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Molecolare versus ecosistemico o circolare Intervista a Roberta Raffaetà

Nel documento Elogio della paura (pagine 63-67)

Parte II – Covid-19 in Italia

9. Molecolare versus ecosistemico o circolare Intervista a Roberta Raffaetà

«Le oscillazioni tra sottovalutazione e sopravvalutazione [del Covid-19] sono in un certo sen- so fisiologiche, ma danno la misura di quanto siamo “ottusi” culturalmente, di quanto è importante allenare la capacità a immaginare oltre l’ordinario. In questo, l’antropologia può offrire molti insegnamenti»

a. g. Antropologa della medicina all’intersezione con tematiche ambientali, assegnista di ricerca e do- cente presso la Libera Università di Bolzano, facoltà di Design e Arte, ha in corso di pubblicazione il saggio“Antropologia dei microbi”. Cosa vuol dire essere umani (e stare in salute) in un mondo di microbi?

Cosa possono fare gli antropologi della medicina per aiutare in questo contesto?

Questa pandemia si trova, come ogni stato di salute e malattia, al crocevia tra salute, ambiente, politica ed economia, quindi interroga tutte le antropologhe e gli antropologi. Sicuramente le antropologhe e gli antropologi medici, ma anche le altre specializzazioni.

Il contributo che al momento possiamo dare è, secondo me, quello di partecipare all’impresa collettiva del dare un senso a ciò che sta accadendo, riflettere e dialogare. Ma anche sviluppare e indirizzare proposte di ricerca o di policy concrete e strutturate per quando la pandemia sarà passata. Le antropologhe e gli antropologi non hanno risposte o soluzioni definitive a questa pandemia. Non ce le abbiamo non perché l’antropologia sia meno scientifica di altre discipline, ma proprio perché è scientifica. Come abbiamo visto, anche medici e virologi stanno cercando di dare interpretazioni valide, ma le posizioni cambiano nel corso del tempo sono multiple e diverse tra loro.

Come ogni scienza, anche l’antropologia va avanti per prove ed errori, attraverso il confronto democratico. Quindi, a mio parere, è nostro dovere partecipare a questa discussione sul Covid-19, anche se il nostro contributo sarà sicuramente perfettibile e a volte potremmo sbagliarci, cosa facile in una pandemia che muta velocemente. Ragion per cui dobbiamo essere molto attenti a ciò che scriviamo, ricordandoci sempre che attraverso le nostre parole rappresentiamo altri e che il modo in cui lo facciamo ha delle ripercussioni concrete.

Nello specifico, penso che l’antropologia possa dare un contributo offrendo prospettive alternative a quelle mainstream dei media o istituzionali. Questo è uno dei suoi caratteri distintivi. Certamente, una volta che la pandemia sarà terminata, ci sarà la necessità di operare una valutazione comparativa di ampio respiro. Non penso, però, che questo tipo di contributo debba escludere un nostro impegno, più puntuale e in progress, nel corso della pandemia. Nelle scienze biomediche, per esempio, i ricercatori pubblicano e condividono con i colleghi di tutto il mondo i loro risultati preliminari e, nel caso di test per lo sviluppo di farmaci, è necessario pubblicare i risultati dello studio anche se questi non confermano le ipotesi. Ovviamente le scienze “dure” e quelle “umane” sono molto diverse tra loro, e noi non necessariamente dobbiamo imitare le prime. Penso però che, come tutte le altre scienze, l’antropologia non è un sapere che offre verità, ma è un sapere che si fa, si costruisce, anche attraverso il confronto quotidiano e interdisciplinare.

