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Eppure abbiamo retto di fronte allo tsunami Intervista a Ottavio Di Stefano

Nel documento Elogio della paura (pagine 67-71)

Parte II – Covid-19 in Italia

10. Eppure abbiamo retto di fronte allo tsunami Intervista a Ottavio Di Stefano

«Quando sarà finito questo tsunami, quest’onda che ci ha travolto, questa situazione impre- vista e imprevedibile che ci ha sconvolti, vorrei che la gente si ricordasse del valore del nostro sistema sanitario nazionale, che certo deve essere riformato, ripensato, riorganizzato, e so- prattutto rifinanziato».

r. f. Il dr. Ottavio Di Stefano è stato per molti anni medico internista presso il reparto di medicina degli Spedali Civili di Brescia, poi primario presso l’ospedale di Montichiari (BS) e infine presidente dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della provincia di Brescia. Ho scelto di intervi- starlo, tra molti contatti a mia disposizione, perché la sua esperienza fosse condivisa sia come testimonianza personale, sia come voce“universale” di tutto il personale del servizio sanitario nazionale che opera nel territorio di Brescia, città dove sono nato e vissuto e dove mi trovo mentre scrivo. Auspico che i pesanti sacrifici e i dolorosi lutti della mia terra siano da monito per tutti gli altri italiani che vivono in zone più fortunate, perché tutto ciò che è accaduto non sia stato vano. Come persona e come medico, come rappresentante dell’ordine dei medici del territorio e che operano nelle varie strutture, come sta vivendo questo periodo?

È un periodo difficile. In tanti anni di professione alle spalle, non ho mai vissuto una situazione come questa. È drammatica, straordinariamente drammatica. Per ritrovare una situazione simile nella storia, forse bisogna risalire a più di cento anni fa e pensare alla pandemia che chiamiamo inappropriatamente Spagnola. Questa è un’epidemia di grandissime dimensioni, molto più dirom- pente di quelle che abbiamo conosciuto negli anni passati, come l’Ebola, la Sars, la Mers: per numero di casi, per virulenza della malattia, per morbidità, quest’esperienza purtroppo non ha precedenti. E coinvolge tutti: il territorio, l’ospedale.

Dal mio posto di osservazione, che mi permette di sentire gli umori dei colleghi, c’è una cosa che devo sottolineare e che sottolineerò sempre. C’è stata una grandissima risposta da parte dei medici e di tutte le donne e tutti gli uomini – infermieri, tecnici di laboratorio, operai, autisti, volontari, pediatri, farmacisti, assistenti sociali – che sono impegnati nella cura dei malati sul territorio che

vengono ricoverati in ospedale, ci sono stati un impegno e una disponibilità eccezionali che mi fanno dire che queste persone hanno lavorato con passione e, non la stupisca la parola, con amore. Non pochi di questi uomini e di queste donne hanno lasciato la vita nelle corsie e negli ambulatori; molti di questi, consapevoli di portare a casa il virus, hanno scelto di staccarsi dalle loro famiglie. Ma noi abbiamo retto anche perché abbiamo un sistema sanitario nazionale che si basa su dei principi costituzionali fondamentali. La Repubblica italiana garantisce il diritto alla salute a ogni individuo, non solo a ogni cittadino. Non abbiamo lasciato indietro nessuno: abbiamo curato tutti, indipendentemente dal censo o dall’etnia. Questa è la forza del nostro sistema sanitario nazionale. E mi tremano le vene ai polsi pensando a che cosa sarebbe successo se non avessimo avuto questo grande patrimonio della Repubblica, la più grande opera pubblica della storia repubblicana. Però bisogna dire subito un’altra cosa. Noi abbiamo retto, e questo rende ancora più eccezionale il lavoro dei miei colleghi e delle mie colleghe, nonostante da anni il nostro sistema sanitario nazionale sia stato depauperato, definanziato. Da anni non venivano assunti medici e infermieri, i posti letto sono stati tagliati, la burocrazia impera. Eppure abbiamo retto di fronte di fronte allo tsunami che si chiama Covid-19.

Spesso i pazienti si lamentano di non essere ascoltati abbastanza. Però mi pare che la pan- demia stia ridefinendo il rapporto medico-paziente. Si può ipotizzare un cambiamento, un miglioramento dell’interazione, secondo lei?

La domanda è difficile. In questi ultimi anni, forse negli ultimi decenni, il fatto che il sistema sanitario nazionale sia stato così poco considerato, e quindi si siano ridotti tutti gli elementi vitali, dal personale alle strutture, ha comportato che anche la relazione medico-paziente abbia perso il valore centrale che ha. Ma non per colpa dei medici e degli infermieri: è perché non abbiamo più tempo clinico. Perché siamo soffocati da altre incombenze. La relazione si è relegata ai nostri ritagli di tempo. Molti di noi lottano, impiegando molto più di quello che devono del loro spazio temporale in ospedale, per poter parlare ancora con i malati e con i parenti.

