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Costruttivismo, “gestione” delle competenze e cambiamento organizzativo:

5   Competenze e gestione delle persone nella corrente socio-costruttivista

5.5   Costruttivismo, “gestione” delle competenze e cambiamento organizzativo:

Nell’approccio presentato il soggetto e le sue competenze assumono un ruolo fondamentale: tutte le fasi di gestione, fin dal reclutamento, sembrano centrate sul lavoratore, sulle sue potenzialità e sulla valorizzazione delle sue risorse, il cui sviluppo, se opportunamente “condiviso” con l’intera impresa, può efficacemente sostenere il processo di cambiamento dell’organizzazione.

Tale impostazione assume maggiore evidenza proprio per il modo in cui si propone di strutturare il processo di formazione e (annesso) sviluppo delle competenze in impresa, “fiduciosamente” affidato alle comunità di pratica, luogo privilegiato sia per l’apprendimento e lo sviluppo di competenze, sia perché terreno fertile per l’innovazione e il cambiamento, sia (e soprattutto) perché luogo di ricongiunzione tra livelli organizzativi tradizionalmente separati e distanti tra loro.

Coerentemente con l’impostazione proposta, il cambiamento di un’organizzazione dipende allo stesso tempo dallo sviluppo dell’individuo all’interno di una comunità di pratica e dalla strutturazione delle varie comunità di pratica, ovvero dall’efficacia delle dinamiche ad esse legate (la socializzazione, la condivisione, l’interazione ecc.).

Ora, concordando sull’idea che «il tema dello sviluppo delle competenze, della relazione tra competenza e apprendimento quale processo dinamico di acquisizione e trasformazione, si sovrappone […] a quello della relazione tra apprendimento individuale e apprendimento organizzativo, tra competenza e conoscenza organizzativa» (Cepollaro, 2008, pp. 63-64), e ancora sul fatto che «il tentativo più florido di connettere gli approcci individuali con quelli organizzativi è probabilmente avvenuto ad opera degli studi sull’apprendimento» (ivi, p. 63)36, si dubita che «tra

[questi] si collochi il costrutto della comunità di pratica» (ibid).

Alcuni presupposti relativi alle dinamiche iter-intra comunità sembrano basarsi su assunzioni che non solo distano dal riflettere comportamenti e fatti empiricamente riscontrabili, ma, al di là di questo, lasciano irrisolti importanti interrogativi relativi proprio a ciò a cui più preme dare risposta, attinente al definitivo superamento della contrapposizione tra livello individuale e livello organizzativo. Vediamo.

Una prima osservazione riguarda il processo stesso di apprendimento all’interno delle comunità: è spesso analizzata «troppo poco approfonditamente la non scontata “felicità” sul piano

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dell’apprendimento delle pratiche di partecipazione» (Zucchermaglio, 1996, p. 67).

L’assunzione che un novizio, in quanto partecipante ad una comunità di pratica, sia automaticamente “legittimato” (presupposto indispensabile per la partecipazione e di conseguenza per l’apprendimento) è tutt’altro che ovvia:

nella realizzazione reale di condizioni di apprendistato e di accesso di nuovi membri in specifiche comunità di pratiche possono esistere problemi di controllo sulle risorse per apprendere pratiche legate alla conservazione del potere che impediscono il raggiungimento della partecipazione piena ad una comunità: si pensi ad esempio a circoli esclusivi, all’aristocrazia, a sedi di controllo del potere economico o di accesso alle sedi di produzione delle notizie, ai gruppi chiusi di amici; in modo specifico nei contesti lavorativi possono esistere ad esempio cattive relazioni con i capi, modalità di ipercoinvolgimento nel lavoro, non efficaci modalità di organizzazione spaziale e temporale delle attività, pratiche più simili alla servitù che alla partecipazione. Tali condizioni possono di fatto distorcere completamente le possibilità di apprendere attraverso la partecipazione (ibid).

La legittimazione di nuovi membri, lungi dall’essere automatica o dall’avvenire spontaneamente, appare nella realtà difficoltosa e ostacolata dalla strutturazione stessa delle comunità di pratica: «le comunità di pratica non sono sempre “automaticamente” buoni contesti di apprendimento, non tutte le realizzazioni di apprendistato sono ugualmente efficaci» (ibid). Occorre cioè considerare che «una semplice esposizione al lavoro […] può non ottenere risultati formativi, se non viene gestita come occasione di apprendimento» (ivi, p. 69).

Seguendo tale logica, appare inevitabile intervenire nella strutturazione della comunità di pratica per attivare e sostenere ciò che “spontaneamente” potrebbe non avvenire: occorrerebbe cioè “convincere” gli esperti a legittimare la partecipazione di un novizio (socializzando con questi la propria esperienza) e “indurre” i novizi ad assumere la “posizione” più consona nella comunità. Nell’ipotesi contraria l’apprendimento potrebbe essere compromesso.

