienze consulenziali.

La sfiducia per i racconti e le rappresentazioni dei lavoratori, ovvero di quelli che detengono la conoscenza profonda dell’attività svolta in quanto principali protagonisti, è totale. A questi è richiesto di limitarsi a descrivere ciò che hanno concretamente fatto; solo l’analista ha la conoscenza per interpretare i racconti, le azioni, i vissuti e le motivazioni e risalire così alle caratteristiche soggettive. Il confronto e la discussione sembrano del tutto secondari; l’incontro tra analista e lavoratore non appare finalizzato a far emergere le competenze di quest’ultimo attraverso la riflessione, la reinterpretazione e l’analisi condivisa dell’attività svolta: le valutazioni e i giudizi sono lasciati esclusivamente all’analista, in quanto «the basic principle of the competency approach is that what people think or say about their motives or skills is not credible. Only what they actually do, in the most critical incidents they have faced, is to be believed» (Spencer, Spencer, 1993, p. 115).

Nel dialogo tra analista e lavoratore è categoricamente esclusa l’eventualità che il lavoratore collabori all’identificazione delle proprie competenze attraverso l’esplicitazione del proprio pensiero e delle proprie considerazioni a riguardo; questi può solo descrivere come ha agito in una particolare occasione, nel modo più oggettivo possibile, anche raccontando al limite i propri sentimenti, ma mai facendo inferenza diretta sulle eventuali competenze.

Descrivere “ciò che è stato realmente fatto” è l’unica forma di collaborazione richiesta al best performer e la tecnica BEI, non a caso centrale in tutto il metodo, («Behavioral Event Interview is the heart of the Job Competency Assessment process») (ivi, p. 114) è esclusivamente preposta proprio a questo scopo: «the purpose of BEI method is to get behind what people say they do to find

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La netta preferenza per la BEI rispetto ad altri sistemi di rilevazione, come ad esempio i racconti autobiografici o altre tecniche che comportino una forma di partecipazione “attiva” del soggetto nell’identificazione delle proprie competenze, è una chiara espressione della logica che pervade la teoria costruita, in alcun modo desiderosa di conoscere, né tantomeno di condividere, il punto di vista del lavoratore sulle caratteristiche, sulle qualità, sulle capacità a questi accreditate.

Così, ritornando all’ipotesi di partenza, relativa alla necessità di conoscere le specifiche caratteristiche dell’organizzazione, la “collaborazione” di chi “il job lo svolge”, seppure best performer, non sembra davvero essere interpretata come una possibilità di acquisire tale base di conoscenza.

L’estrema fiducia riposta nel procedimento induttivo porta a dubitare anche dell’utilità che il management dell’impresa partecipi a tale delicatissimo procedimento di identificazione delle competenze di ruolo.

Ad una dichiarazione iniziale che evidenzia con tutta forza la necessità di coinvolgere almeno i capi e i dirigenti nello sviluppo dei modelli di competenza richiesti in un job, seguono alcune argomentazioni che impongono una seria riflessione sui reali propositi sottesi all’approccio partecipativo auspicato:

è buona regola coinvolgere in questa operazione il maggior numero di persone chiamate a usare questo modello. I dirigenti che hanno condotto, dopo un’opportuna preparazione, le interviste sugli episodi comportamentali (BEI) ed hanno lavorato al fianco degli esperti per identificare le competenze sono convinti della validità del modello e molto più disposti a metterlo in pratica (Spencer, Spencer, 1993; trad. it., p. 219).

Non si allude alla possibilità che le conoscenze di soggetti che hanno agito per anni nell’organizzazione possano sostenere in modo adeguato la redazione di un “profilo di ruolo”, né all’eventualità che il consiglio e l’esperienza di persone esperte possano integrare anche solo parzialmente i risultati emersi dal procedimento induttivo, magari colmando alcune criticità intrinseche del metodo o riducendo la possibilità di errori (in fase di intervista, rilevazione e codifica) da parte dell’analista.

Il proposito espresso di coinvolgere i dirigenti non è relativo alla necessità di arricchire le conoscenze del consulente, magari ignaro di tutte le informazioni necessarie al lavoro di interpretazione dei comportamenti, magari disinformato di alcune dinamiche particolari che potrebbero distorcere le sue analisi.

Non si allude alla possibilità che la presenza di un esperto, o comunque di un capo, possa render conto di alcuni elementi dell’organizzazione contestuali e fondamentali per le valutazioni dell’analista “estraneo” all’organizzazione, aiutando a capire il perché di alcuni comportamenti e alcune azioni piuttosto che altre.

Nessun bisogno di completezza né alcun bisogno d’integrazione di saperi e conoscenze è legato all’auspicio che analista e capi operino congiuntamente: viene “solo” evidenziata la possibilità che i dirigenti, potendo vedere la tecnica BEI da vicino, ne “apprezzino la validità”.

