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Le genti del bel paese là dove ’l sì suona La musica Intervista a Lucio Spaziante

Nel documento Elogio della paura (pagine 177-185)

25 «Quando usciremo di casa » Lo spazio domestico in stato di eccezione

26. Le genti del bel paese là dove ’l sì suona La musica Intervista a Lucio Spaziante

«I fenomeni conseguenti alla quarantena hanno immediatamente innescato la necessità della dimensione musicale, cosa che non era affatto scontata. È emersa una significativa rilevanza della dimensione musicale, e il mondo dei musicisti ha assunto un ruolo significativo, anche a paragone di altri ambiti sociali dedicati all’intrattenimento».

r. f. Lucio Spaziante è ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia e comunicazione dell’Università di Bologna, dove si occupa di semiotica con particolare riferimento alla musica. Insegna Teorie e modelli della semiotica, Semiotica dei media e Analisi dei testi televisivi. È autore di Icone pop. Identità e apparenze tra semiotica e musica (2016).

Ci sono stati molti casi di flash mob, musica dai balconi, quando ci si è riuniti per eseguire l’inno nazionale e la serata “Musica che unisce” trasmessa sulla Rai 1 il 31 marzo. Come semiologo e osservatore della cultura pop, interpreta questi fenomeni come estemporanei o si possono intravedere nuove modalità di performance e di interazione?

Innanzitutto il fenomeno è estremamente interessante per chi studia la cultura popolare, la musica pop e la musica in generale. La mia impressione è che in una fase iniziale, quando ancora non era ben chiaro cosa stava succedendo, le persone vivevano un disorientamento dovuto all’essere chiuse in casa a causa delle misure di distanziamento sociale. Questa sorta di reclusione ha creato una specie di strana euforia, dovuta anche all’ansia e alla tensione.

La necessità di esprimersi, di creare un contatto, uno slancio vitale per superare la paura e l’angoscia ha portato al fenomeno dei canti dai balconi e a relative forme comunitarie legate alla musica. In seguito, questo fenomeno si è scontrato con l’evoluzione verso una fase diversa, ossia con l’emer- sione pubblica del dramma, ovvero un numero mostruoso di morti, delle cui storie, in realtà, non sappiamo ancora assolutamente niente, al di là dei freddi numeri. Non abbiamo percezione pubblica di queste persone, non possediamo i loro racconti: c’è una sorta di momentaneo oscuramento, e questo mal si adatta ai momenti euforici che venivano espressi con il canto dai balconi, portando a una loro attenuazione, per non dire rimozione.

Soffermandoci però sugli aspetti iniziali del fenomeno, un aspetto rilevante, a mio avviso, è che la scelta di alcune specifiche canzoni è emersa direttamente e con spontaneità dalla volontà collettiva, senza che potesse sussistere, naturalmente, alcuna selezione a monte. Il repertorio eseguito com- prendeva innanzitutto inni più o meno istituzionali, dall’Inno di Mameli, in risposta ad una sorta di sentimento di orgoglio nazionale, fino a Bella ciao, già impiegato frequentemente in situazioni comunitarie. Ma il fenomeno più fortemente identitario ha trovato come istintivo riferimento il repertorio tradizionale dei cantautori: Rino Gaetano, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, oltre a Lucio Battisti e Adriano Celentano con Azzurro. Questo salto nel passato, alla ricerca delle colonne della nostra cultura popolare, indica una precisa scelta e una percezione condivisa su cosa realmente rappresenti l’identità popolare collettiva in momenti di emergenza.

L’altro fenomeno che mi preme evidenziare è quello delle esecuzioni live: è abbastanza frequente vedere musicisti più o meno professionisti, o semplicemente talentuosi, che eseguono brani di musica classica, forse più adatti a questo tipo di dimensione che, oltre che collettiva, è anche individuale e riflessiva. Stiamo vivendo, del resto, quello che di fatto è uno stato di lutto nazionale, rinnovato ogni giorno.

Non credo, al momento che, terminata l’emergenza del Covid-19, questi fenomeni avranno un seguito perché si tratta di una situazione del tutto eccezionale, dunque probabilmente tenderanno a esaurirsi. Sicuramente, invece, i fenomeni connessi all’uso delle tecnologie di internet e all’uso dei media avranno un significativo influsso su quelli che saranno il nostro comportamento e la nostra fruizione musicale nel futuro.

C’è stata una mobilitazione di artisti di portata internazionale, come Sting, che hanno dimo- strato un inconsueto affetto per gli italiani. Era atteso o è stata una sorpresa positiva e utile in questo momento?

Ciò che sta accadendo intorno al Covid scatena una dimensione di tipo affettiva, di sensazione comunitaria, di ripresa di contatti, di mantenimento di relazioni, che vanno un po’ oltre lo spazio e il tempo. Persone e gruppi che non si vedevano e non si frequentavano tornano a sentirsi. Questa è senz’altro una tendenza tipica della situazione attuale.

