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Intervista a Luciano Florid

Nel documento Elogio della paura (pagine 129-137)

Parte III – La comunicazione al tempo del Covid-

19. Intervista a Luciano Florid

«È come se ci fosse crollata la casa, ma una casa di cui ci lamentavamo: vogliamo ricostruirla come era prima o vogliamo ricostruire una casa migliore? La dobbiamo costruire. Ci vuole più design e meno nostalgia. Quindi progettazioni. Non ricostruirla com’era. E non cerca di costruirla in modi che sappiamo che non funzionano. [...] Non affrontiamo il futuro cercan- do di tornare al passato».

a. g. Luciano Floridi è docente di Filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford presso l’Oxford Internet Institute, dove dirige il Digital Ethics Lab. Tra le pubblicazioni:“The Logic of Information” (2019); “The Fourth Revolution – How the infosphere is reshaping human reality” (2014);“The Ethics of Information” (2013); “The Philosophy of Information” (2011); “Information – A Very Short Introduction” (2010). È ideatore e curatore dell’Onlife Manifesto, liberamente

scaricabile dal sito di Springer: https://www.springer.com/gp/book/9783319040929

Onlife è un fortunato neologismo da lei ideato che dà conto della complessa e continua inte- razione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva. Con la pandemia Covid-19 stiamo vedendo che onlife dà anche conto del repentino e mutato stile di vita degli italiani, autoreclusi in quarantena, in cui “life on the screen”, per ricordare una delle prime definizioni di vita sociale in rete, sta surclassando la vita materiale; è corretta questa consi- derazione?

Mi pare corretta, con una correzione alla correttezza, se posso; l’onlife per come l’avevo ideato, e mi auguro possa avvenire, è un buon equilibrio tra offline e online, tra analogico e digitale. In questo periodo di pandemia stiamo vivendo un po’ troppo online, non vorrei che si pensasse, come hanno detto alcuni, che si sia avverato ciò che dicevo; no: semplicemente, ora viviamo un po’ troppo online. Abbiamo impostato da tutto analogico e materiale alla vita sullo schermo. È all’uscita dalla pandemia, mi auguro tra pochi mesi, che si dovrà porre il giusto equilibrio, la giusta barra della direzione. In realtà se riusciremo a fare un buon lavoro, l’esperienza onlife potrà trarre il meglio dall’analogico e dal digitale. Per questo ho fatto l’esempio più volte del fiume e del mare; dove si

incontrano chiedere se l’acqua sia dolce o salata, vuol dire non aver capito dove si è: è entrambe le cose. L’acqua salmastra è rappresentativa dell’onlife, mentre esagerare nell’uno o nell’altro caso... tra chi non va mai online e chi ci sta sempre... non è onlife. Ci vuole equilibrio. È come la differenza tra il telelavoro e lo smart working; lo smart working è molto più onlife, è mettere entrambe le cose, offline e online: momenti in cui ci si vede, ci si stringe la mano, si prende un caffè, si usa la lavagna; in altri momenti, si lavora da casa, si fanno incontri virtuali, si collabora online. Non significa che, dato che non posso andare in ufficio, lavoro da casa nella misura in cui posso. O, per fare un altro esempio: l’insegnamento onlife non è l’insegnamento remoto, ma la giusta combinazione tra classe analogica e interazioni digitali, tra didattica online e offline.

Che cosa succederà nelle prossime settimane, cosa possiamo aspettarci, riguardo a questa evoluzione dell’onlife?

Le risponderei con le tre P: proiezioni, previsioni, e progettazioni. Leggo molto su proiezioni e previsioni, e leggo poco, e mi dispiace tanto, su progettazioni. Le prime due sono tentativi di capire cosa succederà senza costruirlo. È come se si pensasse di essere su di un treno e si cercasse di capire quale sarà la prossima stazione; la storia non è un treno, non va sui binari. La costruiamo oggi la storia di domani. Le proiezioni cercano di capire, stando le cose come stanno oggi, che cosa succederà domani; le previsioni tentano di leggere il futuro e capire come incida sul presente. La progettazione è una cosa diversa: costruisce con l’oggi il domani. Dovremmo investire molto di più sulle progettazioni, se vogliamo che questa esperienza tragica lasci un buon insegnamento. Sarebbe un peccato se domani tornassimo esattamente come stavamo prima. Leggo che dobbiamo tornarealla normalità. Ma veramente ci piaceva tanto questa passata normalità? Non stavamo bene prima: avevamo problemi di ingiustizia sociale, calo dell’occupazione, problemi di tipo ambientale, crisi politiche. La mia risposta non è in termini di proiezioni o di previsioni, ma in termini di progettazioni.

