La nascita del quadro normativo di riferimento dei servizi pubblici risale agli inizi del 1900, quando fu varata legge n. 103 del 29 marzo 1903 detta Giolitti. Questa legge nasceva da sollecitazioni di natura sociale, ossia dalla necessità di rispondere alla crescente intensificazione della vita urbana, che aveva determinato il moltiplicarsi dei bisogni collettivi , ma anche dalla necessità di frenare la tendenza dei Comuni a concedere indiscriminatamente gli impianti e l‟esercizio dei servizi municipali a imprenditori privati che scaricavano il costo del servizio sull‟utenza. La legge Giolitti ha avuto il merito di individuare, pur in un contesto storico di natura liberale, un elenco di beni e servizi che, per fini di interesse generale, dovevano essere forniti dallo Stato. E‟ con questa legge che i servizi pubblici sono stati regolati in Italia fino agli anni ‟90 e sebbene il quadro politico ed economico nell‟arco del secolo fosse molto cambiato, gli strumenti promossi da quella legge continuavano ad essere il principale oggetto della gestione dei beni e servizi di utilità sociale. I servizi pubblici venivano gestiti attraverso le municipalizzate, specializzate nella fornitura di un unico servizio svolto esclusivamente nel
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territorio dell‟ente locale. Il Comune aveva, quindi, la proprietà, la gestione, la regolamentazione e il controllo dei fornitori dei servizi (v. Felicioni, 2010-‟11, pag. 3).
Nell‟indicare gli strumenti la legge Giolitti individuava quali erano i servizi specifici di cui si dovevano occupare i Comuni, in tal senso la normativa era molto stringente e ha finito per rendere statico il rapporto fra gestione e bisogni degli utenti, tralasciando aspetti di innovazione tecnologica che hanno investito i sistemi di fornitura.
Questo immobilismo ha comportato notevoli difficoltà quando, sulla spinta della normativa europea, l‟Italia è stata costretta a riesaminare la normativa, dovendo aprire al mercato la fornitura dei servizi.
Con la legge 142/90 il legislatore ha così introdotto nuove forme di gestione aziendale: nell‟ambito del diritto pubblico l‟azienda speciale, la s.p.a nell‟ambito del diritto societario, con la possibilità per questa di avere capitali interamente pubblici o misto. Al di là di questa evoluzione il legislatore però ha lasciato piena discrezionalità all‟ente locale, in relazione alla possibilità di stabilire esso stesso se si tratta di una tipologia di attività imprenditoriale o meno. Nel caso l‟ente individui l‟attività nell‟ambito dell‟interesse generale, questo può quindi optare per un affidamento diretto limitando lo svilupparsi di un sistema concorrenziale. Questa scelta dipese dalla paura che il nostro legislatore aveva nell‟aprire bruscamente il mercato dopo lunghi anni di gestione pubblica e a causa delle pressioni di creazioni di monopoli di mercato come sistema per una più efficiente gestione del servizio, anche per le caratteristiche dei beni erogati. Questa possibilità lasciata dal legislatore italiano fu impugnata dalla commissione europea, che avviò una procedura di infrazione perché le possibilità lasciate agli enti di optare per un
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affidamento diretto risultava incompatibile con i principi in tema di concorrenza (v. Felicioni, 2010-11, pag. 6-7).
A questa procedura di infrazione, il legislatore italiano ha risposto approvando un articolo della legge finanziaria per il 2002 che distinguesse fra servizi di rilevanza industriale da quelli di rilevanza non industriale. Questa distinzione ha permesso ai servizi senza rilevanza industriale di continuare ad essere disciplinati dalla legislazione precedente, in particolare dall‟art.22 della 142/1990, per gli altri servizi di cui si attesta la rilevanza industriale, il legislatore apre alla concorrenza tramite l‟affidamento tramite gara ad evidenza pubblica. Successivamente la normativa si adegua alla formulazione europea facendo una distinzione fra servizi con o senza rilevanza economica (Di Gaspare, 2010, pag. 2)..
Questa distinzione prodotta dal legislatore è diventata la linea guida di tutte le successive riforme del sistema dei servizi pubblici locali. Il concetto di rilevanza economica sta alla base della possibilità per un mercato di funzionare attraverso meccanismi concorrenziali e si applica a tutti quei beni o sevizi, la cui gestione permette al produttore di realizzare dei profitti, rendendo questi beni e servizi appetibili all‟ investitore privato.
La Commissione Europea ha comunque sottolineato che la distinzione fra le due tipologie di attività non è da considerarsi statica, ma variabile in quanto soggetta ad evoluzione tecnologica, economica e sociale, così da rendere impossibile una determinazione definitiva di un elenco di attività attribuibili a un categoria piuttosto che l‟altra.
