Parte II – Covid-19 in Italia
12. Appunti per un uso pratico del concetto di biopolitica: origini del concetto, analis
degli effetti politici sulla nuda vita
Marco Traversari [email protected] La crisi sanitaria e sociale che sta coinvolgendo a livello globale tutte le comunità umane ha riproposto una questione antropologica, e ancor prima filosofica, centrale nella cultura occidentale inerente il rapporto tra l’individuo e la società.
Intorno a questo nodo concettuale e politico oltre alla filosofia, da Platone fino a Rawls, anche la formazione discorsiva delle scienze umane ha sviluppato una molteplicità di narrazioni finalizzate a interpretare le dinamiche intrinseche a questa polarità.
Come ci ha insegnato Foucault nell’Archeologia del sapere, parallelamente allo scopo di mettere in atto dei processi di chiarificazione teorica, una delle ragioni alla base delle scienze umane è sempre stata l’esercizio di una volontà di potenza e controllo sulla rappresentazione del concetto di “natura umana”. Una rappresentazione costruita da una molteplicità di attori sociali entrati in scena con la nascita del capitalismo, che necessitava non solo di geografi da affiancare ai mercanti, ma anche di cartografi della “nuda vita”, per poter esercitare una sussunzione totale del capitale sulla dimensione dell’umano; analisi, teorie ed etnografie sempre generate all’interno di contesti socio-economici e culturali, con lo scopo di controllare e indirizzare i processi sociali.
Sul piano storico, di conseguenza, non è casuale la nascita delle discipline socio-antropologiche alla fine dell’Ottocento, quando colonialismo e capitalismo procedevano verso una conquista globale che necessariamente, per esistere e riprodursi, deve oltrepassare i confini dell’Europa e dell’America Settentrionale.
La sociologia, originariamente organizzata nei presupposti metodologici e filosofici da Comte, veniva definita nei termini di “fisica delle leggi sociali” e giustificata nel panorama culturale del Positivismo franco-tedesco come uno strumento necessario per trasformare la società e gli indi- vidui che la compongono, definiti “individui” dai processi sociali e non viceversa; prima veniva l’organismo sociale, che genera culturalmente l’individuo, ponendo la soggettività e l’agency del singolo come determinazioni di un tutto o, per usare le parole di Kroeber, un superorganismo. Spariva così, nella sociologia comtiana, l’Individuo come soggetto che fa parte o si rapporta in modo autonomo con l’ordinamento giuridico positivo dello Stato, nelle sue diverse declinazioni mitiche o fattuali del Signore/Principe/Leviatano, per diventare al contrario una cellula dell’organi- smo sociale. Una cellula il cui fondamento ontologico di esistenza non era nella sua capacità di ragionare o di agire, come presupponevano i filosofi idealisti o empiristi dei due secoli precedenti,
ma nel gioco delle strutture sociali e delle istituzioni sociali.
Le scienze umane diventavano una serie di discorsi, riprendendo l’utopia sociale dei teorici socialisti guidati da Saint Simon, fondanti ogni progetto di ingegneria sociale.
Lo stesso Durkheim, dopo un’operazione di decostruzione teorica del rapporto comunità/società, costruiva una rete concettuale in cui l’individuo è un livello secondario dell’organismo sociale. Va sottolineato che si tratta di un organismo (Gesellschaft) fortemente differenziato nella sua strut- tura e nelle relazioni tra gli elementi che lo compongono rispetto gli universi sociali preindustriali costruiti dentro rapporti comunitari in cui l’individuo era generato e controllato nella sua identità culturale dai poteri costituenti: poteri che si fondavano sul primato della tradizione, coniugato, dopo la nascita dello Stato moderno, con le ideologie nazionaliste.
Le antropologie nate in epoca vittoriana con lo scopo di analizzare le forme culturali e sociali dei territori coloniali, dopo una breve parentesi in cui il metodo di ricerca oscillava tra storiografia e storia orale, hanno costruito il loro statuto epistemologico e metodologico sulle pratiche etnografi- che coniugate con il positivismo funzionalista di Comte e Durkheim.