A me piacerebbe che la nostra società, almeno in Italia e in Europa, recuperasse componenti di solidarietà, di progetto umano e sociale che abbiamo trascurato. Non si tratta di rimpiazzare una cosa con un’altra, ma affiancare cose del passato con altrettante cose buone per il futuro. Il progetto umano che abbiamo avuto nelle società avanzate è stato molto individualista e molto legato ai consumi, poco sociale e poco legato alla cura. Se noi, invece di avere soltanto consumo e indivi- dualismo, avessimo anche cura e comunità allora il nuovo “normale” sarebbe migliore del vecchio “normale” : su due gambe si cammina meglio. Noi sinora abbiamo zoppicato su di una gamba sola, il consumismo individualista. Adesso, che ci sarebbe bisogno di un progetto umano anche sociale, non c’è. Lo stiamo costruendo mentre ne abbiamo bisogno. Ho sentito purtroppo dei colleghi che parlano di “spallata al capitalismo”, con proiezioni e previsioni che sono novecentesche! È una cosa straziante pensare che da tutta questa brutta storia emerga un ritorno al passato che non è mai esistito, con un centro-sinistra al quale sembra mancare una progettualità liberale all’altezza delle nuove opportunità e sfide. Significa non fare i conti con la realtà e non tirarsi su le maniche per progettare un XXI secolo che non sappiamo ancora come disegnare.

C’è molto lavoro da fare, ma non è semplicemente un recupero come sento dire da tanti, dal PD al The Guardian; chi parla di “stato imprenditore”, di statalizzazione delle imprese, di tutto basato sulla rete sociale, vuol dire che non ha capito. Non ha funzionato in passato, e c’è una ragione, e non funzionerà in futuro. È come qualcuno che, avendo provato qualcosa in passato e avendo sbattuto contro diversi problemi, di fronte a un disastro come quello di oggi dica «hai visto? Abbiamo risolto anche i problemi che non rendevano possibili quelle soluzioni». Non è così. È come se ci fosse crollata la casa, ma una casa di cui ci lamentavamo: vogliamo ricostruirla come era prima o vogliamo ricostruire una casa migliore? La dobbiamo costruire. Ci vuole più design e meno nostalgia. Quindi progettazioni. Non ricostruirla com’era. E non cerca di costruirla in modi che sappiamo che non funzionano. La casa che avevamo non ci piaceva, ma c’erano buone ragioni per

131 le quali avevamo quella e non un’altra. Non affrontiamo il futuro cercando di tornare al passato. Immagini se, non appena possibile, non facessimo più smart working. Se tornassimo alla normalità preesistente, alla “normalità”, allo status quo ante, e abolissimo i pagamenti online, le facilitazioni, la digitalizzazione... non è una soluzione andare avanti facendo due passi indietro.

Lei è considerato il padre della Filosofia dell’informazione... quali saranno le prossime sfide, i temi di cui si occuperà? Legati alle libertà individuali e alla privacy, per esempio, al traccia- mento delle persone secondo la loro “negatività” o “positività” con app, in nazioni europee e anche in Italia...

Dipende un po’ dalla profondità della cronologia. Di qui ai prossimi sei mesi è probabile che avre- mo una pressione significativa sui diritti umani e civili a favore della salute pubblica; in momenti di grave crisi alcuni diritti vengono momentaneamente sospesi. Per esempio, durante una guerra, la libertà di parola viene sospesa. Non è quello che stiamo vivendo, non siamo in guerra, non è un paragone ma solo un’analogia. In un contesto di pandemia è possibile che la società decida, insieme, non come imposizione dall’alto, di limitare momentaneamente e solo se necessario, utile e in modo proporzionato la privacy individuale, con una chiara e esplicita scadenza nel tempo, in maniera democratica. Si decide di fare questo sacrificio, ed è lo scenario che disegnerei.