Quello di Sting è invece un caso un po’ particolare, perché si tratta di un musicista che vive parte dell’anno qui, come è del resto il caso di Peter Gabriel, o di altri musicisti che hanno un rapporto molto stretto con l’Italia. Nel 2018, per esempio, Sting improvvisò una performance andando a cantare davanti alla fabbrica contro i licenziamenti della Bekaert di Figline Valdarno, in segno di solidarietà con gli operai toscani.

Nella fase che stiamo vivendo tendono, dunque, a riattivarsi le relazioni, esattamente come sta accadendo con gli amici che non si sentivano più e che ora si rivedono, oppure continuiamo a vedere ma online. È il caso di Joan Baez – artista tradizionalmente legata all’Italia –, già storica interprete di C’era un ragazzo (che come me amava i Beatles e i Rolling Stones) negli anni Sessanta, che su Facebook ha ripreso Un mondo d’amore, un’altra canzone eseguita da Gianni Morandi. Si tratta in questo caso di una comunicazione affettiva già esistente, che si è semplicemente riattivata per un sentimento di immediata condivisione.

La distanza forzata non ha interrotto la capacità di suonare insieme. Secondo lei, è una nuo- va modalità di fare musica che ci sarà anche dopo, terminata l’emergenza, o è più ascrivibile alla situazione eccezionale?

Da questo punto di vista, credo che siamo di fronte a un fenomeno già affermato. Gli artisti e le celebrità musicali attuali hanno un rapporto con il proprio fandom completamente diverso da quello di venti o trent’anni fa. I social media, internet e le varie forme di comunicazione consentono un rapporto tra star e pubblico che è stabile, continuativo e stretto, quasi intimo. Cito il caso di Jovanotti, che in questa situazione, come altri, ha manifestato la propria presenza. Egli da anni è

179 presente su un canale YouTube, oltre che su vari social come Instagram e Facebook.

I cantanti hanno dunque un rapporto regolare con i fan: è una relazione non mediata, molto diretta, che non passa più attraverso la stampa, o attraverso istituzioni che nei decenni precedenti creavano una sorta di mediazione. Quindi è assolutamente normale che in una situazione di emergenza si adoperi un canale già esistente e si attivino forme di solidarietà.

Le playlist sono un modo di vedere cosa ascoltano i nostri amici, per scoprire nuovi generi, nuove canzoni, una modalità per ascoltare la stessa musica, seppure in modo asincrono e differito. Ha notato dei cambiamenti nella selezione di playlist?

Non riesco a fornire una valutazione approfondita della questione. Quello che ho osservato è che l’evento Covid-19 è entrato nella produzione musicale. Ci sono già molte canzoni e playlist Spotify create appositamente, dagli utenti o dalle istituzioni, per questo tipo di situazione di emergenza, ma il fenomeno in sé non mi sembra particolarmente rilevante.

Quello che mi sembra più interessante è la questione della trasformazione del gusto e dell’ascolto dal punto di vista qualitativo. Come è noto, Spotify propone varie playlist dei primi cinquanta/cento brani più ascoltati del momento, a seconda dei generi e dei luoghi. In relazione a questo, i media hanno riportato dati su crolli significativi negli ascolti di queste playlist, ma non degli ascolti in generale. Dunque si può ipotizzare che l’ascolto sia semplicemente virato su altre tipologie di brani. Non più le top hits del momento – sentite in giro oppure da ballare–,- ma un ascolto mirato a una fruizione individuale, casalinga, che va più nella direzione della riscoperta di un diverso repertorio, piuttosto che verso i trend emergenti. L’ascolto è indirizzato verso una dimensione più riflessiva, più introspettiva, individuale, piuttosto che provenire da una dimensione comunitaria, che in questo periodo si è bruscamente interrotta.

La musica può muovere gli affetti, può scatenare e suscitare forti emozioni. Ne ha parlato prima, quando ricordava che c’è stata questa riattivazione di affetti verso l’Italia. Secondo lei, ci sono forme musicali, generi, artisti che possono essere utilizzati per curare l’anima ai tempi del Covid-19 come una sorta di musicoterapia?

Questo non è esattamente il mio ambito di ricerca, ma è chiaro che la musicoterapia è una disciplina che vanta oramai una lunga storia alle spalle. Ci sono molte pratiche musicali e repertori utili ad alleviare gli stati di disagio, fisico e mentale. Non credo che il Covid-19 o altre malattie richiedano specificità particolari nel repertorio da ascoltare. Si tratta semplicemente di utilizzare la musica per la creazione di uno spazio alternativo rispetto a quello che si sta vivendo, di rilassamento o altro. Mi preme piuttosto osservare in generale la relazione che si è creata tra il mondo musicale e l’evento Covid-19. Cioè, i fenomeni conseguenti alla quarantena hanno immediatamente innescato la necessità della dimensione musicale, cosa che non era affatto scontata. È emersa una significativa rilevanza della dimensione musicale, e il mondo dei musicisti ha assunto un ruolo significativo, anche a paragone di altri ambiti sociali dedicati all’intrattenimento. Il mondo sportivo non si è comportato forse in modo altrettanto edificante: pensiamo alla resistenza che c’è stata nel mondo del calcio a dover fermare le proprie attività per una necessità collettiva, tentando di privilegiare gli interessi economici. Il mondo musicale, gli artisti, il cinema, il teatro hanno mostrato invece una re- lazione più sentita con il proprio pubblico, non semplicemente basata sullo sfruttamento economico. Vuole aggiungere altro? Vorrei aggiungere una riflessione sui media in generale. Quello che abbiamo imparato da questo fenomeno è che siamo completamente immersi in una dimensione mediatica.