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Non si assume in alcun modo che un’integrazione tra saperi di natura diversa possa supportare un’efficace adozione e implementazione del metodo in modo adeguato nell’organizzazione; non vengono valorizzate né descritte le modalità dell’incontro tra la sensibilità e la professionalità dell’esperto studioso che apporta il suo metodo consolidato con anni di riflessione e il capo che apporta tutta la sua conoscenza personale in quanto facente parte dell’organizzazione; ciò che appare più importante è che, attraverso la sua presenza, il dirigente si “convinca” della tecnica BEI e diventi “molto più disposto a metterla in pratica”.

La perplessità che la partecipazione auspicata abbia una valenza esclusivamente “illustrativa”, più finalizzata ad indurre il dirigente ad “adottare” la BEI, che richiedere un suo sostanziale intervento a completamento della metodologia progettata27, non viene smentita ma ulteriormente

confermata da alcune precisazioni successive presenti nel lavoro di Spencer e Spencer che, rinunciando a qualsiasi spiegazione rigorosa, sembrano voler evidenziare solo i motivi per cui un dirigente dovrebbe avere convenienza ad adottare la metodologia della McBer.

Sono così avanzate argomentazioni di tipo squisitamente utilitaristico (immediatezza, praticità) e di convenienza economica (economicità) al fine di mostrare i vantaggi legati all’adozione della tecnica BEI all’interno del metodo delle competenze:

i metodi più validi (per esempio, l’assessment center) possono essere troppo costosi e difficili da usare; altri, per esempio i test, possono essere rifiutati dai candidati o dalla cultura aziendale. In base alle nostre esperienze, possiamo affermare che l’intervista sugli episodi comportamentali è, per la selezione, lo strumento che ha maggiore efficacia di costi. Pur avendo una validità quasi uguale a quella dell’assessment center, richiede solo un paio di ore invece di 1-2 giorni, è facile da condurre e accettato da quasi tutti (ivi, p. 220).

Lo stesso “aspetto pratico ed economico” è evidenziato anche nell’evenienza in cui i consulenti “trasferiscano” il loro sapere, la loro metodologia ai membri dell’organizzazione: «abbiamo constatato che alla maggior parte delle persone sono sufficienti 2 o 3 giorni per imparare a condurre una BEI e a codificarla con un’attendibilità sufficiente per assumere decisioni di selezione efficaci» (ibid).

La difficoltà e la necessità di favorire l’incontro di saperi differenti non sembra davvero costituire la principale preoccupazione per gli autori, i quali non argomentano in alcun modo l’esigenza di favorire l’incontro tra saperi differenti, essendo privilegiato ancora una volta l’aspetto pratico e utilitaristico28.

Sono dunque davvero molteplici gli indizi che lasciano intendere la pretesa di auto-sufficienza del metodo costruito, che mostra con chiarezza la più estrema delle sue ambizioni (e delle sue

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Tale ipotesi è per altro coerente con il rigore di cui volutamente tutto l’impianto teorico delle competenze risente. È stato già descritto come eventuali “interferenze” potrebbero limitare l’efficacia del metodo induttivo.

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Riesce davvero difficile immaginare che “2-3 giorni di formazione” siano sufficienti a far maturare in “chiunque” quella sensibilità e quell’esperienza necessarie per interpretare i comportamenti di un soggetto, soprattutto se completamente digiuno di conoscenze psicologiche o di altri saperi utili per tal scopo.

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contraddizioni) proprio nel volersi costituire come un “modello” universale di gestione delle persone in impresa; lo stesso promette incondizionatamente di svelare quali competenze portano a prestazioni superiori, ovvero cosa porta le persone a comportarsi in un certo modo in una realtà organizzata.

Nel far questo, il totale disinteresse nell’indagare le caratteristiche dell’organizzazione nel quale i comportamenti sono stati agiti mostra la completa fiducia riposta nella descrizione del job quale unico e attendibile rilevatore del contesto organizzativo nel quale prendono corpo le azioni di ciascun soggetto.

L’utilizzo efficace del metodo delle competenze per sua natura richiede che il job costituisca una rappresentazione fedele ed assolutamente esaustiva delle “dinamiche” organizzative nel quale un comportamento prende corpo; questo connota le azioni dei soggetti e dovrebbe fornire una ricostruzione minuziosa e particolareggiata dei processi organizzativi che le azioni e le decisioni di ciascuno contribuiscono a formare. Ora, anche nell’inverosimile ipotesi che la complessità di un contesto possa completamente essere colta in tutte le sue sfumature ex ante, attraverso la strutturazione completamente previa di un’attività, resterebbe comunque in tal caso problematica qualsiasi ipotesi di cambiamento. Non solo: le competenze mostrate in un’attività svolta in modo ugualmente efficace, ma non pedissequamente conforme alle prescrizioni del job, resterebbero in ogni caso incomprensibili perché fuori dal “contenitore organizzativo” progettato, perché a monte di azioni qualificate da una conoscenza estranea (ma non ricercata) al metodo delle competenze, la cui efficacia in questo caso sarebbe severamente compromessa.

3.5.3 Competenze: progettazione del cambiamento e adattamento al cambiamento