Focalizzando, però, il discorso sulla natura umana dalle relazioni sociali alle strutture culturali, la ragione di questo lavoro scientifico era, però, la stessa dei sociologi positivisti e funzionalisti: conoscere l’altro per dominarlo, e per fare questo le scienze umane dovevanoindividuare, come abbiamo visto fin dalle origini delle scienze umane stesse, l’essenza della natura umana.
Per i sociologi, l’oggetto del loro discorso, il fondamento veniva individuato nella società; per gli antropologi nella cultura.
Sul piano delle dinamiche politiche strutturali, per tutta la prima parte del Novecento, il discorso delle scienze umane è stato quindi centrale nei processi di dominio e sussunzione messi in atto dalla molteplicità dei soggetti che formano la microfisica dei poteri.
Soggetti che, in alcuni casi attraverso il discorso scientifico, hanno cercato di giustificare scelte politiche come genocidi e progetti eugenetici: basti pensare alla legittimazione teorica data al razzismo da parte di alcune correnti dell’antropologia tedesca negli anni Trenta.
Nella seconda metà del secolo breve, abbiamo avuto un radicale cambiamento intorno alla defini- zione di natura umana e dell’uso di essa da parte dei poteri politici.
Se, fino alla seconda guerra mondiale, l’esercizio e la lotta tra attori sociali si erano dispiegati all’interno dei campi della produzione di merci, di relazioni sociali, di immaginari e di segni, con lo sviluppo dei saperi biomedici e con il parallelo emergere di nuove soggettività politiche la sfera dei poteri e dei conseguenti micro-poteri di resistenza si è spostata in un altro campo: il campo del corpo e della nuda vita.
Dentro questa nuova cornice, al confine tra moderno e post-moderno, o se preferiamo tra fordismo e post-fordismo, prendeva forma e consistenza il discorso elaborato da Michel Foucault sulla biopolitica e sulla conseguente e connessa sfera del biopotere. La biopolitica è, dopo la società dei positivisti, della produzione di merci e dei segni dei teorici del conflitto nell’economia e della cultura, il campo di definizione e di produzione della natura umana, e quindi il campo del conflitto e della microfisica dei poteri.
“Biopolitica” è divenuto, quindi, un insieme articolato e complesso di concetti e frame teorici, che in queste settimane di epidemia e di emergenza sanitaria hanno assunto un significato non più metaforico, ma fortemente letterale.
Va, però, specificato che sul piano storico la biopolitica, come dimensione di costruzione dell’uma- no, non è nata dopo il 1945.
In realtà, nell’analisi di Foucault, i concetti che stiamo analizzando sono connessi alla nascita e allo sviluppo del capitalismo.
La biopolitica si concretizza come gestione del corpo e delle dinamiche demografiche e assumendo un’importanza fondamentale nell’era della globalizzazione e dentro l’attuale fase dell’Antropocene. Tale centralità ci spinge anche a dei cambiamenti semantici. Non ha più senso parlare di poteri,
89 ma di bio-poteri, nella fase attuale segnata da tecnologie genetiche, vita artificiale, intelligenze artificiali, virus e spillover; il potere statuale deve necessariamente e quotidianamente, e in questi mesi in termini drammatici, confrontarsi con la nuda vita, con il bios, e di conseguenza con conflitti sociali e con politiche finalizzate alla gestione dei corpi di uomini e donne.
Per questi motivi diventa rilevante, in questi giorni, riprendere la lettura di Foucault, il quale si mostra profetico, un profeta per caso, dato che i filosofi e gli antropologi non amano in generale la futurologia, essendo sempre legati all’esperienza diretta e alla riflessività.
Lettura di Foucault che in questi giorni è stata anche contestata da alcuni intellettuali italiani, in particolare dopo un intervento del filosofo Giorgio Agamben che sottolineava come gli effetti politici del coronavirus, interpretati dentro il paradigma concettuale della biopolitica, potessero essere anche più devastanti dell’impatto sanitario del virus sui corpi biologici.
Una tesi forte e riduttiva rispetto alla gravità dell’epidemia, ma ricordiamoci che quando Agamben ha scritto il pezzo Contagio eravamo solo all’inizio della crisi.