I media non sono più i mass media di una volta: non sono più la televisione e la radio come luoghi fisici, ma sono entità completamente diffuse, che abitano nei social in internet e nelle pratiche di comunicazione online. Mai come in questo periodo abbiamo tutti imparato che non esiste più una

distinzione tra la dimensione quotidiana e la dimensione mediatica.

Anche dal punto di vista della ricerca, verso il futuro, il fenomeno Covid-19 ci ha fatto comprendere che i media sono, ormai, la nostra vita quotidiana. Molte persone hanno sofferto e soffrono in modo diretto, o vivono un lutto a causa del Covid-19. Ma coloro che non sono stati toccati in modo diretto dal virus sono riusciti a sopravvivere, a studiare e a lavorare grazie all’esistenza di internet e di tutti i vantaggi derivanti dalla dimensione mediatica. In questo senso si può affermare che si è aperta una faglia tra il mondo di prima e il mondo dopo il Covid-19.

Sono ancora valide le affermazioni di Marshall McLuhan sul villaggio globale e sul fatto che “il medium è il messaggio” ?

Le affermazioni di McLuhan nascono in tutt’altro contesto storico, ma quello che possiamo ancora conservare è l’indagine su una cosa che chiamiamo media o medium, che in parte merita ancora una analisi approfondita. I media sono cambiati con una enorme velocità negli ultimi trent’anni, e se di McLuhan possiamo conservare la lezione iniziale, è evidente che la dimensione attuale delle piattaforme comunicative, dei social network è un mondo completamente diverso che merita di essere approfondito con strumenti nuovi.

V

INTRODUZIONE. . . 183

27

Amuchina oggetto di culto. Intervista a Roberta Paltrinieri185

28

Elogio della paura... e qualche riflessione su noi stessi in tempi difficili. . . 189

29

Dono e internet al tempo del coronavirus . . . 195

30

Gli altri siamo noi. Intervista a Marco Aime. . . 199

FOCUS . . . 201

31

Import/export, danni economici e possibilità dell’industria alimentare italiana. . . 203

PUNTI DI VISTA . . . 207

32

La morte come dono. Rimanere umani al tempo del coronavirus . . . 209

33

Homo comfort ? Intervista a Stefano Boni . . . 217

ANALISI . . . 221

34

L’informazione al tempo del coronavirus . . . 223

FINALE . . . 239

BIOGRAFIA AUTORI. . . 241

ABBIAMO INTERVISTATO . . . 245

Introduzione

L’ultima sezione del volume è dedicata ai fenomeni di dono e di consumo, che, come lascia intendere la sociologa bolognese Roberta Paltrinieri, possono interfacciarsi creando circoli virtuosi e sviluppando nuovi stili di consumo più critici, consapevoli e sostenibili.

Le fa eco l’antropologa Anna Casella con un provocatorio elogio della paura, che rovescia certezze e luoghi comuni, invitando a ragionare con un affascinante excursus tra poesia, psicologia e letteratura, sui nuovi timori, che, se affrontati con ludicità, sono in realtà strumenti utili per costruire una nuova cornice di senso della vita durante la pandemia.

La sociologa Anna Cossetta presenta un’acuta analisi sul dono al tempo del coronavirus, tra donazioni, carità e servizi, che, paradossalmente, prima della pandemia erano a pagamento e ora sono gratuiti.

Chiude la prima parte l’intervista all’antropologo Marco Aime, che rovescia il “noi” e “loro” su cui si fonda l’identità, invitando a superarli.

L’economista e sociologa Anna Zollo, nel suo focus, chiarisce dati, cifre e tendenze dell’industria italiana, sia in termini di import/export sia sulle possibili prospettive di medio-lungo periodo. Nella sezione Punti di vista, padre Guidalberto Bormolini, antropologo e tanatologo, svolge una profonda disamina del tema della morte intesa come dono, attingendo sia a fonti note della storia della civiltà e cultura cristiana, sia a pensatori originali di altre tradizioni ancora poco conosciute ma di stringente attualità.

Stefano Boni, antropologo dell’ateneo di Modena e Reggio Emilia, delinea la figura dell’Homo comfort, exemplum dell’umanità contemporanea, che è eccessivamente intersistemica, fragile e debole, e che va totalmente ripensata per non cadere nelle facili e invitanti trappole del pensiero unico.

27. Amuchina oggetto di culto. Intervista a

Nel documento Elogio della paura (pagine 177-185)