Detto questo, penso sia importante trovare il giusto bilanciamento tra l’espressione, il silenzio e l’ascolto. Personalmente, all’inizio della pandemia ho scritto molto. Per me è stato naturale: da sei anni cerco di vedere il mondo dalla prospettiva dei microbi (o meglio, di chi li studia), e proprio nei giorni in cui sono stati identificati i primi casi in Italia stavo scrivendo la conclusione di un libro sul tema. Ora, però a distanza di qualche settimana, sento il bisogno di ascoltare e di osservare. Infine, una cosa che ho imparato in queste settimane è che, se si vuole contribuire in maniera appropriata durante la pandemia, è importante il timing e la velocità. Più di venti giorni fa, la rivista Medical Anthropology mi ha chiesto di scrivere un pezzo sull’epidemia in Italia per far conoscere cosa stava succedendo ai colleghi e ai lettori. Ho accettato la proposta e due giorni dopo ho inviato il pezzo, che però è uscito solo quindici giorni dopo (il 26 marzo). Questi sono tempi brevi per una rivista strutturata come quella, ma decisamente troppo lenti per la situazione. Quando sono state pubblicate, forse, quelle riflessioni non erano più tanto utili né attuali. Mi è sembrato un aggiungere rumore ad altro rumore.

La gestione della pandemia mostra i limiti della biomedicina. È corretto?

Dipende da che prospettiva si guarda la situazione. Per tutte e tutti quelli che “credevano” alla biomedicina, quasi questa fosse una religione, ossia credevano che fosse oggettiva, infallibile e una soluzione a tutti i mali, questa situazione svela invece la sua vera natura. Ovvero che, come tutte le discipline scientifiche, è uno studio in divenire, imperfetto e perfettibile, culturalmente determinato, eccetera.

Ma, per la mia esperienza etnografica, le ricercatrici e i ricercatori, e i medici per primi, sono consapevoli dei limiti delle loro “costruzioni” e delle loro soluzioni. Le portano avanti per vari motivi, per esempio per ragioni di efficacia o di abitudine. Mi sono trovata più di una volta a cercare di aiutare un medico o un ricercatore per far comprendere al pubblico i loro limiti.

Detto questo, ritengo comunque che questa pandemia avrà quasi sicuramente delle ripercussioni sul modo in cui la biomedicina viene condotta e organizzata. Questa situazione incrina alcune certezze riguardo le priorità che devono guidare la ricerca biomedica e l’organizzazione della salute pubblica. Per esempio, l’efficacia delle cure a breve termine versus quelle a lungo termine, la visione molecolare versus la visione ecosistemica, la cura versus la prevenzione, e via dicendo. Ciò determina anche una riflessione riguardo la crescente privatizzazione della sanità e le gerarchie mediche. Per concludere, direi che, più che mostrare i limiti della biomedicina, la pandemia sta incrinando le certezze sulle priorità.

Ogni malattia è letta anche in modo culturale, per esempio in termini di sottovalutazione/ sopravvalutazione. Cosa ne pensi?

Questa, più che una malattia, mi sembra essere una situazione. Certo ci sono stati svariati momenti di sottovalutazione e di sopravvalutazione. E vediamo che il pattern si sta ripetendo, più o meno identico a sé stesso, in altre nazioni, nonostante i diversi approcci e i diversi contesti socio-politici.

65 Penso che ciò faccia parte dell’esperienza stessa di pandemia, ossia dell’essere come in un mare in tempesta e scoprirsi fragili e vulnerabili. Questa situazione richiede tempo anche per essere compresa e assimilata, per darle un senso. Le oscillazioni tra sottovalutazione e sopravvalutazione sono in un certo senso fisiologiche, ma danno la misura di quanto siamo “ottusi” culturalmente, di quanto è importante allenare la capacità a immaginare oltre l’ordinario. In questo, l’antropologia può offrire molti insegnamenti. È l’atteggiamento che è importante, guardare ciò che sta accadendo con occhi attenti, ma anche allenati ad accettare la diversità. Per questo il confronto è fondamentale. In Italia alcuni propongono un ripensamento/riorganizzazione del servizio sanitario nazio- nale. È giunto il momentum anche per gli antropologi della medicina?

A mio parere è sempre stato il momento delle antropologhe e degli antropologi che si occupano di salute e malattia. Lo dico perché da sempre abbiamo cercato di incrinare le certezze sulle priorità del sistema sanitario e della ricerca in biomedicina.