Una situazione devastante che però, proprio come ci insegna Foucault, non impedisce, anzi favorisce quelle pratiche da parte dei bio-poteri che si articolano in controllo autoritario delle popolazioni attraverso apparati repressivi e politiche economiche già ampiamente sperimentate nel 2015 in Grecia.
L’intervento di Agamben è quindi diventato l’occasione, da parte di alcuni, per intavolare una micro-polemica contro un mega-pensiero. Va sottolineato che i critici di Agamben si sono, però, dimenticati di quanto successe durante la prima guerra del Golfo, quando il filosofo e sociologo Baudrillard disse che il conflitto era solo un gioco virtuale.
Il sociologo francese fu attaccato per quest’osservazione, ma nonostante ciòla teoria dei simulacri ha continuato a essere un punto interpretativo fondamentale per chi vuole comprendere la dinamica di produzione dell’informazione dei media. Non appena passata la “tempestuccia” tra i pensatori nostrani, la teoria della biopolitica tornerà a essere una potente teoria di spiegazione del rapporto tra potere e nuda vita.
In particolare, nel campo delle scienze umane, e soprattutto nell’antropologia culturale nella misura in cui il concetto di cultura è fondamentale per costruire dei processi di ricerca etnografica, Foucault ci fornisce degli strumenti di altissimo valore esplicativo.
Quando operiamo sul campo, questo a parere di chi scrive, l’uso della metodologia fondata sulla genealogia dei concetti ci permette di riposizionare i discorsi dei soggetti al centro della nostra ricerca. Capire, per esempio, quali rapporti intercorrono tra un etnografo e il suo informatore sul campo, applicando una genealogia relativa al posizionamento di entrambi, ci aiuta a penetrare meglio dentro le interpretazioni “dense” che i due soggetti si scambiano. Oppure comprendere gli effetti delle rappresentazioni culturali come generatrici di nuovi micro-poteri trova in Foucault e nei suoi studi sul sistema penale un ottimo esempio di come fare ricerca per noi antropologi, se decidiamo di muoverci dentro una dimensione de-costruttiva del materiale con cui operiamo. Ma la riflessione di Foucault, mentre da una parte ci permette di leggere con estremo realismo quan- to sta accadendo in questi terribili giorni, dall’altra presenta anche un secondo versante altrettanto utile per ridefinire quello che è stato e sarà la nostra vita nel tempo a venire.
Un tempo che ci chiederà di cambiare il nostro stile di vita, le relazioni con l’altro e con la natura. In questa direzione, il filosofo e storico francese può darci ulteriori strumenti per costruire un cambiamento, anche radicale, delle nostre esistenze.
Foucault ha sempre insistito nei suoi saggi che, se si vuole trasformare sé stessi, si deve partire dal concetto di verità. Questo fu il tema delle sue ultime lezioni prima di morire, al Collège de France. Una serie di riflessioni dedicate al tema del dire il vero e al ruolo che la verità riveste nel campo della politica e dei rapporti di potere. Foucault, nelle sue lezioni, si rivolge alla lettura e allo studio dei filosofi cinici e di Socrate, individuando in questi filosofi una chiave di lettura dello sviluppo del pensiero occidentale e un fondamento per elaborare strumenti di radicale critica al
presente. Partendo dal presuposto che il tema della verità è una questione non solo filosofica, ma anche culturale e politica.
La verità come fondamento dell’auto-poiesi non solo dell’individuo, ma dell’intera società. Proprio per questo motivo, in questi giorni, sapere “come vanno le cose” e “come stanno le cose”, ossia la verità, sta diventando il nuovo campo di scontro nell’arena della biopolitica.
12.1 Bibliografia
AGAMBENG., 2003, Stato di eccezione, Torino.
FOUCAULTM., 2015, Nascita della biopolitica, Milano.
DALLAGOA., 2020, Viva la sinistra. Il futuro di un’idea, Bologna. DOBELLIR., 2019, Smetti di leggere notizie, Milano.
RUTIGLIANOE., 1999, Teorie sociologiche classiche, Torino.