Ma l’impostazione teorica a monte delle comunità di pratica ammonisce qualsiasi tipo di “intervento dall’alto”, che finirebbe per trasformare una comunità (per definizione informale) in un gruppo canonico, compromettendo proprio quelle dinamiche essenziali alla base dell’apprendimento. Il costrutto delle comunità di pratica si differenzia non poco da quello dei tradizionali gruppi di lavoro, essendo questi ultimi appositamente creati nel contesto lavorativo per svolgere una specifica attività i cui obiettivi sono prescritti e predefiniti; al contrario, le comunità di pratica sarebbero invece “situate” nel contesto aziendale e, a differenza dei gruppi, costituirebbero il naturale ambiente di apprendimento dell’individuo in azienda.

La teoria dei gruppi generalmente si concentra sui gruppi come entità canoniche e delimitate che si trovano all’interno di un’organizzazione e sono organizzate, o perlomeno sanzionate, da quella stessa organizzazione e dalla sua immagine del compito lavorativo, […] mentre le comunità che noi abbiamo identificato sono spesso non canoniche e non riconosciute dall’organizzazione. Sono più fluide che delimitate e spesso oltrepassano i restrittivi confini dell’organizzazione per incorporare persone dall’esterno. […] Le comunità sono un dato emergente, nel senso che la loro forma e le appartenenze che le riguardano emergono nel corso dell’attività, a differenza dei gruppi creati appositamente per portare avanti un compito (Brown, Duguid, 1991; trad. it., pp. 341-342).

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una comunità di pratica e di strutturare “funzionalmente” ruoli e posizioni al suo interno in modo tale da favorire l’apprendimento.

Quest’ultimo, se legato al lavoro e alla pratica, non avviene in gruppi previsti come tali, formalizzati, ben identificati o previamente e appositamente disegnati all’interno dell’impresa. La costituzione di tali gruppi, infatti, in realtà di sovente riflette la medesima configurazione dell’organizzazione, delle dinamiche di potere e delle prassi già in uso e consolidate presso i gruppi dominanti:

l’osservazione limitata ai gruppi canonici, la cui configurazione spesso cela comunità interstiziali estremamente influenti, non è sufficiente a fornire un quadro di come il lavoro o l’apprendimento sono effettivamente organizzati ma riflette semplicemente le assunzioni dominanti del nucleo dell’organizzazione (ivi, p. 342). L’“organizzazione” dovrebbe così optare per una scelta difficile:

costituire top-down dei gruppi all’interno dei quali poter controllare (e favorire) lo sviluppo delle competenze. In questo caso, però, nonostante la possibilità di un intervento attivo dall’alto volto a promuovere e “direzionare” l’apprendimento, questo ugualmente potrebbe non avvenire: sono infatti stravolte le caratteristiche fondamentali delle comunità di pratica, che costituiscono una condizione ineludibile alla base della partecipazione periferica legittimata e della socializzazione delle competenze;

– sostenere lo sviluppo delle comunità di pratica. In tal caso le dinamiche dell’apprendimento proprie delle comunità sarebbero fatte salve, ma l’organizzazione dovrebbe affidarsi speranzosa all’apprendimento dei singoli soggetti membri delle comunità, che potrebbe non avvenire o avere una natura differente da quella sperata. In tal caso la direzione del cambiamento organizzativo sarebbe completamente imprevedibile e ingestibile, completamente affidata ai soggetti.

In quest’ultima ipotesi sarebbe doveroso interrogarsi sulla possibilità e sul senso della progettazione organizzativa. Questa necessariamente dovrebbe identificarsi come un’azione a sostegno dell’apprendimento e dello sviluppo, ma in ogni caso sarebbe priva di qualsiasi “traiettoria” definita ex ante. Si capiscono bene, dunque, le riflessioni di Cepollaro il quale, coerentemente con la concezione epistemologica abbracciata, nel commentare la relazione tra progettazione e competenze, specifica che «le competenze non si progettano, così come non è possibile decidere il loro apprendimento: ciò che è possibile fare è progettare azioni di sostegno alla loro evoluzione, nella consapevolezza che l’esito non è decidibile o programmabile» (Cepollaro, 2008, p. 101).

Non risolve tale problema neanche il pensare all’organizzazione come “comunità di comunità”, per il quale si ripropongono le stesse criticità riscontrate a “livello” inferiore.

Un primo problema attiene alla possibilità di comunicare le nuove competenze sviluppate (non necessariamente legate a pratiche canoniche, non necessariamente esplicite e magari affatto esplicitabili) da una comunità all’altra. Infatti «le narrazioni […] sono incorporate nel sistema

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sociale in cui nascono e sono usate, e non possono essere semplicemente sradicate e confezionate per la circolazione senza che si presentino proprio gli stessi problemi osservati nelle vecchie e astratte descrizioni canoniche» (Brown, Duguid, 1991; trad. it., p. 352). Non solo:

l’assunzione dell’organizzazione che, dato il mezzo “giusto”, le persone scambieranno liberamente informazioni non considera il modo in cui determinate organizzazioni, gruppi e in particolare compagnie, trattano implicitamente l’informazione come un bene da accumulare e scambiare. […] All’interno di queste comunità le notizie viaggiano rapide; le conoscenze della comunità sono prontamente disponibili per i suoi membri, ma le comunità devono funzionare dentro a compagnie che trattano l’informazione come un bene e che hanno un potere contrattuale superiore nel negoziare i termini dello scambio. In tali condizioni di ineguaglianza non ci si può ragionevolmente aspettare che le comunità interne cedano gratuitamente le loro conoscenze (ibid).