La cosa migliore che potrebbe avvenire per noi è che in questi sei mesi le condizioni fossero tali che le soluzioni progettate le avessimo anche dopo. Che noi trovassimo soluzioni, per esempio per il tracciamento delle persone per contrastare la pandemia, tali che, quando le cose cominceranno ad andare meglio, continueranno a piacerci. In questo caso avremmo trovato delle soluzioni buone, legalmente ed eticamente.

Poi in termini ancora più lunghi, per un ritorno a una post-pandemia, per andare verso una buona nuova normalità, non una vecchia normalità, vedrei molto positivamente la costruzione e il disegno di regole socio-politiche di gestione dell’informazione in modo intelligente.

Abbiamo lasciato il mondo digitale e della comunicazione online a grandi aziende californiane: non credo che abbiano fatto un pessimo lavoro ma si può fare un lavoro di gran lunga migliore. Facebook, Amazon, Google non hanno fatto disastri paragonabili, per esempio, a quelli che hanno fatto certi stati negli ultimi settant’anni... Detto questo, non stanno facendo il lavoro ottimale che potrebbero fare e hanno fatto e continuano a fare troppi errori, nella gestione delle fake news per esempio, e ovviamente nei confronti del rispetto della privacy e della competizione. Perciò, vedrei bene un’assunzione o un’allocazione di maggiori responsabilità da parte di questi grandi attori, con una regolamentazione europea.

Poi i problemi dell’ingiustizia sociale e della distruzione ambientale: vorrei che questo periodo tragico fosse un periodo di maggiore consapevolezza, nei confronti del passato, del presente e del futuro. Dobbiamo essere più consapevoli della sofferenza delle generazioni passate. Per esempio ci lamentiamo di rimanere a casa, giustamente, ma sento fare paragoni ridicoli, come quelli con situazioni legate al nazismo e alla condizione degli ebrei.

Consapevolezza nel presente: quanto avevamo che abbiamo perso!

Quanti si svegliano la mattina dicendo “che bello oggi non ho il mal di denti?” Siamo in pochi. Se noi facessimo questo esercizio spirituale... Ecco, noi abbiamo avuto un brutto incidente, dobbiamo avere consapevolezza di quanto siamo stati bene. Il problema era solo che il PIL non cresceva abbastanza? Bei tempi, magari poterci tornare, vero?

E poi consapevolezza nei confronti del futuro, delle sfide che possiamo affrontare: è entusiasman- te pensare a ciò che può fare la società, tutti insieme. La costituzione americana ha un incipit bellissimo: We the people. Se l’umanità si mette insieme e fa uno sforza collettivo, sociale, può affrontare qualsiasi sfida. Una piccola battuta: io sono di Roma e vicino all’università c’è Porta Pia, con un monumento al bersagliere. Sotto c’è una scritta molto retorica che dice «Nulla resiste al bersagliere». Da studente universitario, l’ho fatta mia: nulla resiste all’umanità. Se ci mettiamo tutti

insieme, riusciamo a risolvere anche il problema dell’ingiustizia sociale, ambientale, ma insieme. La consapevolezza di oggi è importante. Quando qualcuno ci dirà tra sei, dodici, diciotto mesi: «non si può fare», ecco, allora a quel punto ricordiamoci ciò che abbiamo fatto oggi insieme, quando le risorse si sono trovate, il coordinamento è stato esercitato, i sacrifici sono stati fatti... ricordiamocelo domani, quando ci saranno altri problemi, altrettanto gravi, come quello dell’inquinamento e del riscaldamento globale. Se riusciremo a fare tutto questo, la tragedia della pandemia avrà perlomeno avuto un risvolto non del tutto negativo, avrà lasciato un minimo di eredità positiva, un grande insegnamento di fiducia in noi stessi, in we the people.