Dal 2003 (d.l. n. 269/2003, conv. in l. n. 326/2003) per i servizi a rilevanza economica si consente, in alternativa, l‟adozione di tre modelli: gestione in house, gara per un gestore terzo, società mista il cui socio sia scelto con gara. Non si ripristina la possibilità di gestione diretta (quasi-
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diretta) in forme diverse dall‟in house. Possibilità che resta, invece, per i servizi privi di rilevanza economica (art. 113-bis del T.U., introdotto dall‟art. 35 l. n.448/2001.) fino a che la sentenza della Corte costituzionale n. 272/2004 non la sopprime dichiarando l‟illegittimità costituzionale dell‟intero art. 113-bis per violazione della competenza legislativa regionale, questo a causa della riforma dell‟art 117 del titolo V della Costituzione italiana.
Nel periodo 2008-2010, con l‟art. 23-bis si afferma, sempre in presenza di rilevanza economica, la regola del conferimento della gestione con gara ad un soggetto terzo o ad un socio, e soltanto eccezionalmente l‟affidamento a società in house. Altre forme di gestione diretta, quali ad esempio le gestioni in economia, restano escluse ( v. relazione SIEG, pag 11).
La ratio con cui era stato promosso l‟art.23 bis della l.133 era quella di restringere la discrezionalità dell‟ente locale nello scegliere come gestione del servizio pubblico l‟affidamento a una società in house senza gara. Il legislatore aveva delineato una fase transitoria dove tutte le società in house avrebbero cessato di esistere alla data del 31 dicembre del 2011 e nel frattempo si operasse al fine di prevedere l‟apertura di una gara ad evidenza pubblica, alla quale potessero partecipare società di qualunque forma o società miste pubblico privato, a condizione che il socio venisse scelto tramite una gara e che avesse gli attributi specifici per effettuare i compiti operativi connessi alla gestione del servizio. Al socio in questione doveva essere attribuita una partecipazione di almeno il 40% del capitale sociale. L‟ente pubblico poteva evitare questa procedura presentando una dettagliata analisi di mercato all‟autorità garante della concorrenza che illustrasse le ragioni per cui non si potesse abbandonare il sistema di affidamento diretto (De Vincenti, 2011, pag. 31-32).
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L‟aspetto rilevante da cui poi è nata l‟opposizione che ha portato ai quesiti referendari per l‟acqua bene comune è di fatto l‟irrigidimento della normativa sui modelli di gestione dei servizi pubblici locali. Il motivo per cui si è giunti a tale normativa, secondo i promotori del referendum, è dovuta ad una lettura ideologica del sistema normativo europeo. Quelle che risultano essere le scelte del legislatore in Italia vengono messe in un‟ ottica di necessità rispetto all‟impostazione della normativa europea sul mercato concorrenziale (v. Lucarelli, 2011, pag. 69).
E‟, invece, merito dei referendum e della sentenza della corte costituzionale che li ha dichiarati ammissibili, aver posto l‟attenzione su aspetti nuovi della forza delle fonti europea. Un primo elemento che emerge è il principio di legalità per il quale è possibile disapplicare norme del diritto interno, rifacendosi direttamente al diritto comunitario qualora le prime siano in antinomia alle secondo, ed è quello che sta accadendo riguardo la normativa sulla gestione delle risorse idriche. Un secondo elemento riguarda il principio di coesione economico-sociale più volte richiamato nelle norme europee, che si attesta sulla necessità di limitare il sistema concorrenziale ai fini del raggiungimento di obiettivi sociali, qualora queste attività risultino connesse ai diritti fondamentali e di cittadinanza (v. Lucarelli, 2011, pag. 71).
L‟analisi di questi due principi ci consegna una legislazione a livello europeo che non prevede una necessità stringente nella privatizzazione dei servizi pubblici locali, poiché riconosce implicitamente un livello di diritto pubblico europeo e la possibilità per i comuni di rifarsi direttamente a essa per la strutturazione delle forme di gestione. Si rafforza l‟idea per la quale, l‟effetto della normativa europea è di vietare norme statuali sia più rigide che permissive.
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Questa inversione di tendenza conferma anche la libertà con cui gli enti locali debbano individuare e classificare l‟attività di rilevanza economica secondo le loro esigenze particolari, rispetto all‟assetto e al sistema economico del territorio che apre, anche dal punto di vista giuridico, la possibilità di intraprendere nuove forme di gestione eventualmente più aperte ad aspetti di democrazia diretta e partecipazione dei cittadini (v. Lucarelli, 2011, pag. 73).