Non si vede il motivo per cui una comunità depositaria un’informazione, una nuova tecnica, ecc. dovrebbe essere disposta a cederla gratuitamente e spontaneamente alle altre comunità limitrofe, rinunciando spontaneamente alla possibilità di sfruttare il vantaggio detenuto in quel momento. Ciò appare come un limite davvero insormontabile, ancor più se si respingono ipotesi (semplicistiche e affatto verosimili) di “alleanza” o di “collaborazione sinergica”, o di interazione spontanea, di assenza di competizione, di apertura fra i membri, ecc. che permetterebbero forse una disinteressata socializzazione e condivisione fra le diverse comunità di conoscenze e competenze.

Del resto, gli stessi autori affermano che spesso «i gruppi sono organizzati per definire chiaramente la responsabilità di ognuno; le organizzazioni sono obbligate a favorire il concetto di competizione; le periferie sono sbarrate per tenere il segreto e la privacy» e che, per giunta «cambiare il modo in cui queste cose sono predisposte può provocare problemi oltre che benefici» (ivi, p. 353).

Di nuovo, occorrerebbe incentivare le comunità a condividere, disponendole in modo tale da favorire l’interazione, condizione alla base dello sviluppo di competenze a livello di impresa.

Tuttavia, il tentativo di guidare e orientare l’operato delle comunità di pratica al fine di favorire l’apprendimento, potrebbe comportare la perdita di efficacia (nel processo di apprendimento) o addirittura la distruzione della comunità: i «tentativi di introdurre “squadre” o “gruppi di lavoro” nelle sedi lavorative per migliorare l’apprendimento o la pratica» attraverso un «incoraggiamento dall’alto» o «la riorganizzazione del lavoro in gruppi canonici può volontariamente o involontariamente distruggere queste comunità altamente funzionali, ma non canoniche e pertanto invisibili» (ivi, p. 342).

Per favorire il lavoro, l’apprendimento e l’innovazione un’organizzazione deve […] legittimare e sostenere la miriade di attività innovative messe in atto dai suoi membri. Questo sostegno non deve essere intrusivo altrimenti rischia semplicemente di sottoporre i potenziali innovatori alla restrittiva influenza della visione canonica esistente (ivi, p. 350).

Seguendo questa logica, un’organizzazione deve potersi totalmente “affidare” all’energia innovativa delle comunità di pratica e la sua «architettura dovrebbe preservare e migliorare la salutare autonomia delle comunità costruendo al tempo stesso delle interconnessioni attraverso cui diffondere i risultati e gli esperimenti condotti in unità separate» (ivi, p.251), senza però prescrivere

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azioni specifiche di qualsivoglia natura che facilmente finirebbero per minare alla base le comunità esistenti.

Nuovamente, spetta alle singole comunità, in virtù dell’autonomia da esse posseduta, attivare circuiti di socializzazione del sapere e delle competenze che da un lato segneranno il definitivo “passaggio” dal livello personale al livello organizzativo, dall’altro alimenteranno e sosterranno un continuo e opportuno processo di cambiamento dell’intera organizzazione.

Il sistema di gestione delle competenze presentato, fortemente centrato sul soggetto e sullo sviluppo delle competenze individuali, ricerca in uno spazio di crescita comune (individuo e impresa) il presupposto del cambiamento organizzativo. Così, partendo dalla gestione e dalla valorizzazione delle competenze del singolo soggetto, affidandosi alle sue capacità e alle sue potenzialità, si sforza successivamente di ricucire artificiosamente i due livelli e di costruire quello spazio di crescita condiviso alla base del cambiamento organizzativo, innescato e alimentato dallo sviluppo del singolo e dalla sua “successiva” condivisione con l’organizzazione.

Si cerca pertanto di costruire un luogo comune che deve necessariamente costituire il momento privilegiato di incontro nel quale l’individuo può trainare l’organizzazione e senza il quale ogni possibilità di cambiamento sembra a quest’ultima preclusa. La crescita e lo sviluppo dell’individuo potrebbero innescare e sostenere il cambiamento organizzativo, ma solo se esiste un luogo comune di incontro nel quale le due dimensioni possano ricongiungersi.

Tuttavia, non solo la “delimitazione” di tale luogo appare eccessivamente complessa e artificiosa, ma anche una sua “improbabile” realizzazione porterebbe, di fatto, a vedere la possibilità e l’efficacia del cambiamento organizzativo completamente dipendenti dal soggetto e strettamente legati rispettivamente alla sua volontà di partecipare e di socializzare le sue capacità e le sue competenze.

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Capitolo VI