C’è una situazione molto particolare in questa pandemia, che ci dà ragione del fatto che definirla “drammatica” non è esagerato. I malati muoiono da soli. Non hanno, nelle ultime ore della loro vita o addirittura negli ultimi giorni della loro vita, il conforto di avere con sé i propri cari. Perché c’è un rischio infettivo, perché questo virus è altamente infettivo. I malati muoiono soli. In moltissime situazioni, una parola in parola in più di un infermiere o del medico, nonostante l’immane lavoro e l’impegno cui sono sottoposti, è l’unico segno di pietas quando questi malati arrivano alla fine. Certo, molti malati sono morti da soli, non hanno visto i loro cari. E i loro cari non hanno avuto la possibilità di stare loro vicino nel momento cruciale della vita, che è la morte. Questo è un dramma nel dramma.

Secondo lei, sarebbe auspicabile che tutto ciò che sta accadendo porti a un ripensamento del servizio sanitario nazionale e a una sua maggiore centralizzazione?

Io l’ho scritto e l’ho riscritto più volte. Dopo questi giorni bui, forse adesso c’è una luce di speranza che accada, lo dico con tutta la prudenza del caso, e noi dovremmo far sentire la nostra voce. Tutte le figure che sono impegnate nella cura di questi malati, hanno acquisito il diritto, quando tutto sarà finito, di farsi sentire, perché se lo meritano, perché hanno condotto le battaglie di questa guerra. Il nostro sistema sanitario deve essere ripensato, riorganizzato, rifinanziato. E, come afferma un lavoro importante uscito nel 2018 sul British Medical Journal, non bisogna mettere i politici nella sanità, ma bisogna mettere sempre la salute in tutte le politiche. L’unica cosa che ha dimostrato questa drammatica pandemia è che, se non avessimo avuto un sistema sanitario nazionale che non lascia indietro nessuno, non avremmo fatto diecimila e più morti, ma decine e decine di migliaia di morti.

69 Scorrendo i vari giornali quotidiani e locali, mi è sembrato che Brescia, così come Bergamo, sia sotto-rappresentata a livello mediatico. Sia le testate nazionali, sia quelle più legate al territorio lombardo, hanno iniziato tardi la narrazione su Bergamo e soprattutto su Brescia, che a mio avviso resta mediaticamente molto scoperta. Vorrei sapere se concorda con questa visione.

Non sono molto d’accordo, perché Brescia e Bergamo sono state al centro della cronaca nazionale, dei telegiornali. Alcuni di noi sono andati a parlare in trasmissioni della Rai e di La7, o sono stati intervistati; io stesso ho avuto richieste di interviste da trasmissioni di interesse nazionale. Non credo che siamo stati trascurati.

In questo periodo è molto importante che la comunità medica sia informata. La nostra rivista Brescia Medica, che è una rivista cartacea che esce ogni tre mesi, adesso l’abbiamo fatta diventare online, si chiama Brescia online ai tempi di Covid-19. Poi abbiamo cercato tramite la nostra pagina Facebook di dare informazioni di tipo normativo e amministrativo: i decreti, le circolari, le delibere della Regione, che ci hanno un po’ invaso. Abbiamo fatto una selezione e abbiamo cercato di tenere informati i medici. Noi abbiamo fatto la scelta non della protesta, ma della proposta, abbiamo cercato di capire le segnalazioni che ci arrivavano dai nostri colleghi, dalla comunità medica; abbiamo cercato di proporre e di realizzare delle indicazioni cliniche e di comportamento per i medici di medicina generale. Abbiamo cercato di informare, più che altro.

Diciamo che siete stati costretti, ma avete reagito in modo pragmatico e propositivo.

Noi abbiamo fatto questa scelta. Perché non ho urlato? Dovevo urlare prima, dovevamo far sentire la nostra voce prima, lo sapevamo che negli ospedali venivano decurtati i letti, che i medici non venivano assunti, gli infermieri non venivano assunti, la medicina del territorio più volte ha chiesto interventi in strutture e sistemi informatici che funzionassero. Dovevamo urlare prima. Adesso è il momento della pietas. È il momento dell’impegno di tutti senza polemiche. Dobbiamo trovare il modo di uscire da questa situazione.

C’è qualche altra cosa che ritiene importante dire?

Quando sarà finito questo tsunami, quest’onda che ci ha travolto, questa situazione imprevista e imprevedibile che ci ha sconvolti, vorrei che la gente si ricordasse del valore del nostro sistema sanitario nazionale, che certo deve essere riformato, ripensato, riorganizzato, e soprattutto rifinan- ziato. Siamo tra i paesi che spendono di meno in assoluto in Europa per il nostro sistema sanitario nazionale. Eppure prima di questo evento, nonostante tutto, eravamo con i primi sistemi del mondo per i risultati. Spero che la gente si ricordi che cosa hanno fatto i medici, gli infermieri, i tecnici di laboratorio, i volontari, gli autisti, gli operai.

Gli inglesi dicono che il loro sistema sanitario nazionale è un gioiello della corona. Io penso che il nostro sistema sanitario nazionale è un gioiello un po’ ammaccato, che non brilla molto, ma certamente è un gioiello della nostra repubblica. È insostituibile.

11. Politiche del tempo all’epoca del

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