Che cos’è il progetto “the human project” di cui ho sentito parlare?

Uscirà tra poco per Cortina un libro, Il verde e il blu. Idee ingenue per migliorare la politica, che ho scritto molto prima della pandemia e che contiene la proposta di guardare al progetto umano del XXI secolo come a un matrimonio tra un problema, dato dai nostri ambienti, sociali, politici, l’ambiente, gli environment, che stanno tutti messi male, cioè il “problema verde” appunto, e la soluzione che sono le tecnologie del digitale, il “blu”. Mettere insieme soluzioni digitali, blu, e problemi ad ampio raggio, verdi, per cercare di capire come il digitale può aiutare a risolvere i problemi. Non si tratta di una soluzione tecnologica, ma di usare la tecnologia per darci una mano: economia circolare, economia verde, una politica più informata sul versante dei cittadini: sono solo alcuni esempi. “Progetto umano” significa affiancare all’individualismo del capitalismo consumista un capitalismo che si prenda cura del mondo, con un progetto anche sociale e una solidarietà a tre dimensioni: tra noi cittadini, tra ciascun cittadino e la società, e tra la società e l’ambiente che la ospita e sostiene. Forse la pandemia ci insegnerà, politicamente e socialmente, a fare uno sforzo di cui essere orgogliosi per lasciare una buona eredità, nella speranza che le generazioni future ci ringrazieranno per aver fatto le scelte giuste.

IV

INTRODUZIONE. . . 135

20

La didattica ai tempi del coronavirus. Etnografia di

un’eccezionale normalità . . . 137

21

#iocucinoacasa. Lockdown italiano: pratiche culinarie in

quarantena . . . 143

22

Alice oltre la soglia. Arte e cultura durante la quarantena151

23

Il corpo, il vestito, il Covid-19 . . . 157

24

Come cambia il mondo (e il calcio) . . . 169

25

«Quando usciremo di casa...». Lo spazio domestico in stato

di eccezione . . . 173

26

Le genti del bel paese là dove ’l sì suona. La musica.

Intervista a Lucio Spaziante . . . 177

Introduzione

La quarta parte del saggio è forse quella più complessa, poiché si è cercato di delineare ciò che succede nelle case degli italiani, che sono diventate nido domestico e familiare, ma anche luogo di lavoro, aula scolastica o universitaria, luogo di consumo e baricentro di attività legate al tempo libero. Sabrina Parisi, antropologa e insegnante di scuola superiore, racconta la sua esperienza di Didattica a Distanza, con i cambiamenti che essa ha comportato nella routine di docenti e studenti. Alessandra Guigoni, antropologa del cibo, illustra l’evoluzione delle pratiche alimentari e culinarie nelle case, ma anche sul mercato.

Gli antropologi torinesi Cristina Balma Tivola e Gianluigi Mangiapane tratteggiano con vivacità un quadro delle pratiche artistiche, culturali e museali nel lockdown, esaminando la mobilitazione di diverse realtà, sia piemontesi che di altri territori italiani.

La sociologa esperta di moda Cecilia Winterhalter dà conto di una vera e propria ricerca etnografica condotta sulle bacheche Facebook e sui gruppi WhatsApp, incentrata sulla trasformazione in atto dell’espressione dell’immagine di sé in tempo di reclusione.

Bruno Barba, esperto di antropologia del calcio, ci racconta come il calcio italiano vive questo momento, mentre Rossana di Silvio, antropologa e psicologa, affronta il delicato tema dei bambini pazienti di un servizio di neuropsichiatria infantile da un lato, dei ragazzi in una comunità per minori dall’altro, e della loro esperienza di quarantena.

Chiude la sezione l’intervista al semiologo Lucio Spaziante, che esamina con acume nuove per- formance musicali, come la musica e i canti dai balconi e i live a distanza sui media e sui social: nuove forme di attivazione delle relazioni a distanza e strumenti non soltanto di resilienza e di consolazione, ma espressione di sé e di un nuovo mondo ancora da studiare.

20. La didattica ai tempi del coronavirus.

Nel documento Elogio della paura (pagine 129-137)