Sicuramente ora i governi saranno più disposti a investire nel servizio pubblico e a riconsiderare alcune delle cose che ho elencato in precedenza. Ma ciò non si tradurrà automaticamente in una maggiore presenza della nostra disciplina. Molto dipenderà da quanto siamo e saremo incisive e incisivi nel comunicare e soprattutto da chi saranno le nostre interlocutrici e i nostri interlocutori. È un’occasione importante, ma è altrettanto importante comunicare le nostre idee e osservazioni anche ai policy makers e al mondo della politica con un linguaggio comprensibile e “digeribile”, ossia con un lavoro di mediazione capace di comprendere anche le necessità e le prospettive dell’altro, pur mantenendo la carica critica che ci contraddistingue.

E poi, come ho detto sopra, se aspettiamo di “deliberare” solo una volta che l’epidemia sarà finita, quando – forse – saremo capaci di avviare dei progetti strutturati, l’occasione sarà già passata e sarà stata colta da altri. Una comunicazione veloce è complementare, non dicotomica, rispetto a una più lenta e ragionata. L’una nutre l’altra.

Se potessi dare un consiglio all’ISS, secondo la tua lettura del fenomeno della pandemia, cosa consiglieresti?

Direi di riprendere in considerazione le priorità in base alle quali è stato strutturato il sistema sanitario: tutti gli elementi che ho elencato in precedenza. Ciò ovviamente riporterebbe respiro alla sanità in quanto bene pubblico.

Nel mio lavoro, in particolare, mi occupo della tensione che c’è tra la “visione molecolare” e la “visione ecosistemica”. Penso che se andiamo avanti a considerare la salute come una proprietà dei corpi, come la salute di un organo o il risultato di un test del DNA, sarà difficile raggiungere i vari goals che varie realtà internazionali si stanno prefiggendo in termini di salute. La “visione molecolare” è sicuramente importante, ma questa dovrebbe essere integrata con una “visione ecosistemica”, ossia la salute andrebbe studiata e gestita come una proprietà emergente da un insieme di relazioni che sono nel corpo ma vanno anche oltre il corpo e che includono la situazione socio-politica, culturale e ambientale. Queste sono tutte cose che non possono essere slegate. Ciò è stato detto ben prima di me, ovviamente, ma purtroppo è rimasto perlopiù come retorica, scarsamente o malamente attuata nella gestione della salute pubblica (senza contare le eccezioni che confermano la regola) e nei protocolli della ricerca biomedica, che solo di rado sono genuinamente interdisciplinari.

Come abbiamo visto, è difficile comprendere la pandemia solo con il conteggio dei tamponi effettuati o dei soggetti contagiati. Questi conteggi – e le varie “previsioni” che ne conseguono – vengono vissuti da molti come un rito giornaliero capace di “svelare la verità”. Ma i numeri e le statistiche dipendono da contesti socio-culturali e politici. Focalizzarci sui numeri fa scivolare in secondo piano tante cose, tra cui i processi dinamici, ambientali e globali del contagio. Comprendere queste dinamiche è importante per comprendere le cause che hanno generato questa pandemia, e

quindi anche per capire come possiamo prevenire future pandemie.

Le epidemie mondo moderno – a Spagnola, l’Ebola, l’HIV l’aviaria... – sono tutte zoonosi, ossia malattie provocate da un virus che normalmente coabita con gli animali e poi, per una qualche ragione, transita agli esseri umani. Un certo numero di scienziati ipotizza che queste pandemie saranno sempre più frequenti perché sono anche legate alla devastazione violenta e veloce degli ecosistemi, causata dalla pressione esercitata dalla nostra specie.

In futuro, dopo la fine della pandemia, andranno fatte ricerche epidemiologiche nell’ottica di una salute ecosistemica, quella che la virologa Ilaria Capua, autrice del testo Salute circolare. Una rivoluzione necessaria, chiama appunto “salute circolare”, cui partecipino antropologhe e antropologi, ma anche altre figure come patologhe e patologi, veterinarie e veterinari.

10. Eppure abbiamo retto di fronte allo

Nel documento Elogio della paura (pagine 63-67)